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domenica 31 agosto 2025

Telegrammi da Venezia 2025 - #3

Terzo telegramma da Venezia, tra mostri creatori e umani creati, Napoli e il sottosuolo, manager d'hotel sconnessi, e gocce di poesia famigliare.


Frankenstein (Concorso), voto 7.5. Del Toro adatta la storia di Frankenstein toccando tutte le corde ricorrenti nel suo cinema: dall'umanità del mostro alla mostruosità dell'uomo, passando per la ricerca dell'amore e della connessione. Visivamente sontuoso (il laboratorio di Viktor è splendido, così come le scene nell'Artico), a livello tematico non rivoluziona un mito già esplorato più volte dalla cinematografia, riprendendo toni e situazioni già viste sia in altri adattamenti (il mostro è molto debitore dell'incarnazione vista in Penny Dreadful), sia in altri lavori di Del Toro. Forse era inevitabile, visto che questo mito ha formato la poetica deltoriana, e ha finito quindi per permearne l'opera. Rimane però la sensazione che si potesse fare di più, trovare chiavi nuove che qui sono invece assenti, fatta eccezione per uno spunto tolkieniano su come la morte sia un dono e non una maledizione da cui fuggire (la creatura è qui immortale) e un Viktor che è l'incarnazione della mascolinità tossica, con Elizabeth che diviene da amata desiderio proibito e capriccio di un bambino mai veramente cresciuto (Viktor beve solo latte durante il film). Splendida prova del cast, con Oscar Isaac mostro-creatore, Elordi dolente quanto basta, e Mia Goth ambigua e carismatica, cuore emotivo del film.

Sotto le Nuvole (Concorso), voto 6.5. Gianfranco Rosi torna sulle note di Sacro GRA, il documentario che gli valse il Leone d'oro nel 2013. Questa volta la protagonista è Napoli, e in particolare il suo rapporto con il sottosuolo, dalla Napoli sotterranea ai terremoti causati dai Campi Flegrei e dal Vesuvio. Il suo approccio al documentario come commedia umana mostra però la corda, alternando racconti molto riusciti (il centralino dei pompieri meriterebbe un film dedicato) ad altri meno efficaci (la parte archeologica risulta, alla lunga, ripetitiva), oltre a indugiare troppo in inquadrature "a effetto" che soddisfano la vista ma appesantiscono la narrazione.

The Souffleur (Orizzonti), voto 3. Una storia potenzialmente interessante (il manager di un hotel cerca disperatamente di evitarne la chiusura) viene raccontata in maniera non lineare, per suggestioni: il gioco potrebbe anche funzionare (è la cifra stilistica di Lynch), ma qui deraglia miseramente, risultando del tutto disconnesso. Si salvano solo la breve durata (meno di 90', un miracolo di questi tempi) e un Willem Dafoe piacevolmente gigione.

Father Mother Sister Brother (Concorso), voto 8.5. Il film del cuore del Concorso finora, anche se meno ambizioso di altri visti fin qui. Jarmush realizza un film sull'essere famiglia attraverso tre episodi disconnessi narrativamente ma fortemente interconnessi a livello tematico ed emotivo, come i movimenti di una sonata. Delicato e fragile come un fiore, ma con radici che affondano profonde, scavando nell'anima. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Pier

sabato 21 giugno 2025

La Trama Fenicia

Uscire dal capitalismo



A livello superficiale, il cinema di Wes Anderson è conosciuto e riconoscibile per l'aspetto visivo: palette di colori curate al dettaglio, inquadrature simmetriche, scenografie teatrali da casa di bambole (qui il nostro approfondimento sul tema). Tuttavia, Wes Anderson è anche molto altro: è, nella prima fase della carriera, un magnifico creatore di personaggi nevrotici ma vivi, veri, e di cui è quasi impossibile non innamorarsi a prima vista (una dote riconosciutagli, fin dagli esordi, nientemeno che da Martin Scorsese). 

Con il tempo, tuttavia, il suo cinema è diventato sempre più politico, con un forte sostrato di anticapitalismo. Si potrebbe dire che questa tematica è sempre stata presente, vista la sua tendenza a raccontare sognatori che si ribellano a un sistema che pensa solo a numeri, regole e risultati (si pensi a Rushmore o a Le avventure acquatiche di Steve Zissou), però era un tema sotterraneo, strisciante, che passava in secondo piano rispetto alle critiche delle convenzioni borghesi e al suo raccontare solitudini che si incontrano e, almeno per un attimo, trovano un po' di conforto nella compagnia l'uno dell'altro. 

Da Fantastic Mr. Fox il tema emerge con maggiore evidenza, ma è con Grand Budapest Hotel che Anderson passa da una fase del suo cinema all'altra: il film finora più premiato di Anderson rappresenta il punto di passaggio dal primo al secondo Anderson, e ne unisce e sublima ambedue le istanze. Nel secondo Anderson, i personaggi diventano sempre meno persone e sempre più maschere della commedia dell'arte, la cui funzione è far emergere e risaltare una satira sociale ed economica che, nascondendosi dietro un'apparenza patinata, colpisce con la violenza del morso di un cobra. Se il primo Anderson usava la perfezione formale degli ambienti come contrasto all'imperfezione interiore dei suoi protagonisti, il secondo Anderson la sfrutta per sottolineare l'assurdità della realtà, in un impeto beckettiano che mette in luce le storture del sistema economico dominante. Dalla marginalizzazione (L'isola dei cani) alla sete di denaro sfrenata (Grand Budapest), passando per il rapporto tra capitalismo e distruzione dell'ambiente (Mr. Fox), per la morte del giornalismo e la disgregazione del tessuto sociale. (The French Dispatch): il secondo Anderson non risparmia alcun aspetto del sistema socioeconomico in cui viviamo. Dietro la perfezione formale e l'opulenza visiva, si nascondono mostri.

La trama fenicia sublima tutti questi tutti temi nella figura del suo protagonista, Zsa-zsa Korda, un magnate senza scrupoli dotato di una magnifica ironia e capacità di ignorare le atrocità commesse. Korda è il capitalismo (anzi: l'anarcocapitalismo) incarnato: affascinante, seducente senza morale, disinteressato alla propria reputazione e interessato solo alla perpetuazione della propria ricchezza, al punto da mettere a repentaglio la sua stessa sopravvivenza. La violenza, inflitta e subita, è parte intrinseca della sua vita, esattamente come lo è del capitalismo contemporaneo. 


Fin qui sembrerebbe un classico film da "secondo Anderson", ma il regista/sceneggiatore sceglie di ribaltare il tavolo, e tornare a raccontare una storia famigliare: il primo Anderson incontra il secondo, e Zsa-zsa intuisce che qualcosa nel suo stile di vita non funziona, e cerca confusamente di recuperare il rapporto con la figlia Liesl. Inizialmente lei non vuole saperne, ma accetta di seguirlo. E Zsa-zsa, fino a quel momento del tutto impervio al cambiamento (qui Wes Anderson parla proprio di questo tema), inizia a vedere che un'altra vita è possibile.

Così, lentamente ma inesorabilmente, le maschere tornano a essere persone, e nel film fa irruzione il sentimento, con Zsa-zsa che, pur portando avanti le sue macchinazioni finanziarie, mette sempre di più al centro il rapporto con Liesl. Nel finale, fuggiti dalla prigione d'oro del capitalismo, troviamo dei personaggi pienamente da "primo Anderson": strani, buffi, disadattati, ma con il coraggio di seguire le proprie passioni, dall'entomologia alla cucina. Il castello di carte del capitalismo cade, e con esso la perfezione formale: l'ultima scena è asimettrica, caotica, senza una palette di colori pastello: è il mondo reale, in cui Zsa-zsa si trova finalmente a vivere, molto meno ricco ma anche molto più felice.

Il cast è, come sempre, sublime, guidato da un Benicio del Toro stropicciato ma immarcescibile, che offre bombe a mano come fossero caramelle e attraversa la vita con stoico cinismo, fino a quando Liesl (un'ottima Mia Threapleton dal fierissimo cipiglio) non fa breccia nel suo cuore. Attorno a loro, un Michael Cera entomologo con segreti, Tom Hanks e Bryan Cranston improbabili appassionati di pallacanestro, un Cumberbatch che incarna tutti gli stereotipi del villain shakespeariano con stralunata e divertita crudeltà, e Bill Murray che è, semplicemente, Dio.

La trama fenicia è un film divertente e avventuroso, che dietro la patina dell'intrattenimento nasconde però una satira feroce di un sistema economico che è talmente radicato nelle nostre vite che, come Zsa-zsa, pensiamo che sia l'unico sistema possibile. Al tempo stesso è un film profondamente emotivo, in cui la soluzione alla crisi di un sistema che tutto divora è il recupero dei rapporti umani e la capacità di rinunciare al guadagno a tutti i costi per rimettere al centro le passioni e la comunità. Non tutto riesce secondo intenzione (alcune scene sono meno emozionanti di quanto potrebbero essere), ma nel complesso funziona e riesce a toccare mente e (soprattutto sul finale) cuore.

****

Pier

venerdì 3 gennaio 2025

Nosferatu

Combattere il Male


Dracula è il personaggio più esplorato dalla cinematografia mondiale. Di tutte le innumerevoli versioni, tuttavia, solo tre hanno finora segnato la storia del cinema: una "ufficiale", quella di Francis Ford Coppola, e due spurie, i Nosferatu di Murnau (1922) e Herzog (1979). Quello di Murnau, con i nomi cambiati per aggirare il diritto d'autore, è diventato talmente iconico da meritarsi prima il remake di Herzog, e oggi quello di Eggers: è una decisione cinefila, ma anche stilistica, molto in linea con la cinematografia del regista newyorkese.

Se il Dracula di Coppola privilegiava infatti l'aspetto romantico dell'opera di Bram Stoker, sia a livello narrativo che estetico, con costumi e fotografia estremamente barocche e teatrali, Eggers sceglie di concentrarsi sull'aspetto più orrorifico, come Murnau ed Herzog prima di lui, esaltando però ulteriormente l'elemento di folklore del mito del vampiro: le sue origini popolari come spiegazioni della pestilenza, e la ritualità est-europea nel cercare di affrontarlo.

Eggers non è interessato alla natura romantica e maledetta del vampiro, ma a quella malefica. Il vampiro è la morte e la sua negazione, un abominio che sovverte le leggi naturali che pensiamo di conoscere e fa a pezzi le fragili certezze della scienza. È il Male incarnato, e Eggers vuole esplorarne le origini o, meglio, come si infiltra nel mondo, nella nostra vita di tutti i giorni. Il film si presta a vari livelli di lettura, dal racconto metaforico della depressione alla rivisitazione del peccato originale. 

Spicca però un messaggio politico-sociale, racchiuso nelle parole di Von Franz/Van Helsing: bisogna conoscere l'oscurità per poterla combattere. Così come la Germania iper-razionalista e scientifica si trova più impreparata dei superstiziosi contadini dei Carpazi nel combattere il vampiro, così le idee più tossiche trovano terreno fertile in società democratiche, che dopo decenni senza guerre si sono illuse che il Male non le toccherà mai più, che le barbarie della guerra e delle dittature siano ricordi lontani e sopiti. È successo negli anni Trenta, e sta succedendo ancora ora: il sonno della ragione genera mostri, ma la fede cieca nella ragione è solo un'altra forma di fanatismo, che ci rende ciechi e imbelli di fronte ai mostri che già esistono. 

Questi mostri vengono evocati da persone fragili, ai margini di una società che li tratta come pazzi o isterici; persone che, per disperazione e solitudine, sono disposte ad accogliere qualunque cosa le faccia sentire meno sole, meno incomprese, meno inutili. Il personaggio di Ellen, interpretato in maniera ipnotica da Lily-Rose Depp, rappresenta la "porta di ingresso" di chi riporta il Male nella società, anche senza volerlo (Eggers è bravissimo a non rendere Ellen una colpevole, ma una vittima che decide di reagire).

La ricchezza tematica del film non è tuttavia supportata da una lettura profonda e nuova degli iconici personaggi e delle loro vicende. Eggers osserva i suoi protagonisti con sguardo da scienzato, da entomologo, freddo e distante, e non dà alcuna lettura sanguigna e creativa del mito del vampiro, come se avesse avuto paura di "contaminare" il suo esperimento portando una sua visione personale. Manca anche qualcosa che trasformi le sofferenze dei personaggi, e in particolare della protagonista Ellen, in un qualcosa di vero, autentico, che crei empatia nello spettatore - quel qualcosa che invece era riuscito benissimo a Eggers in The Northman. A questo contribuisce anche la scelta di dare a Orlok un accento molto marcato, scelta che finisce per "allontanare" ulteriormente lo spettatore. Tenere così lontano lo spettatore a livello emotivo rischia di far percepire il tutto come un esercizio di stile, depotenziando anche il messaggio che il film vorrebbe veicolare.

A livello visivo il film è una gioia per gli occhi. Eggers riprende l'estetica espressionista, fatta di ombre e oscurità, e la accompagna con la sua passione per la fotografia in luce naturale, alternando momenti di oscurità tangibile, viscerale e primordiale (la scena nella locanda) ad altri più alienanti, onirici e allucinati, con colori talmente desaturati da richiamare il bianco e nero dell'opera di Murnau (la scena dell'arrivo nel castello di Orlok. L'orrore è più suggerito che mostrato, e anche le poche scene granguignolesche servono a esaltare l'asetticità dei momenti chiave, in cui l'ombra striscia nelle case e violenta le menti prima ancora che i corpi.

Nosferatu non è il film più riuscito di Eggers, ma è senza dubbio quello più ambizioso a livello stilistico e tematico, un confronto con i grandi del passato da cui Eggers esce, se non vincitore, quantomeno non sconfitto, rileggendo il mito del vampiro per i nostri tempi cupi, in cui il Male è ovunque e l'oscurità incombe e minaccia di spegnere ogni luce. È un film che parla alla testa e, a tratti, alle viscere, ma non al cuore - e il cuore è quel che manca per avvincere davvero lo spettatore e rimanere saldo nel suo immaginario e nei suoi ricordi: per essere, insomma, un vero capolavoro.

*** 1/2

Pier

giovedì 25 gennaio 2024

Povere Creature!

La forza del desiderio


Godwin Baxter, scienziato dal passato tormentato, svolge esperimenti bizzarri su animali ed esseri umani. Quello che più lo appassiona è Bella, giovane donna di cui ha recuperato il cadavere dal fiume e che ha riportato in vita, ma con la mente di un bambino. Bella sviluppa rapidamente facoltà fisiche e mentali, finendo per ribellarsi alle regole impostele e al suo creatore.

Dopo La favorita, Lanthimos torna a parlare di potere e femminile e lo fa con una fantasia gotica e distopica, un divertissement vittoriano con spruzzate di steampunk che rielabora la storia di Frankenstein per mettere a nudo le radici invisibili e interiorizzate del potere maschile e, più in generale, di tutte quelle norme, convenzioni, sovrastrutture che impediscono l'affermazione individuale, e femminile in particolare *. 

Bella è come un tirannosauro sguinzagliato in un recinto di capre, dove le capre sono le convenzioni: convenzioni che lei non conosce, perché non le ha interiorizzate per anni da altre persone che le avevano interiorizzate, e che per lei non significano nulla. Ha l'approccio alla realtà di un bambino, e quindi mette tutto in discussione, accompagnata però da un corpo di donna che le permette quindi di fare e scoprire cose che a un bambino sarebbero impossibili. La scoperta - e conseguente emancipazione - sessuale di Bella è solo la punta dell'iceberg, perché la sua mente tutta da plasmare mette in discussione la sua dipendenza da tutti gli uomini della sua vita, dal padre-creatore Godwin, che spoglia della sua aura divina abbandonandolo, al suo primo amore Duncan, passando per tutti coloro che cercano di limitare la sua folle, geniale, incontenibile energia. 

Bella travolge tutto ciò che si frappone tra lei e la scoperta. La sua è una storia di liberazione femminile, certo, ma è prima di tutto un racconto di sviluppo psicologico, un inno all'umana capacità di scoprire e riscoprire, a quella fanciullesca volontà di conoscere e sapere che viene via via cancellata da rigidi dogmi sociali (non a caso l'ambientazione è vittoriana) e da ciò che ci impone la "vita adulta." 

Non è un caso che a portare avanti questo tour de force di riscoperta e affermazione del Sè sia una figura marginalizzata dal suo contesto sociale, dato che sappiamo da anni che spesso è da lì che arriva l'innovazione - da chi, vivendo ai margini della società, riesce a vedere chiaramente le sbarre invisibili create da convenzioni antiquate, dogmi, inibizioni, paure. Povere creature! è, in sintesi, un inno al libero arbitrio ma, soprattutto, al desiderio - un desiderio sia intellettuale che fisico - e alla sua forza nell'abbattere le barriere che ci costringono.


Tony McNamara firma una sceneggiatura da manuale a partire dal romanzo di Alasdair Gray, mescolando alla perfezione risate (si ride tantissimo) e riflessione, facendo passare un messaggio chiaro, potente, non annacquato dalla necessità di essere mainstream, che però non scivola mai nella predica o nel comizio e non solo non annoia, ma intrattiene ferocemente. 

La fotografia ci mostra, come già ne La favorita, una realtà distorta, deformata, con frequenti usi dell'occhio di pesce e suggesioni pittoriche, applicate però qui a una scenografia e a un'estetica che strizzano l'occhio a Tim Burton (le creature di Godwin potrebbero essere uscite da Frankenweenie o Nightmare Before Christmas) e Wes Anderson (i colori e l'amore per tecnologie superbamente complesse e ancor più superbamente inutili), ma li rielaborano in modo originale, creativo, vivo. Il film alterna sapientemente sequenze oniriche e reali, creando un mondo folle e fantastico in cui i confini tra le due dimensioni, spesso, finiscono per confondersi.

Al centro di tutto c'è la prova superba di Emma Stone nel ruolo di una novella creatura di Frankenstein che cerca, anzi, si prende un'emancipazione sociale e sessuale. Vederla camminare, muoversi, parlare mentre dà vita a una donna-bambina che sta imparando il funzionamento di un corpo già adulto è un'esperienza indimenticabile, che culmina nella travolgente, anacronistica danza cui Lanthimos, ancora una volta, affida un momento chiave del suo film. Accanto a lei brillano tutti i comprimari, da un Dafoe novello dottor Frankenstein, impotente nel controllare il suo atto creativo, a un Mark Ruffalo splendidamente gigione, passando per il remissivo Ramy Youssef e il piccolo ma splendido (e narrativamente ricco) ruolo di Margaret Qualley.

Povere Creature! racconta una donna, una persona che ri-scopre da zero le convenzioni sociali, il suo ruolo nel mondo, ma soprattutto se stessa, la sua psicologia, i suoi desideri, in un mix tra horror, commedia, satira e fantastico che unisce idealmente la poetica del primo Lanthimos (The lobster, Alps, Il Sacrificio del cervo sacro) con La favorita. È film travolgente per la creatività delle sue invenzioni visive e verbali, impeccabile per esecuzione, sviluppo e interpretazioni: in una parola, è un film imperdibile.

*****

Pier

*: O, in altre parole,  del (gasp!, come direbbero nei fumetti) patriarcato. Scelgo di non usare questa parola perché è ormai talmente deformata dall'uso che ne fanno i media da essere divenuta quasi parodica (con gran gioia dei suddetti media - d'altronde convincere gli altri della tua non-esistenza è il miglior trucco del diavolo, come spiegano ne I soliti sospetti).

martedì 6 settembre 2022

Telegrammi da Venezia 2022 - #5

Quinto telegramma da Venezia, con utopie/distopie anni cinquanta, storie di fantasmi sui generis, cadaveri cinematografici italiani, western classici, e il film migliore visto finora alla Mostra.


Don't Worry Darling (Fuori Concorso), voto 6. Dopo l'ottimo esordio di Booksmart, Olivia Wilde torna alla regia con un film del tutto diverso, un'utopia anni Cinquanta dove qualcosa è fuori posto. Il film si muove tra thriller e horror con un buon ritmo, ma ripete temi già visti e non spicca per originalità. Ottima la prova di Florence Pugh, cuore pulsante del film. Qui la recensione estesa scritta per Nonsolocinema.

The Banshees of Inisherin (Concorso), voto 10. Che dire? Martin McDonagh non sbaglia un film. Dopo In Bruges, 7 Psicopatici, e Tre Manifesti, il regista-scrittore sfodera un altro film impeccabile, forse il suo migliore: una sceneggiatura perfetta, interpretazioni sublimi, musiche e fotografia evocative, e una regia che amalgama il tutto con sapienza. Un film che, attraverso il microcosmo di un'isola, racconta il macrocosmo dell'umanità, con il conflitto per futili motivi tra due (ex) amici che si fa simbolo del conflitto irlandese, ma in generale di tutti i conflitti tra uomini, gruppi, e nazioni. 

The Eternal Daughter (Concorso), voto 5.5. Una ghost story sui generis, con l'ennesima ottima interpretazione di Tilda Swinton (in un doppio ruolo) e splendidi fotografie e sonoro, gotici e d'atmosfera. La sceneggiatura è però debole, con un colpo di scena (peraltro non fondamentale ai fini del messaggio) che tale non è, e una tematica già vista. Peccato, perché le atmosfere sono davvero suggestive.

Il Signore delle Formiche (Concorso), voto 2. Un film che puzza di cadavere per quanto è vecchio, mal scritto e mal recitato, al punto di sembrare la parodia di uno di quei prodotti da cineforum che sarebbero piaciuti a Guidobaldo Maria Riccardelli. Qui la recensione estesa scritta per Nonsolocinema.

Dead for a Dollar (Fuori Concorso), voto 6. Un western classico con qualche spunto bizzarro e innovativo, soprattutto nel montaggio. Cast di livello che include, oltre a Waltz e Dafoe, anche Rachel "Mrs. Maisel" Brosnahan. 

Pier

mercoledì 4 maggio 2022

The Northman

Ci son più cose in cielo e in terra...


Nord Europa, X secolo d.C. Il re di un piccolo regno viene ucciso in un agguato ordito da suo fratello, che poi prende in sposa la cognata. Amleth, figlio del re morto, assiste al tradimento, e giura vendetta. Anni dopo, diventato un feroce guerriero, si convince che il destino gli stia dicendo che il momento tanto atteso è giunto. Parte così per la sua missione, con tre soli scopi: vendicare il padre, salvare la madre, uccidere lo zio.

Dopo l'horror allucinatorio di The Witch e quello psicologico/esistenziale di The Lighthouse, Eggers torna al cinema con il suo film più magniloquente ed epico, lontanissimo dalle ambientazioni intimiste e isolate dei suoi primi due lavori, eppure al tempo stesso loro logica continuazione. Come i precedenti, The Northman esplora le profondità dell'animo umano, la forza suggestiva della religione e della superstizione, i modelli di mascolinità tramandati e perpetuati dalla nostra società e dalla nostra cultura (il mito nordico alla base del racconto è anche la base dell'Amleto shakespeariano). 

Questi elementi in The Northman si fondono a scatenare una furia irrefrenabile, un desiderio di vendetta che ha la sua origine solo nell'arroganza umana ma viene ammantato di una mistica che lo rende un destino inesorabile, un "fare la volontà degli dei" che lascia dietro di sé una scia di morte. La morte e il sangue sono onnipresenti, e gli dei del pantheon norreno ne sono ingordi: i loro rituali sono pantagruelici banchetti di carne e ossa, truculenti, sanguinolenti, condotti in un buio della ragione dall'enorme potenza suggestiva, in grado di trasformare irreversibilmente la visione del mondo di chi vi partecipa. Le visioni sono reali, gli dei ci parlano, ci aiutano, ci promettono un Valhalla fatto di Valchirie e di gloria eterna.


Eggers, però, dimostra anche qui la sua straordinaria capacità di giocare con le aspettative: con una singola, memorabile scena (affidata a Nicole Kidman, talmente perfetta che sembra trasfigurarsi) ribalta completamente il tavolo. Come Prospero ne La Tempesta, Eggers fa crollare tutti gli incantesimi, le superstizioni, gli orpelli eroico/epici di cui si sono fregiati fino a quel momento i personaggi, e in particolare il protagonista, e ci mostra la cruda realtà di una società dove vige la legge del più forte, dove la sopraffazione è legittimata da sacerdoti compiacenti e le persone, e in particolare le donne, sono oggetti, proprietà altrui da usare a proprio piacere. Il personaggio della Kidman vomita la verità con la veridicità di una Norma e la furia di una Valchiria, e da quel momento la realtà del protagonista non sarà più la stessa. L'epica si fa miseria, il mito si fa fantasia, il fato si fa delirio: Eggers esalta il folklore norreno e, nel farlo, ne mette spietatamente a nudo stesso la tossicità e la pretenziosità.

Ciò che differenza The Northman dai precedenti lavori di Eggers è l'azione: laddove i film precedenti avevano pochi, concentratissimi scoppi di energia all'interno di una staticità carica di tensione, qui i combattimenti, gli assalti, le imboscate abbondano, tra urla, sangue e torture granguignolesche. L'azione è tonitruante, inarrestabile, un fiume in piena che tutto travolge e tutto sconvolge. Anche i rituali, così scarni e raccolti nei film precedenti, qui diventano dei sabba furiosi e animaleschi, in cui uomo e natura diventano tutt'uno, indistinguibili come, forse, sono in realtà sempre, a dispetto della nostra supposta razionalità. 


La fotografia del film è magistrale, con un uso splendido della luce naturale che alterna colori saturi a colori caldissimi, ardenti, un fuoco che arde dentro e fuori ai personaggi. I lunghi piani sequenza nelle scene di battaglia lasciano letteralmente a bocca aperta, impedendo allo spettatore di staccare lo sguardo e facendo fluire l'immagine come un fiume in piena, che spazza via tutto ciò che trova sul suo passaggio.

The Northman soffre di qualche calo di ritmo e, a tratti, si prende forse troppo sul serio. Tuttavia, è forse il primo film a meritare in pieno i bizzarri aggettivi che un noto critico italiano utilizzava per descrivere i film: magmatico, tellurico, ipnotico - anche se l'aggettivo migliore è, forse, viscerale. The Northman è un film che parla delle viscere della terra, delle energie irrefrenabili che vi scorrono, ma anche delle viscere dell'uomo, della pancia, delle emozioni primordiali e animali; delle viscere animali, in cui si legge il destino; e di quelle umane, che di questo "destino" sono le prime vittime, sparse a terra da una spada che si crede guidata dal Fato ma è solo guidata da un misero, piccolo uomo.

**** 1/2

Pier

sabato 11 settembre 2021

Il Collezionista di Carte

Carte e torture


William Tell ha un passato tormentato che lo ha portato in prigione. Ora sbarca il lunario giocando a poker e blackjack. Grazie alla sua abilità nel contare le carte riesce a vincere quanto basta per campare senza attirare l’attenzione dei casinò. La sua vita controllata e sotto traccia cambia quando incontra Cirk, un giovane che conosce il suo passato e che medita vendetta contro una loro comune conoscenza. 

Schrader torna regia dopo First Reformed, e lo fa con un altro film che parla di colpa ed espiazione – sia personale che di un’intera nazione. Il protagonista, William, sembra uscito da un film di Clint Eastwood: è taciturno, ha un forte senso etico – in reazione al suo turbolento passato – e preferisce non attirare l’attenzione. La sua psiche, le sue emozioni sono trattenute, nascoste, controllate: questo gli ha permesso di avere successo nel suo precedente lavoro, questo gli permette di avere successo al tavolo verde. 

Le emozioni, tuttavia, non scompaiono: sono pronte a riemergere con violenza quando occorre, come un fiume carsico che trova brevemente la strada della superficie. Scavare nel passato di William è scavare nella sua psiche, nei ricordi di un male indicibile che ha macchiato la sua anima e quella di tutti gli Stati Uniti. Schrader racconta infatti la storia di William per raccontare la necessità di espiazione – anziché di rimozione della storia recente degli USA, facendo del suo protagonista il nuovo Travis Bickle, incarnazione delle storture di società che però, a differenza della società, è cosciente dei suoi errori e della necessità di fare ammenda. 
Come Bickle, William intravede una possibilità in un giovane, Cirk, cui cerca di evitare la vita di sofferenza e vendetta cui sembra volersi dedicare. Restituire una speranza a Cirk diventa l’obiettivo di William, ciò che lo spinge a uscire dall’anonimato e a puntare in alto, sul tavolo verde e nella vita. 

Schrader dirige il film con piglio quasi documentaristico, con immagini secche e asciutte in cui però ogni tanto fanno capolino scene evocative e quasi oniriche, simbolo di una bellezza effimera capace di spuntare anche nel marciume del mondo. La sceneggiatura è a tratti ondivaga ma solida, e si avvale della splendida interpretazione di Oscar Isaac, semplicemente perfetto nella parte e capace di restituire sia l’empatia, sia il lato oscuro del suo personaggio, ambedue nascosti sotto una patina di apparente ieraticità. 

Il collezionista di carte (assurda traduzione del titolo inglese The Card Counter) è un film difficile da inquadrare, che cambia continuamente direzione, (in)seguendo la tormentata psiche del protagonista. Il risultato è a volte straniante e imperfetto, ma di grande impatto, e impone allo spettatore riflessioni sulle responsabilità individuali e collettive. 

*** 1/2

Pier

martedì 14 ottobre 2014

Pasolini

Appunti per un film superficiale


L’ultimo giorno di vita di Pier Paolo Pasolini, raccontato attraverso immagini della sua quotidianità e del suo film mai realizzato, "Porno-Teo-Kolossal". Tra incontri con amici, familiari e colleghi, il film ci accompagna fino al suo tragico epilogo, l’omicidio dell’intellettuale nella notte tra il 1 e il 2 novembre 1975.

Difficile raccontare con efficacia una figura così complessa come quella di Pier Paolo Pasolini, uno degli intellettuali più innovativi e poliedrici del Novecento italiano. Difficile anche parlare della sua morte, ancora al centro di controversie, senza scadere nel complottismo. Abel Ferrara inizia in modo originale, scegliendo di alternare il quotidiano con la fantasia, la realtà con la finzione filmica e letteraria. I lati positivi del film, tuttavia, finiscono qui, a causa di una serie di errori e superficialità che sarebbero imperdonabili persino per un regista alle prime armi. La continua alternanza tra italiano e inglese, operata senza una logica precisa, risulta innaturale e spesso fastidiosa, costringendo attori italiani a parlare un inglese innaturale e non eccelso, e Willem Dafoe a esprimersi in un italiano stentato da Stanlio e Ollio, che mal si adatta alla figura che interpreta. Per una volta, il doppiaggio arriva a salvare il film, eliminando questa bruttura almeno dalla versione italiana.

Anche senza considerare questa discutibile scelta espressiva, tuttavia, il film non riesce a raggiungere il suo scopo, ovvero quello di offrire un ritratto intimo di Pasolini, in cui il personaggio pubblico lascia posto a quello privato. Ferrara è infatti del tutto disinteressato a fornire un profilo intellettuale di Pasolini, o a spiegare la sua importanza all’interno del panorama culturale italiano e mondiale. Persino le sue idee politiche rimangono sullo sfondo, accessorie rispetto al racconto dell’uomo. La missione di Ferrara è un mezzo fallimento: Pasolini pecca di superficialità, sorvolando su numerosi aspetti della complessa personalità e poetica dell'intellettuale italiano e scivolando spesso nella banalità. Ferrara non riesce né a umanizzare il personaggio, nonostante l’inserimento di scene di vita quotidiana, né a trasmetterne la profonda vitalità intellettuale.

Il film dà quindi la sensazione di essere incompiuto, un’accozzaglia di appunti e immagini girate per raccogliere le informazioni necessarie a realizzare il film vero e proprio. Non valgono a salvare Pasolini i numerosi elementi di interesse a livello visivo, con alcune immagini di grande bellezza e verità, soprattutto nel finale: qui il contrasto tra la luminosa leggerezza delle note del Barbiere di Siviglia e le cupe immagini del ritrovamento del cadavere e del lutto creano un momento di forte intensità emotiva. Dafoe incarna alla perfezione il protagonista a livello fisico, sopperendo almeno in parte alla scarsa veridicità che l’uso dell’inglese (o, peggio ancora, di un italiano abborracciato) conferisce alle sue battute. Intorno a lui si muove un cast italiano di alto livello cui vengono concesse scene da comparse. L'unico che riesce a distinguersi è Ninetto Davoli nella parte di Epifanio/Eduardo de Filippo, unico a non essere forzato all’uso dell’inglese e dunque a non rimanere azzoppato nella sua naturalezza espressiva (per quanto un De Filippo che parla in romano non sia esattamente l'ideale...).

Il film di Ferrara risulta piatto, poco convincente e superficiale perché rimane a metà del guado, indeciso tra l’uso di una lingua o dell’altra, tra raccontare un grande intellettuale per quello che era o cercare di esaltarne l’umanità, tra l’essere un film artistico o un biopic da sceneggiato televisivo.

*1/2

Pier

PS: questa recensione è stata rielaborata a partire da quella già pubblicata su Nonsolocinema durante la Mostra. La trovate qui.

venerdì 5 settembre 2014

Telegrammi da Venezia 2014 - #5


Quinta parte dei telegrammi veneziani. Domani arrivano la sesta e ultima parte e il Totoleone.


Sivas (Concorso), voto 5. Storia banale e non approfondita del rapporto tra un ragazzo e un cane da combattimento. Il film si salva solo per l'interpretazione del giovane protagonista e le atmosfere, ma non basta.

Cymbeline (Orizzonti), voto 3. Di gran lunga il peggior film visto qui al festival, un adattamento moderno di Shakespeare che fa rabbrividire per lo spreco di talento che mette in scena. Ed Harris, Ethan Hawke e Milla Jovovich recitano in un lavoro raffazzonato e approssimativo, che non riesce né a emozionare né a interessare.

La Trattativa (Fuori Concorso), voto 7. La Guzzanti smette i panni della pasionaria per indossare quelli della documentarista, e realizza un film che, per quanto ovviamente non imparziale, offre una panoramica interessante e puntuale  sui fatti riguardanti la presunta trattativa Stato-mafia, riuscendo a rendere il racconto piacevole e a volte persino divertente.

Theeb (Orizzonti), voto 8. Splendida storia di maturazione e crescita di un giovane beduino, che scopre le tradizioni e l'intima natura del suo popolo attraverso un viaggio nel deserto con il fratello e un ospite in difficoltà.

Pasolini (Concorso), voto 5. Nonostante qualche guizzo artistico, il film di Ferrara su Pasolini risulta superficiale. Ottima la prova di Dafoe, nonostante la scellerata scelta di fargli recitare alcune scene in italiano. Qui la recensione completa fatta per Nonsolocinema.

Le dernier coup de marteau (Concorso), voto 7. Interessante film sull'adolescenza, tra musica classica, calcio e problemi di salute. Qui la recensione completa.