Visualizzazione post con etichetta Colin Farrell. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Colin Farrell. Mostra tutti i post

mercoledì 1 febbraio 2023

Gli Spiriti dell'Isola

Un'isola chiamata Umanità


Irlanda, 1923. Dopo una vita spesa a incontrarsi ogni giorno con l'amico Pádraic per una birra e quattro chiacchiere, un giorno Colm decide di non aprirgli la porta di casa: ha deciso che parlare con Pádraic è solo una perdita di tempo, e gli intima di non parlargli mai più e lasciarlo concentrare sulla sua musica, unica traccia del suo passaggio su questa Terra. Pádraic, devastato, non si rassegna, e cerca in ogni modo di convincere l'amico a cambiare idea, coinvolgendo anche la sorella Siobhan e il matto del villaggio, Dominic: Colm, tuttavia, non cambia idea, e anzi sfodera una minaccia terribile se l'ex amico non si deciderà a lasciarlo in pace.

Il conflitto permea le nostre vite, a tutti i livelli: sul lavoro, tra nazioni, tra aziende, persino nella vita di coppia e tra amici. È un concetto pervasivo, e di cui proprio per questo è difficile parlare efficacemente: sarebbe come cercare di parlare del rumore di fondo o dell'aria che respiriamo. Per farlo servono non solo un testo impeccabile, ma anche una capacità di rimanere ancorati alla realtà e, al tempo stesso, astrarsene - parlare del quotidiano sia dei massimi sistemi. Un'operazione, questa, simile a quella fatta dai grandi filosofi, ma difficilissima da trasporre all'interno di un film dall'impianto comunque narrativo. 

Per farlo serve un grande scrittore ma soprattutto un grande regista: Martin McDonagh è ambedue le cose. Il conflitto in Gli spiriti dell'isola è sfaccettato, poliedrico, e multilivello: quello tra Pádraic e Colm è il motore della vicenda e poggia su basi surreali, ma al tempo stesso tremendamente realistiche. L'autolesionismo è sopra le righe, certo, ma rende per immagini un elemento fondamentale di tutti i conflitti che vanno fuori controllo: non ci può essere un vincitore, solo qualcuno che si fa meno male dell'altro. Una volta che la trappola è scattata, è impossibile sfuggirle senza perdere qualcosa di noi stessi. Siobhan e Dominic sono in conflitto con l'isola stessa, entità monolitica, ancestrale e silenziosa perfettamente rappresentata dall'inquietante vegliarda che sembra divertirsi a tendere loro imboscate. Il loro modo di guardare la vita si scontra con quello sempre uguale e immoto dei loro conterranei, e li condanna a un'eterna infelicità che sembra impossibile da scalfire: la voce dei loro personaggi è la voce della ragione, che rimane però inascoltata per la loro natura di "diversi".


Al largo della costa, lontana eppure terribilmente vicina, si consuma la lotta fratricida del conflitto irlandese, convitato di pietra della vita sull'isola: un conflitto che, come quello tra Pádraic e Colm, poggia su basi talmente antiche da essere ormai irrazionali, ma con radici così tortuose e intrecciate da essere ormai inestirpabili. Su tutto incombe una natura meravigliosa e matrigna, che toglie il fiato e stordisce, spingendo all'inazione: una natura la cui bellezza irretisce e terrorizza al tempo stesso, divinità distante che ci costringe ad affrontare la nostra piccolezza. Proprio la paura di non contare, di non essere ricordato è alla base del conflitto tra Pádraic e Colm, con il secondo che desidera lasciare un segno, dominare la morte (e, con lei, la natura immutabile) rendendosi immortale attraverso la sua musica. Colm è la ragione, Pádraic il sentimento; Colm è l'uomo che doma gli elementi, Pádraic colui che impara a conviverci; Colm è Lear, Pádraic il Folle. Tutta la vicenda ha eco di teatro classico, tra Shakespeare e tragedia greca, ma riesce al tempo stesso a parlare al presente - un presente in cui, nonostante la nostra pretesa di superiorità, il conflitto è ancora ben presente e sta erodendo i fondamenti della nostra società, facendone lentamente marcire il cuore.

McDonagh scrive una sceneggiatura semplicemente perfetta, che oscilla tra esilarante e drammatico sfociando anche nel pulp e nel grottesco - uno stillicidio di eventi in cui il masso inizia a rotolare giù dalla collina e lo spettatore continua a illudersi che si possa ancora fermarlo: in fondo procede così lentamente... Ma il masso procede inesorabile, e acquista sempre più velocità, trascinandoci con lui verso un finale di rara potenza emotiva. McDonagh non è, però, solo un geniale drammaturgo, ma anche un regista di precisione chirurgica. La sua abilità di cucire insieme i vari elementi del film è superba. La musica è evocativa e spettrale, dinamica e struggente al tempo stesso, a rappresentare l'evoluzione rapsodica e incontrollata del rapporto dei due protagonisti; la fotografia è contemplativa, fatta di una continua alternanza di primi piani e campi lunghi, a evidenziare l'isolamento e la solitudine sia dei protagonisti, sia dell'isola stessa. 

Gli attori sono sublimi, e alcuni di loro offrono le prove migliori della loro carriera, Colin Farrell in testa, perfetto nel ruolo di un uomo povero di cervello ma ricco di cuore, un uomo buono cui viene negato l'affetto e, per questo, scivola lentamente nell'astio e nell'odio, un odio alimentato dal dolore. Brendan Gleeson è il suo opposto, sicuro di sé e delle sue decisioni, capace di un cambio tanto radicale quanto apparentemente insensato, guidato dall'ego ma soprattutto dalla coscienza della sua mortalità, del suo essere un granello anonimo nella clessidra dell'universo. La sua devozione al suo cervello, alla sua creatività è tale che è disposto a sacrificarle tutto, compreso il suo cuore e i suoi arti: un atto di abnegazione che si fa masochismo, e che sembra fare il verso a quelli che, in un conflitto fratricida come quello irlandese, sembrano atti di eroismo, ma si rivelano a lungo termine inutili o addirittura deleteri. Kerry Condon e Barry Keoghan sono coprotagonisti solo nel conteggio matematico delle battute: le loro prove sono centrali per la riuscita del film, ed esprimono al meglio il sentimento di coloro che intravedono la tragedia, urlando di fermare il masso, ma non trovano nessuno che li ascolti.

Gli spiriti dell'isola conferma che Martin McDonagh non sbaglia un film. Dopo In Bruges, 7 Psicopatici, e Tre Manifesti, il regista-scrittore sfodera un altro film impeccabile, probabilmente il suo migliore: un film che, attraverso il microcosmo di un'isola, racconta il macrocosmo dell'umanità, con la sua cecità, la sua volontà, a parole, di evitare il conflitto, e la sua cronica incapacità di farlo. Gli spiriti dell'isola parla di noi: di ciò che siamo, di ciò che stiamo diventando, ma anche di ciò che, forse, siamo sempre stati: incancreniti nelle nostre convinzioni, immobili ma pronti a esplodere come l'isola di Inisherin.

*****

Pier

martedì 6 settembre 2022

Telegrammi da Venezia 2022 - #5

Quinto telegramma da Venezia, con utopie/distopie anni cinquanta, storie di fantasmi sui generis, cadaveri cinematografici italiani, western classici, e il film migliore visto finora alla Mostra.


Don't Worry Darling (Fuori Concorso), voto 6. Dopo l'ottimo esordio di Booksmart, Olivia Wilde torna alla regia con un film del tutto diverso, un'utopia anni Cinquanta dove qualcosa è fuori posto. Il film si muove tra thriller e horror con un buon ritmo, ma ripete temi già visti e non spicca per originalità. Ottima la prova di Florence Pugh, cuore pulsante del film. Qui la recensione estesa scritta per Nonsolocinema.

The Banshees of Inisherin (Concorso), voto 10. Che dire? Martin McDonagh non sbaglia un film. Dopo In Bruges, 7 Psicopatici, e Tre Manifesti, il regista-scrittore sfodera un altro film impeccabile, forse il suo migliore: una sceneggiatura perfetta, interpretazioni sublimi, musiche e fotografia evocative, e una regia che amalgama il tutto con sapienza. Un film che, attraverso il microcosmo di un'isola, racconta il macrocosmo dell'umanità, con il conflitto per futili motivi tra due (ex) amici che si fa simbolo del conflitto irlandese, ma in generale di tutti i conflitti tra uomini, gruppi, e nazioni. 

The Eternal Daughter (Concorso), voto 5.5. Una ghost story sui generis, con l'ennesima ottima interpretazione di Tilda Swinton (in un doppio ruolo) e splendidi fotografie e sonoro, gotici e d'atmosfera. La sceneggiatura è però debole, con un colpo di scena (peraltro non fondamentale ai fini del messaggio) che tale non è, e una tematica già vista. Peccato, perché le atmosfere sono davvero suggestive.

Il Signore delle Formiche (Concorso), voto 2. Un film che puzza di cadavere per quanto è vecchio, mal scritto e mal recitato, al punto di sembrare la parodia di uno di quei prodotti da cineforum che sarebbero piaciuti a Guidobaldo Maria Riccardelli. Qui la recensione estesa scritta per Nonsolocinema.

Dead for a Dollar (Fuori Concorso), voto 6. Un western classico con qualche spunto bizzarro e innovativo, soprattutto nel montaggio. Cast di livello che include, oltre a Waltz e Dafoe, anche Rachel "Mrs. Maisel" Brosnahan. 

Pier

lunedì 7 marzo 2022

The Batman

Il mistero del pipistrello


Da due anni Bruce Wayne combatte il crimine a Gotham City nei panni di Batman, giustiziere che si nasconde tra le ombre e sta lentamente diventando sinonimo di terrore tra i criminali. L'omicidio di un personaggio molto in vista lo porterà sulle tracce di un serial killer che ama gli enigmi, ma anche a scavare nella storia ufficiale della città, riportando alla luce storie che, forse, dovevano rimanere sepolte.

Piove, a Gotham City, ma non è una pioggia catartica, che lava via i peccati: è una pioggia tossica, che scava nel terreno e nell'anima e fa riaffiorare scheletri ed esondare le fogne, riportando a galla il marcio su cui è costruita la città. La voce di Batman ci immerge nelle lunghe notti di Gotham, come quella di un detective privato alla Philip Marlowe o alla Sam Spade (o, per citare un esempio più recente, come i protagonisti della saga di Sin City): disincantato, disilluso, portato ad andare avanti solo da un senso del dovere che trova senso in se stesso e non nei risultati, che anzi spingerebbero a desistere.

Fin dalle prime battute, The Batman si rivela per quello che é: un noir, con l'Uomo Pipistrello a fare le veci di Humphrey Bogart, a indagare, stanare, risolvere un caso che da "semplice" omicidio si rivela essere molto di più, aprendo uno squarcio nell'abisso che è il passato di Gotham City. Batman non distoglie lo sguardo, e l'abisso guarda dentro di lui. L'indagine è lenta, faticosa, procede per false piste, tentativi, dettagli non colti, dimenticati, ricordati: il pipistrello è, in fondo, un topo con le ali, e come un topo si perde nel labirinto eretto dall'Enigmista, in un'incarnazione lontanissima da quella di Jim Carrey in uno dei Batman che ci piace dimenticare, e più vicina al serial killer di neo-noir come Seven o Zodiac. Non mancano i classici ingredienti del noir, dalla polizia corrotta alla femme fatale, una Selina Kyle/Catwoman ben delineata per profondità di motivazioni e personalità. 

Al centro di tutto c'è un Batman neofita: Bruce Wayne indossa da appena due anni il costume del pipistrello. La scelta di ambientare il film non "alle origini" del personaggio ma appena dopo consente di esplorare un aspetto finora ignorato da tutte le incarnazioni cinematografiche dell'Uomo Pipistrello (solo Nolan lo aveva sfiorato nel secondo capitolo della sua trilogia), ovvero quello dell'identità, di quale sia la reale missione di Batman. È un vendicatore? Un giustiziere? Un anticorpo al virus che sta divorando Gotham, o un anticorpo autoimmune, che sta contribuendo a distruggere ciò che dovrebbe proteggere? Bruce Wayne è ancora in preda al lutto, e non ha una risposta a questa domanda. Il suo percorso, la sua catabasi nei bassifondi della città lo porteranno a trovarla, e non sarà quella che si aspettava: il regista Matt Reeves gioca con intelligenza con il mito di Batman, e riesce a ricavarne una risposta forse non stupefacente, ma sicuramente diversa, quasi spiazzante rispetto all'immagine che le ultime incarnazioni avevano deciso di abbracciare.


Se la sceneggiatura, pur con qualche lungaggine evitabile e senza guizzi particolari, convince, il pezzo forte del film sta indubbiamente nelle atmosfere. Reeves mostra di aver imparato la lezione visiva di Joker e della serie animata, e ci presenta una Gotham sporca, brutta, realistica ed espressionista al tempo stesso: un trionfo di ombre e vicoli bui, di strade lercie e abbandonate alternate con edifici goticheggianti . La fotografia punta tutto sul rosso e il nero (e loro combinazioni) che campeggiano nel titolo, e riduce la luce al minimo indispensabile, puntando sul non-visto, su quello che si nasconde nell'oscurità (magistrale, in tal senso, la scena di apertura), lasciando che siano gli spettatori a costruire mentalmente quel che non si vede. Le scene di azione sono ben coreografate, con almeno due pezzi di bravura. La colonna sonora di Giacchino è splendida, con un tema principale che entra subito in testa e temi secondari ben orchestrati.

Il vero punto forte del film, però, è il casting: non c'è una parte fuori posto, dall'Enigmista di Paul Dano (debitore dell'Arthur Fleck di Joaquin Phoenix nella scrittura, ma non nell'interpretazione, più simile a quella dello stesso Dano ne Il petroliere) alla Selina Kyle di Zoe Kravitz, passando per l'Alfred di Andy Serkis e il Pinguino dell'irriconoscibile Colin Farrell. Il plauso maggiore, tuttavia, va al Batman di Robert Pattinson: molti erano scettici sulla sua scelta, e invece Pattinson convince come un Bruce Wayne "di transizione", ancora alla ricerca di se stesso, intrappolato da un dolore che gli ha impedito di diventare veramente adulto.

The Batman è un film semplice ma non banale nella concezione e solidissimo nell'esecuzione. Torna alle origini dell'Uomo Pipistrello (Batman nasce proprio come detective) e si riappropria di quelle suggestioni noir e investigative che sono al centro di alcune delle sue avventure più amate (Year One, Il lungo Halloween), raccontando una storia più "quotidiana" (nonostante l'escalation della posta in palio del finale), in grado di far affiorare l'umanità e la fragilità di Batman, eroe umano, troppo umano, sempre sull'orlo del precipizio tra vita e morte, tra sanità e follia, tra vendetta e giustizia.

****

Pier

lunedì 7 dicembre 2020

The gentlemen

La spettacolarità del già visto


Fletcher, un investigatore privato, si intrufola nella casa di Raymond Smith, un gangster e sua vecchia conoscenza, per raccontargli una storia che vede coinvolto il suo capo, il trafficante di droga Mickey Pearson. Raymond sta al gioco, dando il via a una serie di rivelazioni ed eventi che coinvolgono strambi gangster di quartiere, spie, politici, e una serie di doppi giochi.

Dopo anni di lontananza e qualche passo falso, Guy Ritchie torna al genere che lo ha reso famoso, quel mix di gangster movie, commedia e azione che costituiscono il suo marchio di fabbrica. Lo fa con una storia scoppiettante e ritmata, interpretata da attori divertiti e divertenti, che giocano e si mettono in gioco, aiutando Ritchie a creare un gioco di specchi che tiene alta la suspense fino al finale.

Ritchie sembra ispirarsi a Rashomon per la struttura narrativa, con una serie di narratori inattendibili che offrono la loro prospettiva sugli eventi, riempiendo i buchi lasciati dagli altri e ribaltando intere situazioni. L'alternanza tra passato e presente funziona e fa sì che il film non cali mai di ritmo, sorretto ora dalla brillantezza dei dialoghi, ora dalle scene d'azione, ora dalle rivelazioni inaspettate. Ritchie costruisce un gioco di scatole cinesi ben architettato, in cui ogni pezzo cade al suo posto con precisione, lasciando sempre lo spettatore mezzo passo indietro, abbastanza vicino da incuriosirlo e interessarlo a risolvere l'enigma, ma non abbastanza da rivelargli la soluzione.

Il cast è superlativo e perfetto per i personaggi disegnati da Ritchie, la solita galleria umana di soggetti improbabili, eccentrici, sopra le righe.Tra tutti, spiccano uno Hugh Grant in un ruolo inedito che però sembra scritto apposta per lui, e un Colin Farrell stralunato gangster guidato da rigidi principi pedagogici. 

Nonostante il film funzioni, tuttavia, resta una sensazione di già visto, come se The Gentlemen fosse semplicemente una rivisitazione di temi, situazioni, e tecniche già utilizzate in passato da Ritchie. Manca un tentativo di fare qualcosa di diverso, come se Ritchie, dopo essersi avventurato "lontano da casa" con progetti come Aladdin, volesse tornare in fretta in un porto sicuro e conosciuto.

Il risultato è un film che intrattiene, ma solo in modo superficiale, senza risultare memorabile come The Snatch o Lock & Stock. Forse è anche ingiusto chiedere di più a Ritchie, un regista che ha sempre fatto dell'intrattenimento il suo principale obiettivo. Tuttavia, nel suo intento "commerciale", Ritchie aveva anche creato un suo linguaggio espressivo che, nonostante gli evidenti debiti tarantiniani, era riuscito a ritagliarsi una sua identità distintiva. In The Gentlemen ritroviamo quel linguaggio, e scopriamo che, nonostante non sia cambiato in nulla, funziona ancora egregiamente. E, forse, alla fine va bene così.

*** 1/2

Pier

Nota: The Gentlemen, a lungo posticipato per via della pandemia, è uscito in streaming su Amazon Prime Video.

mercoledì 17 aprile 2019

Dumbo - Lo sconsiglio: puntata 18

Il cimitero degli elefanti

Raramente capita di vedere un film ad alto budget realizzato con la sciatteria con cui è stato realizzato Dumbo. La mancanza di convinzione, voglia, energie, e di una qualunque idea creativa è evidente fin dalla prima scena: la sceneggiatura è sciatta e malscritta, con dialoghi stantii e un'evoluzione della trama farraginosa eppur comunque scontata; gli attori svogliati, con un Colin Farrell che nemmeno ci prova, un Danny DeVito che si limita al compitino, un'Eva Green tanto bella quanto annoiata, e i due attori bambini più inespressivi della storia del cinema; le immagini sono piatte, banali, persino quelle in cui sarebbe bastato copiare pedissequamente l'originale, come la sequenza degli elefanti rosa; persino i freaks, uno degli elementi centrali del cinema burtonianonon sono tali, e presentano un character design pigro e mancante di inventiva.

Burton, appunto: Dumbo è probabilmente il punto più basso della sua carriera, che già di recente non era esattamente in formissima: un film talmente inutile da risultare insensato, a meno che non lo si legga come una richiesta di aiuto. Se Dreamland (che non a caso offre alcune delle pochissime sequenze ispirate del film) è chiaramente Disneyland, Dumbo può essere visto come Burton, il freak prigioniero del mondo delle major che lo obbligano a ripetere lo stesso stanco numero tutte le sere, condannandolo a una lenta e deprimente decadenza che strappa il cuore a chi lo ricorda libero e creativo.

Questa l'unica lettura che può salvare Dumbo: quel che resta, è noia. Tanta.

Livello di sconsiglio: Altissimo (*****)


sabato 17 novembre 2018

Widows - Eredità criminale

Film di genere e film d'autore


Veronica Rawlins rimane vedova del marito Harry quando questi rimane ucciso in un'esplosione durante una rapina perpetrata ai danni del gangster Jamal Manning, che sta cercando di entrare in politica. I soldi rubati finiscono bruciati nell'incendio che segue l'esplosione, ma Manning non ci sta, e intima a Veronica di rimborsarlo entro due mesi. La donna, messa spalle al muro, troverà una soluzione nel quaderno degli appunti lasciatole dal marito, su cui è riportato il dettagliato piano per un colpo da 5 milioni di dollari.

Che cos’è un grande regista? Troppo spesso si tende a pensare che un grande regista debba essere un visionario, qualcuno che gira film con una forte impronta visiva e una narrazione non necessariamente lineare; qualcuno, in sintesi, che corrisponda allo stereotipo dell’ “autore” reso celebre da cinefili asfittici come il Guidobaldo Maria Riccardelli di Fantozzi.

Di grandi registi di questo tipo se ne contano pochissimi (David Lynch, per dirne uno), ma purtroppo si contano moltissimi, pallidi tentativi di imitazione, che si cimentano nella realizzazione di polpettoni orchitogeni nel nome di una supposta “arte”. A tutti questi autori d’accatto andrebbe imposta la visione ripetuta e continuata di Widows – possibilmente in ginocchio sui ceci, come da suggestione fantozziana. Steve McQueen realizza infatti un film che fa vedere cosa voglia dire essere un grande regista, ovvero realizzare una storia efficace, potente e coinvolgente in cui tutto – immagini, musica, dialoghi, interpretazione – converge in modo armonico verso la comunicazione delle sensazioni, emozioni e messaggi che il regista vuole veicolare.

Un grande regista è in grado di esprimersi al meglio anche con un film “di genere”, e McQueen mette la sua autorialità al servizio di un heist movie classico solo nella struttura narrativa, ma che si arricchisce di molteplici livelli di lettura, sottotrame, e soprattutto di personaggi caratterizzati alla perfezione, mossi da motivazioni solide e ben costruite. Nella storia di Veronica Rawlins e delle sue socie troviamo quindi l’adrenalina tipica del genere, ma anche la povertà dei ghetti delle grandi metropoli, la violenza della polizia contro le comunità afroamericane, ma soprattutto la questione dell’emancipazione femminile, con le donne che si prendono il centro della scena.

“Nessuno pensa che siamo in grado di farlo”, dice la Rowlins in un momento chiave , e proprio su questa aspettativa gioca Steve McQueen fin dall’inizio del film, con una sequenza mozzafiato in cui i protagonisti sembrano gli uomini, mentre le donne sono relegate alla sfera domestica. Il ribaltamento dei ruoli che segnerà il film non è solo un colpo di scena, ma è l’asse portante della narrazione, che mette al centro personaggi femminili realistici, ben costruiti, e interpretati alla perfezione da un cast in stato di grazia assoluta. Le protagoniste brillano di luce propria, ma tra loro spiccano la fenomenale Viola Davis, che con un’espressione dice ciò che ore e ore di dialogo non potrebbero dire, ed Elizabeth Debicki, perfetta nel ritrarre l’evoluzione del suo personaggio da fragile e imbelle oggetto di desiderio a donna decisa a non farsi mai più mettere i piedi in testa. Tra gli uomini spicca lo spietato sicario interpretato da Daniel Kaluuya, alle prese con un personaggio diversissimo da quello che interpretava in Get Out!, un villain da manuale nella sua totale mancanza di pietà ed empatia.

McQueen gira un film corale, caratterizzato da un ritmo sincopato. Il montaggio alterna scene brevi e incisive, che ci fanno immergere nella vita quotidiana dei vari protagonisti, a piani sequenza ansiogeni per le scene di violenza e tensione, creando un crescendo visivo ed emotivo che culmina nella scena della rapina, perfetta sotto ogni punto di vista, e trova la sua perfetta conclusione nel dialogo finale. Ogni elemento si incastra alla perfezione grazie alla mano solida di McQueen: ogni virtuosismo di macchina ha uno scopo, ogni scelta “autoriale” un suo significato ben preciso, volto a massimizzare la portata emotiva di ogni momento del film. Il regista sembra aver imparato alla perfezione la lezione di grandi registi come Ford, Hitchcock, e soprattutto Kubrick, in grado di girare film "di genere" senza per questo rinunciare alla loro impronta autoriale, e anzi rendendola ancora più evidente.

Widows è un film pressoché perfetto, in cui gli amanti del cinema d’autore potranno apprezzare la perfezione di alcune inquadrature e di alcune sequenze, e gli amanti del thriller potranno godersi un film che non lascia un attimo di tregua, trascinando lo spettatore in un vortice di violenza, commozione e colpi di scena che rimarranno impressi nella memoria.
In poche parole, Widows è il film di un grande regista, qui forse alla sua miglior prova di sempre: non perdetelo.

*****

Pier

giovedì 8 dicembre 2016

Animali fantastici e dove trovarli

Expecto Sorpresam




New York, fine anni Venti. Newt Scamander è un esperto di creature magiche, che porta sempre con sè in una valigia. Cacciato da Hogwarts, arriva in America per liberare una delle sue creature. Per errore, scambia la sua valigia con quella di un non-mago, Jacob Kowalski, dando vita a una serie di incidenti che finiscono per inasprire una situazione già tesa: il mago oscuro Gellert Grinderwalt è evaso, e la città è sull'orlo di una guerra tra maghi e non-maghi.

E chi l'avrebbe mai detto? All'uscita del trailer non avrei scommesso un centesimo sul nuovo film ambientato nel mondo creato da JK Rowling, il primo senza Harry Potter e il primo scritto direttamente dall'autrice. Invece la Rowling riesce in pieno nell'impresa, partendo da quanto già fatto nei libri e costruendo un mondo familiare ma nuovo. La Rowling dà pieno sfogo al suo estro creativo non solo nell'invenzione delle diverse creature di Scamander, ma anche e soprattutto nell'ambientazione, suo punto di forza anche nei libri. La New York magica degli anni Venti sembra uscita da un libro di Fitzgerald in preda a delirio allucinatorio, e il parallelo tra reale e fantastico è al livello, e in alcuni casi supera, quello di Harry Potter per intelligenza e arguzia.

L'autrice non rinuncia nemmeno a dare un messaggio "sociale", come spesso accade nelle sue opere: rifiuto, repressione, bigottismo, e la consueta revanche degli ultimi sono solo alcuni tra i temi affrontati con grande delicatezza e abilità. I collegamenti con la trama della sua creatura più famosa sono disseminati con grande abilità, in una caccia al tesoro stimolante anziché tediosa.
Se la riuscita tematica è indubbia, qualche dubbio in più lo destano i personaggi : la Rowling fa centro con Scamander, creando un protagonista decisamente diverso da Harry, con punte di autismo e nessuna dote particolare per la magia, che si trova calato in una situazione decisamente al di là delle sue possibilità. I personaggi di contorno, però, sono scialbi e facilmente dimenticabili, soprattutto per quanto riguarda le due protagoniste femminili, di cui sfido chiunque a ricordarsi il nome al termine della visione. Rispetto a ciò cui ci aveva abituato la Rowling, un deciso passo indietro in termini di caratterizzazione.

Il tasto dolente resta comunque la regia di Yates, un miracolato della sua professione che, nonostante la direzione sciapa e incolore degli ultimi quattro capitoli della saga di Harry Potter (caratterizzati anche da alcune evidenti sgrammaticature inaccettabili per film di questo livello), viene richiamato alla regia di questo primo capitolo della nuova serie, e arriva appena alla sufficienza, salvato dalle invenzioni visive della Rowling (le creature su tutte) ma non riuscendo mai a uscire dai confini della mediocrità a livello di fotografia e, soprattutto, ritmo e tensione: lo splendido lavoro di Alfonso Cuaron nel Prigioniero di Azkaban è purtroppo solo un lontano ricordo.

Animali fantastici è un buon primo capitolo, capace di gettare le basi per un mondo nuovo e, al tempo stesso, familiare, vicino ai nostri ricordi ma in grado di liberarsene per esplorare territori inesplorati. Sinceramente, non era così facile aspettarselo.

*** 1/2

Pier

venerdì 14 marzo 2014

Saving Mr. Banks


Una favola moderna



Los Angeles, inizio anni '40. Walt Disney promette a sua figlia che realizzerà un film tratto da Mary Poppins, il personaggio ideato dalla scrittrice Pamela Lyndon Travers. Vent'anni dopo, Disney non è ancora riuscito a mantenere la promessa per via dell'ostinato rifiuto della scrittrice di cedergli i diritti. Determinato a girare il film, Disney invita la scrittrice a Los Angeles, per farla partecipare in prima persona alla stesura della sceneggiatura, concedendole anche un controllo artistico pressochè totale. Miss Travers, spinta dal suo agente e dalle ristrettezze economica, accetta l'invito, ma il suo atteggiamento ostile verso le produzioni disneyane e la ferocia dimostrata nel difendere l'integrità del suo lavoro renderanno la collaborazione con Disney una vera impresa.

Tratto dalla storia vera del rapporto tra Travers e Disney, Saving Mr. Banks pone però l'accento su un altro tipo di relazione, quella tra padre e figli. Da un lato abbiamo Walt Disney, determinato a mantenere la promessa fatta alla figlia; dall'altra abbiamo Pamela Travers, per cui la storia di Mary Poppins non rappresenta solo una creazione artistica, ma un ricordo agrodolce della propria infanzia e, in particolare, dell'adorato padre. Attraverso una continua alternanza tra presente e passato scopriamo a poco a poco la genesi di Mary Poppins, raccontata attraverso gli occhi di Pamela bambina, che passa dal vedere il padre come un cavaliere in sella al suo bianco destriero a comprenderne l'umana debolezza, accentuata da un lavoro che detesta e da una fantasia tanto splendida e prolifica da rendere insopportabile l'aridità del mondo reale.

Il film procede sui toni di un classico Disney, dosando sapientemente risate e commozione, senza però scivolare in scene da lacrima facile o eccessi di retorica. L'equilibrio è garantito sia da una sceneggiatura ben curata e scorrevole, sia dalle splendide interpretazioni dei due protagonisti. Tom Hanks interpreta Disney senza eccedere in gigioneria, trasmettendo la naturale simpatia del personaggio ma riuscendo al tempo stesso a farne intuire la natura autoritaria e poco aperta al compromesso. A brillare però è l'interpretazione di Emma Thompson, scandalosamente ignorata nelle nomination degli Oscar, che unisce un'irresistibile verve comica tipicamente british alla capacità di emozionare con un solo sguardo, un silenzio, una parola non detta. Accanto a loro troviamo un Paul Giamatti solo apparentemente banale, ma in grado di regalare un momento davvero toccante per dignità e assenza di autocommiserazione, e un Colin Farrell , le cui sopracciglie perennemente tristi si adattano perfettamente a un personaggio alcolista e sognatore.

Saving Mr. Banks è un film realizzato con sapienza, che non brilla per originalità ma per la forza della trama e dei personaggi, e per la capacità di regalare allo spettatore quello che promette: sorrisi, lacrime, e una favola senza tempo.

****

Pier