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sabato 7 settembre 2024

Venezia 2024 - Il Totoleone

Anche quest'anno siamo giunti al termine della Mostra del Cinema, tra caldo tropicale, biciclette, cene ingollate tra un film e l'altro, e critici buongustai in panama bianco: una Mostra di buon livello medio, con poche vette ma ancor meno delusioni o film che facevano venir voglia di fuggire dalla sala. Anche quest'anno Alberto Barbera ha confezionato un'ottima selezione, corroborando l'entusiasmo con cui molti (compreso chi scrive) avevano accolto la sua riconferma.

È stata una Mostra in cui, come nel 2023, ci sono stati molti film biografici, da Diva Futura ad Ainda Estou Aqui, passando per la Callas di Larrain in Maria. Accanto a questi, molti film di carattere storico, come Campo di Battaglia e The Order, mentre minore è stata la presenza della politica, portata solo (e molto marginalmente) da Youth: Homecoming e The Room Next Door. La Mostra continua a guardare alla realtà, sia passata che presente, ma quest'anno è rispuntata la fantasia, che si è persino permessa di inventare intere biografie (The Brutalist). 

Qui trovate un elenco, con voti, dei film visti. Di seguito, invece, trovate i pronostici, quasi sicuramente sbagliati, per il Leone d'Oro e gli altri premi, corredati come sempre dalle mie preferenze personali.


Premio Mastroianni per il miglior attore emergente
Non ci sono tantissimi candidati papabili al premio Mastroianni quest'anno - vuoi per scarsità di ruoli rilevanti, vuoi per la natura corale della maggior parte dei film con giovani protagonisti. Il pronostico ricade su Martina Scrinzi, giovane protagonista di Vermiglio, mentre la mia scelta personale va a Benjamin Voisin, splendido coprotagonista di The Quiet Son, anche se forse è già troppo lanciato per poter ottenere questo premio.
PronosticoMartina Scrinzi, Vermiglio
Scelta personaleBenjamin Voisin, The Quiet Son

Coppa Volpi maschile
Sfida molto accesa, con tantissimi pretendenti: dal Vincent Lindon di The Quiet Son al Joaquin Phoenix canterino di Joker: Folie à Deux (dopo che con Joker non vinse a causa del regolamento della Mostra che impedisce che il Leone d'Oro prenda altri premi - regola cui pare quest'anno sia possibile ovviare in caso di unanimità in giuria); dall'Adrien Brody di The Brutalist al Nahuel Pérez Biscayart di El Jockey, passando per Daniel Craig in Queer. A Biscayart, dolente e silenzioso, va il mio pronostico, mentre su Brody, potente e fragile, va la mia scelta personale.
PronosticoNahuel Pérez Biscayart, El Jockey
Scelta personale: Adrien Brody, The Brutalist

Coppa Volpi femminile 
Sfida meno accesa di quella per la Coppa maschile, ma comunque ricca di pretendenti qualificate: Angelina Jolie offre la classica prova "da Oscar" in Maria, ma Isabelle Huppert potrebbe preferire prove meno appariscenti e più "contenute" come quelle di Tilda Swinton e Julianne Moore in The Room Next Door o di Fernanda Torres in Ainda Estou Aqui. Sulla Torres, bravissima, ricade il mio pronostico. La mia scelta personale va invece, ex aequo, alle due protagoniste del film di Almodovar, che sarebbe dimenticabile (a dispetto di ciò che dice la critica imparruccata, che non a caso sembra apprezzare un Almodovar più conservatore) se non fosse per la loro straordinaria prova.
Pronostico: Fernanda Torres, Ainda Estou Aqui
Scelta personale: Julianne Moore e Tilda Swinton, The Room Next Door

Leone d'Argento (Miglior Regia) 
Se ci fosse giustizia, The Brutalist avrebbe già il Leone d'Oro. Ma dato che il mondo è buio e freddo, e i capolavori vengono riconosciuti pienamente solo con il tempo, temo che Corbet dovrà "accontentarsi" di questo premio - un risultato comunque notevolissimo per un regista al terzo film. Su di lui ricade il mio pronostico, mentre la mia scelta personale ricade su Todd Phillips, che firma un sequel coraggioso e divisivo, creando una commissione di generi di difficile digestione ma di grande ricchezza e complessità. Piccola menzione anche per Giulia Steigerwalt, che realizza un'opera seconda di rara maturità per composizione, chiarezza tematica, e direzione degli attori: ma il film ha toni da commedia, peccato mortale presso i festival cinematografici e i già citati critici imparruccati.
Pronostico: Brady Corbet, The Brutalist
Scelta personale: Todd Phillips, Joker: Folie à Deux

Gran Premio della Giuria 
Il favorito per il secondo premio più importante sembrerebbe un beniamino dei giudici come Luca Guadagnino. E il suo Queer è indubbiamente un bel film a tutti i livelli: visivo (soprattutto), recitativo, e di scrittura (ancorché troppo lungo). Il problema è che è molto poco originale, e soprattutto è un adattamento pessimo del romanzo breve di Burroughs, e ne tradisce in pieno toni, intenzioni, e stile. Se ci fosse un minimo di attenzione per questi aspetti, il premio dovrebbe andare ad altri: ma temo non sarà così. All'opera più bizzarra, originale, meravigliosamente schizofrenica della Mostra - El Jockey di Luis Ortega - va invece la mia preferenza personale.
Pronostico: Queer
Scelta personaleEl Jockey

Leone d'Oro 
Sfida davvero accesa e incerta, con tutti i film già citati per gli altri premi che potrebbero legittimamente ambire anche al trofeo più prestigioso. Come detto, il mio preferito, nonché unico vero capolavoro della Mostra, è The Brutalist, ma temo non vincerà a favore di The Room Next Door. Un film che piace a chi scambia la verbosità per profondità, che può comunque esibire dei meriti oggettivi (tematica rilevante, attrici ottime, uso del colore splendido). Su Almodovar, dunque, ricade il mio pronostico.
Pronostico: The Room Next Door
Scelta personale: The Brutalist

È tutto anche per quest'anno. Correte in SNAI a scommettere sull'opposto dei miei pronostici, e noi ci risentiamo per l'edizione 2025.

Pier

martedì 3 settembre 2024

Telegrammi da Venezia 2024 - #4

Quarto telegramma da Venezia 2024, tra eutanasia, villaggi alpini e di campagna, perdita della memoria, e grandi registi che cercano di adattare grandi scrittori, con risultati altalenanti.


The Room Next Door (Concorso), voto 6.5. Almodovar realizza un film sull'eutanasia splendidamente recitato da Swinton e Moore (anche se la scelta di far fare due personaggi alla pur ottima Swinton risulta posticcia anziché efficace) e con una fotografia pittorica. Tuttavia, la sceneggiatura è eccessivamente verbosa, con una serie di monologhi simil-teatrali che riducono la credibilità e il coinvolgimento emotivo.

Vermiglio (Concorso), voto 7. Italia, anni Quaranta. Una famiglia che vive in un paesino sulle Alpi trentine vede la sua quotidianità sconvolta dall'arrivo di un fuggiasco dalla guerra e dalla crescita delle figlie. Film di respiro, fatto di quotidianità e atmosfere, che ricorda i lavori di Giorgio Diritti nella sua indagine del rapporto uomo-natura e delle relazioni umane. Tocca le corde giuste, nonostante una lunghezza eccessiva. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Familiar Touch (Orizzonti), voto 8. Una donna ancora autosufficiente ma con gravi problemi di memoria si trasferisce in una clinica. Toccante e commovente, il film affronta il problema del declino cognitivo dal punto di vista del paziente, ma senza indulgere né negli orrori della malattia né in facili pietismi. La protagonista (seria candidata al premio come migliore attrice della sezione Orizzonti) vive la sua quotidianità con leggerezza e sorrisi, cercando di trovare un raggio di luce nell'ombra che le sta calando nel cervello.

Queer (Concorso), voto 6.5. Guadagnino adatta l'omonimo romanzo di Burroughs, e conferma ancora una volta la difficoltà nel portare al cinema i romanzi della beat generation. La storia è infatti di scarso interesse, perché l'innovazione non sta nel "cosa" racconta Burroughs, ma nel "come": una prosa innovativa, che scardina le convenzioni sia a livello stilistico che narrativo. Guadagnino, invece, gira in modo iper-classico, e non bastano alcune scene allucinatorie per restituire lo stile di Burroughs. In generale, è difficile immaginare un regista meno adatto ad adattare l'autore più geniale del gruppo beat: laddove Burroughs è sporco, sudicio, distrutto, Guadagnino è pulito, lucido, patinato. Bellissima la forma (soprattutto l'uso di luce, debitore anche di Storaro nel finale, e colore); ma la sostanza è davvero poca.

Harvest (Concorso), voto 5. Un villaggio vive in pace con se stesso e la natura, vivendo una vera esistenza comunitaria, fino a quando un cambio nel proprietario terriero sconvolge la quotidianità dei protagonisti. Il film sembra indeciso su che strada prendere, flirtando con il folk horror e con il dramma d'epoca senza però mai prendere una decisione. Il risultato è un film confuso, lento, e sconclusionato, che non può essere salvato da alcune scene molto riuscite e dalla buona prova del cast.

Pier e Simone

giovedì 9 novembre 2023

The Killer

La routine dell'omicidio


Un killer senza nome vive la sua professione con ossessiva meticolosità. Un giorno, però, fallisce un obiettivo, e la sua vita ordinata e senza variazioni viene del tutto sconvolta. 

Fare il killer è un lavoro come un altro: questo sembra essere l’assunto che guida il nuovo film di David Fincher, in cui il protagonista ha la verve e le strette routine di un impiegato, l’approccio metodico e controllato di un contabile, la divisione vita-lavoro di chi timbra il cartellino. Il killer interpretato da Fassbender è anonimo e vuole esserlo, ripete continuamente le sue regole come un mantra, e medita per mantenere sotto controllo le sue emozioni: incarna, in sintesi, la banalità del male, un male fatto di apatia e meccanica ripetizione. 

Ma come reagisce un uomo del genere a un imprevisto che sconvolge, anzi, distrugge le sue routine e le sue abitudini? La rottura dei fragili equilibri che regolano le nostre esistenze è un leitmotiv della cinematografia fincheriana, e in particolare dei suoi film che si focalizzano su omicidi e killer come Se7en e Zodiac. Lì però il killer era l’elemento destabilizzante, il Male che si infiltrava nelle vite di persone comuni, sconvolgendole fino a farsi ossessione. Qui è il killer a subire, in un certo senso, la sua stessa medicina, e la sua reazione è il focus principale del film.

Sfruttando lo strumento della voce narrante, Fincher esplora la psiche del suo protagonista. I diversi approcci che usa per affrontare gli ostacoli di diversa natura che gli si parano davanti ci rivelano vari lati della sua personalità, che scopriamo essere più sfaccettata di quello che sembrava in prima istanza. Fassbender mette fisico e espressione glaciale al servizio di questo lavoro di introspezione, che risulta quindi ben riuscito. 

Ciò che manca, tuttavia, è la scintilla che elevi il film al di sopra di un “semplice” lavoro ben riuscito: Fincher realizza un film solido ma apatico, un’aggiunta interessante ma minore alla sua cinematografia in generale, e a quella dedicata alle pulsioni più oscure dell’animo umano (tra cui spiccano i due film sopracitati) in particolare. Alcune sequenze sono decisamente ben fatte, ma per il resto The Killer scorre verso il suo finale senza sussulti, con un ritmo regolare e ben strutturato che manca però di guizzi, sorprese, originalità. Un peccato per un regista che ci aveva abituato a uno sguardo sempre nuovo anche su tematiche e generi ben collaudati.

***

Pier

Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

martedì 6 settembre 2022

Telegrammi da Venezia 2022 - #5

Quinto telegramma da Venezia, con utopie/distopie anni cinquanta, storie di fantasmi sui generis, cadaveri cinematografici italiani, western classici, e il film migliore visto finora alla Mostra.


Don't Worry Darling (Fuori Concorso), voto 6. Dopo l'ottimo esordio di Booksmart, Olivia Wilde torna alla regia con un film del tutto diverso, un'utopia anni Cinquanta dove qualcosa è fuori posto. Il film si muove tra thriller e horror con un buon ritmo, ma ripete temi già visti e non spicca per originalità. Ottima la prova di Florence Pugh, cuore pulsante del film. Qui la recensione estesa scritta per Nonsolocinema.

The Banshees of Inisherin (Concorso), voto 10. Che dire? Martin McDonagh non sbaglia un film. Dopo In Bruges, 7 Psicopatici, e Tre Manifesti, il regista-scrittore sfodera un altro film impeccabile, forse il suo migliore: una sceneggiatura perfetta, interpretazioni sublimi, musiche e fotografia evocative, e una regia che amalgama il tutto con sapienza. Un film che, attraverso il microcosmo di un'isola, racconta il macrocosmo dell'umanità, con il conflitto per futili motivi tra due (ex) amici che si fa simbolo del conflitto irlandese, ma in generale di tutti i conflitti tra uomini, gruppi, e nazioni. 

The Eternal Daughter (Concorso), voto 5.5. Una ghost story sui generis, con l'ennesima ottima interpretazione di Tilda Swinton (in un doppio ruolo) e splendidi fotografie e sonoro, gotici e d'atmosfera. La sceneggiatura è però debole, con un colpo di scena (peraltro non fondamentale ai fini del messaggio) che tale non è, e una tematica già vista. Peccato, perché le atmosfere sono davvero suggestive.

Il Signore delle Formiche (Concorso), voto 2. Un film che puzza di cadavere per quanto è vecchio, mal scritto e mal recitato, al punto di sembrare la parodia di uno di quei prodotti da cineforum che sarebbero piaciuti a Guidobaldo Maria Riccardelli. Qui la recensione estesa scritta per Nonsolocinema.

Dead for a Dollar (Fuori Concorso), voto 6. Un western classico con qualche spunto bizzarro e innovativo, soprattutto nel montaggio. Cast di livello che include, oltre a Waltz e Dafoe, anche Rachel "Mrs. Maisel" Brosnahan. 

Pier

martedì 9 novembre 2021

The French Dispatch

Qui, lì, in nessun luogo


Alla morte di Arthur Howitzer Jr., fondatore di The French Dispatch, il supplemento domenicale del quotidiano "The Evening Sun" di Liberty (Kansas), la redazione si riunisce per ricordarlo. Scopre che Howitzer ha deciso che, alla sua morte, il periodico, con sede nell'immaginaria cittadina francese di Ennui-sur-Blasé, dovrà chiudere. La redazione si prepara dunque a stampare l'ultimo numero, fatto di tre storie molto diverse, eppure rappresentative della fervida vita sociale e culturale del paese che lo ospita.

Con The French Dispatch, Anderson si cimenta con nuovi linguaggi (il bianco e nero), soluzione espressive (i cambi scena visibili), generi (il poliziesco/cinema d'azione): pur mantenendo il suo inconfondibile sguardo, è un film diverso, sperimentale, che prova a cercare nuovi modi di raccontare le sue storie fatte. 
Il risultato non è convincente come quello di altri registi "usciti dal seminato" - anche a causa della struttura a episodi, che detrae un po' dal coinvolgimento emotivo che solitamente è la forza dei film di Anderson - ma è comunque estremamente affascinante: è sempre una gioia vedere un regista affermato che prova nuove strade, cercando di reinventarsi senza rinunciare a essere se stesso.

La sperimentazione è visibile già nella struttura a episodi e nel tema: The French Dispatch è un'ode al giornalismo narrativo e, più in generale, all'arte del racconto, al coraggio necessario per avere uno sguardo forte, distintivo e per raccontare il mondo per come lo vediamo, senza compromessi. È anche il film più "politico" di Anderson: il conflitto generazionale, da sempre presente nei suoi film, si fa protesta di piazza, il razzismo e l'omofobia fanno capolino in modo delicato ma di impatto, e la polizia compie a favore di camera azioni che richiamano all'omertà che circonda i pestaggi fuori e dentro le carceri, spesso impuniti. 

La prima volta di Anderson con il bianco e nero convince, ed è splendida nella sua semplicità e pulizia: in alcune scene i bianchi e neri che sfumano con eleganza l'uno nell'altro, la luce soffusa di un ricordo nostalgico; in altre sono più netti, definiti, quasi espressionisti nel loro delineare luci e ombre. Le periodiche e impreviste incursioni di colore (splendida quella che vede protagonista Saoirse Ronan) hanno una qualità onirica, e contribuiscono a trasportare la vicenda in un altrove che è un "qui" diverso per ciascuno spettatore.

La prova del cast è, come sempre, sontuosa: spiccano Chalamet e Del Toro, divertiti e sornioni, e soprattutto un dolente Jeffrey Wright, cuore pulsante del terzo atto che torreggia su tutti gli altri per peculiarità del personaggio (un giornalista culinario che vuole intervistare il più famoso chef di "cucina poliziesca") e portata emotiva del suo passato.

The French Dispatch può apparire superficiale a causa di un estetismo a limiti del perfezionismo e di un sapore per la messa in scena teatrale, a volte in maniera esplicita. Tuttavia, sotto l'abito buono ed elegante si intuisce un cuore pulsante fatto di personaggi bizzarri ma vivi, reali: un gruppo di adorabili asimmetrici costretti a esibirsi su un palco simmetrico, tondi in un mondo quadrato, perennemente alla ricerca di un qualcosa che, come nella vita, finisce spesso per non arrivare. Ma, sembra dirci Anderson, è nell'attesa, nella continua aspirazione che si realizza l'essere umano: un messaggio vecchio di secoli, ma che sembra sempre più vero nella società odierna.

È un film con una grande amarezza di fondo, un senso di non-finito, di interruzione improvvisa e indesiderata, un profumo di sogni non realizzati che accompagna tutte le storie e la vicenda dell'editore e del suo giornale. The French Dispatch è, in questo senso, un perfetto ritratto della nostra epoca, soprattutto per i giovani e le minoranze: un tempo di eterna attesa, di riconoscimenti cercati, inseguiti, ma mai raggiunti, un eterno presente in cui il passato è un macigno lasciatoci da altri e il futuro ha, forse, smesso di esistere.

*** 1/2

Pier

sabato 17 ottobre 2020

La vita straordinaria di David Copperfield

Un classico per i nostri tempi


Inghilterra, età vittoriana. David Copperfield nasce orfano di padre. Allevato dalla madre e dalla governante, vedrà il suo nido idilliaco infranto dall'arrivo di Mur. Murdstone, nuovo marito della madre. Questi, per liberarsene, lo spedisce a Londra a lavorare nella sua fabbrica. Questo è l'inizio di una serie di avventure e disavventure che porteranno il giovane David a scoprire se stesso, passando spesso dalle stelle alle stalle e incontrando una galleria di personaggi memorabili sulla sua strada. 

Poco noto al pubblico italiano, Armando Iannucci (scozzese, anche se di origini italiane) è uno degli autori più geniali e innovativi in attività, specializzato in satira politica. Sue sono le meravigliose serie The thick of it e Veep, dove mette a nudo senza pietà e con un misto di crudeltà e ironia molto british le idiosincrasie di politici e politicanti. Laddove il suo primo film, Morto Stalin se ne fa un altro, proseguiva questo filone, La vita straordinaria di David Copperfield vira in direzione della commedia e della satira sociale. Iannucci riprende le tematiche di denuncia della storia di Dickens ma le spoglia quasi del tutto della loro componente patetico-emotiva per puntare su toni leggeri, ma ugualmente efficaci nel mettere a nudo le contraddizioni del sistema delle classi sociali inglesi. 

Iannucci mette in atto questa visione già nella scelta del cast, un ensemble multietnico dove un indiano ha genitori caucasici e un'afroamericana un padre asiatico, annullando così ogni differenza razziale. Questa scelta, originale, coraggiosa e mai vista al cinema (più frequente a teatro), ha l'effetto di far risaltare ancora di più le assurdità delle distinzioni per ceto: un sistema di classi rigido, ingessato, che Iannucci, da buon inglese, sa essere vivo e rampante ancora ogni giorno. 

Alla rigidità del sistema si oppone la vitalità contagiosa di David, mirabilmente interpretato da Dev Patel, che dà al personaggio un entusiasmo contagioso e fanciullesco, che fa vibrare di vita il film. Accanto a lui, un'indimenticabile galleria di eccentrici, tra cui spiccano Hugh Laurie nella parte dello svampito Mr. Dick, Tilda Swinton in quella dell'eccentrica zia Betsy, e Peter Capaldi nel ruolo del funambolico straccione squattrinato Mr. Micawber.

La sceneggiatura procede per quadri, con i vari episodi della vita di David congiunti solo dalla sua voce narrante. Questa sconnessione a volte rallenta il ritmo del racconto, che però non risulta mai noioso grazie alla brillantezza di dialoghi e personaggi. 
Il comparto visivo riflette la vitalità dei personaggi e della sceneggiatura, amplificandole, con una fotografia ariosa e luminosa, costumi pastello, e abitazioni eccentriche che sembrano uscite da un libro di avventure, piene di oggetti e di vita. Tutto sembra un parto della fantasia esuberante di David, un frutto del suo racconto allo spettatore, un'immagine della realtà trasfigurata dai suoi occhi da sognatore che non si arrende di fronte alle difficoltà.

Dietro questa patina spensierata, tuttavia, Iannucci mette in scena un passato di abusi e ingiustizie che ricorda sinistramente il presente, in cui pochi hanno tantissimo e molti devono arrangiarsi, tirare a campare, vivendo alla giornata e trascinandosi tra debiti e mancanza di cibo, con lo spettro della prigione che aleggia su di loro. La Londra vittoriana di Dickens diviene la Londra multietnica di oggi, e la somiglianza è sconcertante ma innegabile.

Iannucci si conferma un regista che ha sempre qualcosa da dire, ma dimostra anche una capacità di cambiare registro e tono senza rinunciare alla sua voce e alla sua visione del mondo. La vita straordinaria di David Copperfield è un film che diverte e dona gioia, ma che al tempo stesso fa riflettere. Alle risate sonore si mescolano i sorrisi amari, in una commistione tra commedia e satira che funziona e colpisce, e che dimostra che alcuni classici hanno ancora tantissimo da dire.

****

Pier

martedì 28 aprile 2020

Nuovo Cinema Paravirus - Puntata 46

Nuova puntata di Nuovo Cinema Paravirus, la rubrica che vi suggerisce film da vedere in quarantena.


Il genere di oggi sono i film di vampiri.

I film segnalati sono:

1)  Intervista col vampiro (disponibile su Netflix). Un grandissimo classico del genere, uno dei prodotti audiovisivi che hanno segnato l'immaginario collettivo del vampiro, grazie sia alle atmosfere decadenti, splendidamente ritratte da Neil Jordan, sia alle interpretazioni del cast, Tom Cruise in testa.

2)  Solo gli amanti sopravvivono (disponibile su Prime Video). Jim Jarmush realizza uno dei migliori dieci film del decennio appena concluso (qui il nostro elenco), un film lirico, visivamente sontuoso, in cui i vampiri diventano i difensori di un'estetica perduta, soffocata dalla macchina insaziabile del capitalismo. Qui la recensione completa.

3)  Dark shadows (disponibile su Infinity). Una miscela irresistibile tra horror vampiresco e commedia brillante che, pur calando di ritmo nella seconda parte, crea un'atmosfera che avvince e diverte lo spettatore. Qui la recensione completa.

A domani per la quarantaseiesima puntata!

Pier


giovedì 3 gennaio 2019

Suspiria

Le nuove facce dell'orrore


Berlino, 1977. Susie Bannion, una giovane danzatrice statunitense, ottiene un'audizione presso la compagnia di danza Markos Tanz Company. Durante l'audizione attira l'attenzione della famosa coreografa Madame Blanc, e nel giro di breve tempo ottiene il ruolo di prima ballerina. Intorno a lei, tuttavia, continuano ad accadere strani eventi, tra allieve scomparse e sussurrate accuse di stregoneria. Susie dovrà scoprire la verità, sullo sfondo di una Berlino cupa e caotica a causa delle scorribande della RAF.

Se c'è una dote che non manca a Luca Guadagnino, questa è indubbiamente il coraggio: scegliere di confrontarsi con un film di culto come il Suspiria originale di Dario Argento, pietra miliare del genere horror e della cinematografia del regista romano, è infatti un'impresa che farebbe tremare le gambe anche a cineasti più esperti del cremonese. Guadagnino affronta quest'opera ai limiti del titanico scegliendo una visione completamente diversa da quella del film originale, facendo così del suo film un omaggio più che un remake.

Guadagnino di fatto mantiene soltanto l'impianto centrale della storia - la scuola di danza che serve da copertura per una congrega di streghe. Per il resto il distacco è totale: laddove il film di Argento è un horror a tutti gli effetti, quello di Guadagnino è un ibrido che racconta l'orrore attraverso generi e piani di lettura diversi. All'orrore nascosto nella scuola di danza si accompagna anche l'orrore dei crimini del Nazismo, un fuoco solo apparentemente sopito ma che brucia ancora sotto le ceneri in forma di senso di colpa e tensione sociale. In una Berlino che ha un deciso debito visivo con i film di Fassbinder, la storia di Susie si incrocia in molteplici modi con quella della Germania del 1977, una nazione che sta ancora facendo i conti con il proprio passato, qui incarnato dallo psicoterapeuta tormentato, e che si trova sull'orlo di una guerra civile e, forse, di una nuova deriva autoritaria a seguito delle scorribande della Rote Armee Fraktion, con cui sembra collaborare la studentessa scomparsa Patricia. 

Guadagnino osserva la presa di coscienza di Susie e della Germania con occhio contemplativo, interessato più agli effetti del potere sulla personalità che all'aspetto gore che interessava Argento: il film è infarcito di riuscitissimi momenti di body horror degni del miglior Cronenberg, che svolgono però una funzione più introspettiva che spettacolare. Ciò che interessa non è l'effetto, ma la causa, ovvero la presa di coscienza di Susie del proprio potere e del suo ruolo all'interno della congrega e nel mondo, nonché le scelte che compie nel suo percorso di crescita. La splendida fotografia di Sayombhu Mukdeeprom si concentra così sulla creazione di atmosfere non terrificanti o "goticheggianti", ma claustrofobiche. La scuola diviene quindi un tunnel labirintico in cui ai colori saturi degli ambienti si contrappone il rosso fiammeggiante degli abiti di scena e dei capelli di Susie, pura iniezione di colore ed energia in un microcosmo ingessato, all'interno del quale si muovono delle streghe mai così decadenti, vecchie cariatidi destinate all'estinzione, invidiose e avide predatrici della forza vitale della gioventù.


La storia di Susie e la Storia della Germania si incrociano a livello non solo narrativo, ma anche meta-narrativo, con la congrega di streghe che sta anch'essa vivendo un dissidio interno con un rischio di dittatura. Questo complesso incastro narrativo orchestrato dallo sceneggiatore David Kajganich funziona solo in parte: per quanto evocativo e suggestivo, infatti, finisce spesso per appesantire il film, oberandolo di digressioni e lungaggini che rallentano il ritmo senza aumentarne la profondità della riflessione. La storia è comunque coinvolgente, anche se ha un crollo deciso nel finale, dove i punti misteriosi della trama cessano di essere interessanti per diventare semplicemente assurdi, con elementi in palese contraddizione palese tra loro (i flashback sull'infanzia di Susie e ciò che suggeriscono cozzano con la sua scelta finale, ad esempio), finendo addirittura per negare alcuni dei messaggi centrali del film su emancipazione e significato del potere. La regia, fin lì solidissima e di alto livello artistico, purtroppo segue il calo narrativo con una scelta cromatica oltremodo scontata e con delle scelte di trucco indegne di comparire in una puntata del Bagaglino, finendo così per depotenziare una coreografia splendida e immaginifica.

Tilda Swinton, impegnata addirittura in tre ruoli,le ruba la scena nella parte di Madame Blanc, oltremondana ma carismatica come la parte richiede. Il fatto che indossi anche i panni dello psicoanalista (seppur utilizzando uno pseudonimo) risulta più una curiosità che altro, dato che non serviva certo questo espediente per convincere il pubblico delle grandi doti dell'attrice-feticcio di Guadagnino. Dakota Johnson, pur alla sua miglior prova su schermo, risulta comunque poco più espressiva degli elementi di arredo, e in generale del tutto inadatta a sorreggere un film di tale ambizione sulle sue spalle. 
Tra i punti deboli del film vanno a malincuore citate anche le musiche di Tom Yorke, coraggiose ma poco incisive, che finiscono nel dimenticatoio non appena usciti dalla sala: il confronto con le musiche che i Goblin composero per l'originale è quasi impietoso.

Suspiria non è un horror in senso stretto e crea ben pochi spaventi, ed è per questo destinato a scontentare i fan dell'originale che se ne aspettavano una copia carbone. Chi saprà andare oltre alle differenze troverà un film quasi seducente nella sua esplorazione del Male e degli orrori del potere, del passato, e della Storia, baciato da una regia solida e da un comparto visivo sontuoso; un film che paga però una sceneggiatura che poteva essere intrigante ma finisce per essere semplicemente sgangherata a causa di una coda poco riuscita e delle numerose e inutili lungaggini, che rendono il risultato finale poco coerente e ne riducono quindi l'impatto emotivo e la portata esegetica e artistica.

***

Pier

mercoledì 16 maggio 2018

L’isola dei cani

Una favola per i nostri tempi



Giappone, 2037. A causa di un'influenza canina, i cani continuano a morire. Con il pretesto di voler salvaguardare la salute pubblica, il sindaco di Megasaki City, Kobayashi, esilia tutti i cani in una isola-discarica chiamata trash island. Il figilio adottivo del sindaco, Atari, decide però di partire per l'isola per ritrovare il suo amato cane da guardia, Spots. Ad aiutarlo troverà un improbabile gruppo di ex cani domestici, ormai rassegnatisi al randagismo ma non per questo disposti ad abbandonare il ragazzino.

A livello di trama, Wes Anderson ci ha abituato a un cinema che racconta i problemi normali di persone straordinarie (o l'opposto): un cinema fatto di personaggi, ma anche delle trappole che la vita tende loro, con una particolare attenzione per come le convenzioni sociali spesso si trasformino in una gabbia più o meno dorata. Anche in Fantastic Mr Fox, la sua prima avventura nella terra dell'animazione in stop motion, Anderson aveva mantenuto queste sue caratteristiche, scegliendo una storia di Dahl che gli permettesse di raccontare i problemi di una famiglia e una comunità disfunzionali. A livello musicale, Anderson ci aveva abituato a colonne sonore ricercate, fatte di musiche pre-esistenti scelte con certosina attenzione per sottolineare

Con L'Isola dei cani, Anderson cambia radicalmente registro, senza però perdere il tocco che lo rende uno dei registi più amati e originali del panorama cinematografico contemporaneo. Fin dalle prime battute, L'isola dei cani si presenta infatti come una favola moderna, raccontata con musiche originali evocative, quasi tribali (ottimamente composte da Alexandre Desplat) che proiettano fin da subito il film in una dimensione irreale e atemporale. Anderson ambienta la storia in un Giappone stereotipato e fuori dal tempo, sfondo ideale per una favola, ma lo infarcisce di dettagli autentici, vivi e vibranti, che fanno sì che la favola non resti una piatta allegoria ma si faccia storia. L'isola dove vengono esiliati i cani è infatti un capolavoro di design, un paesaggio post apocalittico degno di Mad Max, così come il quartier generale del malvagio Kobayashi, ispirato dichiaratamente all'estetica e alla retorica nazista ma al tempo stesso fedele a quelle nipponiche.

Nonostante questi elementi "fantastici", il film rimane sempre profondamente reale, commuovendo e appassionando lo spettatore. L'elemento l'elemento didascalico rimane sullo sfondo, visibile ma mai sbattuto in faccia, e si faccia quindi strada lentamente nella mente dello spettatore, in modo sottile ma non per questo meno efficace.
Il racconto del rapporto tra un ragazzo e il suo cane diventa un pretesto per parlare del rapporto tra uomo e cane in generale, che a sua volta diventa un pretesto per raccontare cosa succede quando si rompe il patto sociale e si comincia a classificare gli esseri viventi sulla base della razza anziché della loro capacità di sentimento e raziocinio. Una favola complessa, dunque, con molteplici livelli di lettura, che parla del passato ma guardando al presente sia canino (i campi di concentramento per cani giapponesi) che umano.

In questi scenari quasi teatrali (e spesso ripresi come tali da Anderson, che mai come questa volta fa uso di lunghe carrellate per raccontare l'odissea dei protagonisti) si muovono dei personaggi tipicamente andersoniani, per quanto in forma animale: gli splendidi cani protagonisti sono nevrotici, con un passato complesso fatto di rifiuto e abbandono, e al tempo stesso sono generosi, quasi folli nella loro bontà, ed estremamente divertenti nelle loro nevrosi e fissazioni. La loro costruzione certosina, sia a livello di personalità che di aspetto, ci rivela la vera cifra tematica del cinema di Wes Anderson: non la simmetria, suo cavallo di battaglia visivo, ma l'amore per i suoi personaggi, qui addirittura esplicitato nel titolo del film (Isle of dogs, il titolo originale, si legge in modo identico alla frase "I love dogs"). L'arte cinematografica di Wes Anderson risiede nella sua capacità unica di costruire personaggi indimenticabili e vicini al cuore dello spettatore, una capacità che gli viene riconosciuta fin dagli esordi (nientemeno che da Martin Scorsese) e che il regista texano ha via via affinato film dopo film, raccontando storie all'apparenza semplici, ma sempre in grado di parlare al cuore dello spettatore.

Chi giudica il film di Wes Anderson fermandosi alla bellezza delle immagini - anche qui stordenti nella loro perfezione - non coglie appieno la grandezza del suo cinema, che è prima di tutto un cinema fatto di emozioni, che nasce nel teatro (da cui deriva il suo gusto per la messa in scena) ma lo permea di quel realismo di cui solo la macchina da presa è capace. Persino in una favola con dei cani come protagonisti, Anderson riesce a emozionare, realizzando uno dei suoi film più dolci eppur più profondi, e trasportandoci in un mondo in cui i combattimenti si risolvono in una nuvola di zanne e pelo e facendocelo accettare come vivo e vero: un mondo che parla di noi, come spettatori e come uomini.
Lasciate che Wes Anderson vi prenda per mano (possibilmente in lingua originale, visto il cast vocale): non ve ne pentirete.

**** 1/2

Pier

giovedì 24 novembre 2016

Doctor Strange (In pillole #6)

E' quasi magia Marvel


Stephen Strange è un brillante neurochirurgo di New York. A seguito di un incidente d'auto perde il pieno controllo sulle sue mani e, dunque, la possibilità di svolgere il suo lavoro. Alla disperata ricerca di una soluzione, Strange entrerà in contatto con l'Antico, lo Stregone Supremo della Terra, che lo introdurrà all'arte della magia.

Dopo una serie di film che sembravano fotocopiati a livello visivo (qui si trova un'ottima spiegazione tecnica del perché), la Marvel si risolleva grazie a uno dei suoi personaggi più visionari e alternativi, profondamente debitore della cultura psichedelica degli anni Sessanta (come spiegato mirabilmente dai 400 Calci) e in grado di fornire una nuova dimensione all'universo Marvel: quella della magia e del misticismo. Così i piani si moltiplicano, si incrociano e si rincorrono, dando vita a una esplosione visiva degna di Inception o di un quadro di Dalì.

Il film è una classica storia di formazione dell'eroe, che si discosta però dai classici archetipi del genere sia nella caratterizzazione morale dei protagonisti, mai al 100 % positivi, sia nella messa in scena del percorso e, soprattutto, dello scontro finale, forse il più originale visto finora in un film di supereroi. Cumberbatch conferisce al personaggio la giusta dose di arroganza e charme, riuscendo a sopperire allo scarso carisma del suo antagonista, penalizzato dalla sceneggiatura più che dal suo interprete.

Doctor Strange rappresenta una novità per il mondo Marvel, un possibile passo in una direzione diversa che, se opportunamente sfruttata, e se sviluppata narrativamente meglio di questo primo capitolo, potrebbe aprire strade promettenti.

*** 1/2

Pier

giovedì 15 maggio 2014

Solo gli amanti sopravvivono

Vampiri e Romanticismo



Adam è un musicista underground con un nutrito seguito di fan che non ne conoscono però il volto. Vive recluso in una casa in periferia di Detroit, dove colleziona chitarre d'epoca e si dedica appieno alla sua arte. Eva vive a Tangeri, immersa in libri e stoffe pregiate, e si incontra quotidianamente Christopher Marlowe, il drammaturgo elisabettiano, preso il Caffè "Le Mille e una Notte". Adam ed Eve sono vampiri, e si amano ormai da diversi secoli. Periodicamente l'uno fa visita all'altro, e i due si abbandonano a un rapporto fatto del reciproco amore per l'arte, il bello, e per una vita insieme destinata a non finire mai.

Dimenticate i ridicoli sbrilluccichi di Twilight, i combattimenti di Blade e persino la raffinata e riuscita decadenza gotica di Dracula di Bram Stoker e Intervista col Vampiro: Solo gli amanti sopravvivono è una rivisitazione del tutto originale del mito del vampiro, visto non più come individuo tormentato dalla propria condizione, ma come unico essere in grado di apprezzare la bellezza del mondo e delle creazioni umane. La vita eterna dona prospettiva e capacità di focalizzarsi sulle cose importanti, come arte, letteratura e scienza, anzichè fare come gli umani, gli "zombie" come li chiama Adam, incapaci di ricordare il proprio passato e di apprezzare il bello intorno a loro, intrappolati in una vita grigia, buia e senza futuro.

Jarmush usa il mito del vampiro per fare critica sociale, calando i due protagonisti in due città decadenti e crepuscolari, la Detroit martoriata dalla crisi di Adam e la Tangeri corrotta, soffocante e immobile di Eve. I due vampiri diventano così allo stesso tempo i primi e gli ultimi esponenti di una nuova specie, moderni Adamo ed Eva che si muovono sull'orlo di una società in rovina, cercando di venirne toccati il meno possibile. Il pessimismo cosmico di Jarmush si estende a tutte le specie, con la sorella di Eve (un'ottima Mia Wasikowska) a rappresentare il lato deviato dei vampiri, un edonismo che smette di essere contemplazione e amore per le cose belle per diventare lussuria senza freni.

Il mondo in cui si muovono i protagonisti è immobile, intrappolato in un eterno ritorno, un cerchio in cui tutto è punto di inizio e punto di fine, e solo chi sa amare, amare davvero la vita sopravvive. Il Romanticismo che pervade l'opera di Jarmush è al tempo stesso la sua forza e il suo limite, dato che dona al film l'atmosfera decadente e intellettuale che lo rende unico, ma è anche la causa della lentezza del ritmo e della narrazione. Per quanto la staticità della messa in scena sia senza dubbio una scelta voluta, la lentezza finirebbe per azzoppare il film se non fosse per lo straordinario lavoro di caratterizzazione dei personaggi. Adam ed Eve hanno una profondità psicologica e una ricchezza di dettaglio senza precedenti nei film di genere, e sono sorretti dalle due sublimi interpretazioni di Tom Hiddleston e Tilda Swinton.
Questo, insieme a una fotografia sontuosa e a una colonna sonora notturna e avvolgente, rappresenta il vero punto di forza del film, il soffio vitale che dona un'anima alla creatura di Jarmush ed evita che rimanga solo una superficiale speculazione intellettuale.

Solo gli amanti sopravvivono è un film d'autore con la "a" maiuscola, intriso della poetica e delle riflessioni che caratterizzano i film del regista statunitense. Il tocco delicato con cui ci accompagna nell'infinita notte delle esistenze di Adam ed Eve è unico e inconfondibile, e crea un armonico contrasto con la durezza delle immagini delle città e dell'umanità in rovina, rispecchiando il contrasto insito nella figura del vampiro tra morte del corpo e vitalità dell'anima.

**** 1/2

Pier

domenica 13 aprile 2014

Grand Budapest Hotel

Quando la favola sconfigge la decadenza



Monsieur Gustave è il concierge del Grand Budapest Hotel, un hotel di lusso in mezzo all'Europa. E' il migliore nel suo lavoro, che esegue con grande perizia e attenzione, e gode per questo della stima e della fiducia dei suoi facoltosi ospiti, soprattutto di quelli anziani e di sesso femminile. Quando una di esse, Madame D., passa a miglior vita in circostanze misteriose, egli eredita un prezioso dipinto, scatenando le ire della famiglia della facoltosa nobildonna. Successivamente accusato di omicidio, Monsieur Gustave si imbarcherà in una rocambolesca fuga per dimostrare la sua innocenza accompagnato dal suo fedele lobby boy Zero, mentre l'ombra del conflitto mondiale si allunga sull'Europa.

Sono pochi i registi che riescono ad avere uno stile immediatamente riconoscibile senza risultare ripetitivi e sempre uguali a se stessi. L'esercizio richiede abilità, inventiva, ma soprattutto la capacità di cambiare sempre generi e stilemi narrativi, applicando la propria estetica di volta in volta a tematiche e ambientazioni differenti. Wes Anderson è uno di questi registi, un maestro di stile ed estetica, senza eguali nella sua capacità di narrare visivamente una storia, utilizzando le immagini come strumento narrativo ed espressivo. Le immagini dei suoi film non svolgono mai una funzione meramente estetica, ma raccontano storie, personaggi e situazioni, con una forza e una capacità evocativa impareggiate nel cinema contemporaneo. Grand Budapest Hotel porta l'impronta di Wes Anderson in ogni elemento della scenografia, dei costumi, in ogni inquadratura o scelta musicale, applicandola però a un genere nuovo per il regista statunitense, una favola dalle forti connotazioni comiche e, a volte, grottesche.

L'arte del narrare è al centro del racconto, con ogni storia che viene raccontata dal protagonista di un'altra, in un gioco di scatole cinesi che esalta il contenuto emotivo e affettivo della storia, in un omaggio esplicito ed implicito ai libri di Stefan Zweig e al cinema di Lubitsch e Billy Wilder. Wes Anderson mette in scena una favola che dipinge l'eleganza e la classe degli hotel di una volta, dove tutto è perfetto e nulla è fuori posto, metafora di un'Europa splendente ma destinata per via della guerra a diventare una fatiscente rovina, memoria di un tempo glorioso che non sembra destinato a tornare. La storia di Monsieur Gustave e del suo delizioso lobby boy è quella di un lento disfacimento, in cui il razzismo e confini arbitrari diventano legacci cui sembra impossibile sfuggire. La libertà, tuttavia, è a portata di mano per chi ha spirito d'iniziativa e fantasia: i nostri eroi sperimenteranno rocambolesche fughe di prigione, amori romantici e contrastati, e continui tentativi di omicidio, alleati nella loro missione da alleanze di concierge quasi onnipotenti, amanti intraprendenti e una notevole faccia tosta, il tutto spruzzato di quel tanto di profumo necessario a fare buona figura in società.

Il film ha un gran ritmo e regala momenti di esilarante comicità verbale e visiva, sorretta da scenografia e fotografie superbe. A queste si accompagna un cast stellare, in cui spiccano lo strepitoso Ralph Fiennes, personificazione dello stile e del nobile contegno, il villain vampiresco di Adrien Brody, e l'esordiente Tony Revolori, la cui comicità a metà tra Buster Keaton e Charlie Chaplin lo rende un personaggio comico e drammatico al tempo stesso, che finisce per rappresentare tutti i popoli perseguitati della storia d'Europa.

Grand Budapest Hotel è un film delizioso, in cui il talento visivo di Wes Anderson racconta una storia che, in apparenza banale, rivela via via la sua profondità e i suoi diversi significati, offrendo tanti spunti interpretativi quanti sono i suoi piani narrativi, in un rocambolesco gioco di incastri e di rimandi che estasia gli occhi e alleggerisce il cuore.

****1/2

Pier

mercoledì 5 dicembre 2012

Moonrise Kingdom

Amore e colore


New England, 1965. Suzy e Sam sono due adolescenti problematici che vivono su un'isola sperduta: lei, sensibile e amante della letteratura, è in perenne conflitto con i genitori; lui, intellettuale e intelligente, è orfano e sta per essere allontanato dalla famiglia cui era stato affidato. I due si conoscono a una recita, si innamorano e decidono di fuggire insieme. La loro fuga d'amore porterà conseguenze inaspettate nelle loro vite e in quelle di chi li circonda.

In Moonrise Kingdom Wes Anderson riprende i suoi classici temi, regalandoci un'altra galleria di meravigliosi nevrotici, adorabili sconclusionati, e splendidi disadattati. Questa volta però i protagonisti assoluti sono due ragazzini, disarmanti nella loro capacità di sovvertire quelle regole che ingabbiano gli altri personaggi e nell'innocenza con cui vivono appieno il loro amore, acerbo ma intenso. La loro risolutezza si contrappone all'eterna indecisione degli adulti, intrappolati in relazioni clandestine, matrimoni infelici, ruoli di capo scout troppo ingombranti, e nevrosi di ogni genere e tipo. Suzy e Sam diventano lo strumento usato da Anderson per portare scompiglio nell'ingessata isola del New England, grazie non solo alla loro fuga, ma anche al loro acume e alla propria determinazione nel cambiare il proprio destino. Il regista tratta i due protagonisti con un amore e affetto che traspaiono evidenti da ogni inquadratura, coinvolgendo lo spettatore nell'avventura di questi due giovani Don Chisciotte che cercano di fuggire da un mondo che li esclude e li spaventa.

Il film è fotografato con la consueta cura e perfezione, con tonalità luminose e colori pastello che esaltano il sapore di favola della trama e si sposano perfettamente con la visione del mondo dei due protagonisti e con la trama. Le inquadrature mostrano una varietà eccezionale, spaziando dal primissimo piano al campo lunghissimo anche nella stessa scena, in un uso della grammatica cinematografica che ha pochi eguali nel cinema contemporaneo.

Anderson dà il meglio di sè anche nella sceneggiatura, scritta a quattro mani con Roman Coppola, in cui sposa perfettamente ogni scena con la sua musica, il suo colore e le sue inquadrature, regalandoci un ritratto vivo e realistico della comunità che vive sull'isola. I personaggi sono perfettamente delineati, e interpretati da attori in stato di grazia, su cui spiccano la solita geniale indolenza di Bill Murray e lo straordinario "poliziotto qualunque" di Bruce Willis, seguiti a breve distanza dallo stralunato capo scout di Edward Norton e dalla fredda e indifferente assistente sociale interpretata da Tilda Swinton. Su tutti, tuttavia, brillano i due giovani protagonisti, la cui anarchica energia emerge anche nelle scene più statiche grazie alla forza della sceneggiatura e delle loro espressioni.

Tra scout impreparati, recite ornitologiche e panorami mozzafiato si arriva così al gran finale, in cui tutti, protagonisti inclusi, dovranno fare i conti con la realtà, che potrebbe però dimostrarsi diversa da come avevano immaginato.
Moonrise Kingdom è un piccolo capolavoro, che dimostra ancora una volta la maestria registica e di scrittura di Anderson, a parere di chi scrive uno dei più grandi registi contemporanei per la sua capacità di usare la macchina da presa e di saper raccontare le assurdità della vita con il sorriso e un inconfondibile tocco di poesia.

*****

Pier

giovedì 18 marzo 2010

Io sono l'amore

Chi troppo vuole...



I Recchi, famiglia dell'aristocrazia milanese, sono scossi da numerose novità: il nonno ha deciso di lasciare l'azienda di famiglia, la figlia si è scoperta lesbica, e uno dei figli ha deciso di investire nel ristorante di un amico. Ma gli sconvolgimenti più grandi saranno portati da Emma, moglie e madre impeccabile di origini russe.

Scordatevi immediatamente le atmosfere viscontiane evocate dalla pubblicità e dalle cartelle stampa: Guadagnino celebra il trionfo della retorica, dimenticando il cinico realismo che aveva reso grandi le opere di Visconti dedicate alle aristocrazie in declino.
Il regista rappresenta un'alta società milanese che forse non esisteva più già negli anni Settanta, figuriamoci oggi. Tutti i personaggi sono stereotipati, monodimensionali, piatti. Si salva Tilda Swinton, ma solo per l'eccezionale bravura dell'attrice, vero e proprio fiore in mezzo a un mare di fango.

La fotografia è scolastica, la regia didascalica e scontata. Una citazione merita la scena clou dello scontatissimo tradimento, in cui l'amplesso dei due protagonisti viene alternato alle immagini di un'ape che impollina un fiore: roba che nemmeno nelle videocassette di educazione sessuale alle elementari.
Ai limiti del ridicolo poi la scena finale, in cui un uomo tradito e abbandonato, per far sentire il proprio disprezzo alla moglie traditrice, non trova di meglio da fare che toglierle di mano la giacca che le aveva prestato per coprirsi. Un vero e proprio atto di forza, da cui una donna difficilmente potrebbe riprendersi.

Guadagnino firma un film pretenzioso e freddo, che non trasmette alcuna emozione allo spettatore e finisce anzi per annoiarlo. Se queste sono le nuove voci del cinema italiano, forse siamo veramente alla frutta.

*1/2

Pier