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domenica 2 marzo 2025

Oscar 2025 - I pronostici

Questa notte, come ogni anno, gli occhi del mondo cinematografico si sposteranno sul Dolby Theatre di Los Angeles per la cerimonia di premiazione della novantatreesima edizione degli Academy Awards. 

Il 2024 è stato un altro ottimo anno cinematografico, nonostante l'assenza di "grandi nomi" registici (guardando ai nominati al miglior film, l'unico nome "forte" è quello di Denis Villeneuve). I favoriti sono usciti quasi in toto dai due festival maggiori, Cannes e Venezia, ma hanno anche, per la maggior parte, goduto dei favori del pubblico, portando a casa risultati sostanziosi al box office.

Chi vincerà, quindi? Difficile a dirsi. Salvo qualche premio, la sfida è quantomai incerta, anche a causa del ciclone mediatico che ha investito Emilia Pérezche per lungo tempo è sembrato il favorito, come riflesso anche dalle 13 nominations ottenute: uscito illeso dalle polemiche di messicani e comunità trans (bellamente ignorate dall'Academy in sede di nomination), è stato forse definitivamente affondato dalle dichiarazioni riemerse dal recente passato della sua protagonista Karla Sofia Gascòn, che a quanto pare riteneva giusto e comprensibile l'omicidio di un uomo inerme.

Ma non divaghiamo! Nonostante l'incertezza, di seguito trovate i pronostici, infallibili come sempre: correte in SNAI, e puntate sull'opposto di quanto scrivo. I film recensiti sul blog sono linkati ogni volta che vengono nominati.


Miglior montaggio
Un anno senza film "di montaggio", ovvero film ipercinetici o con montaggio molto visibile e "premiabile" (come ad esempio Mad Max: Fury Road). Possibile quindi che il premio vada a Sean Baker per Anora, più per inerzia che per reali meriti. La mia scelta ricade invece su Juliette Welfling per Emilia Pérez, film che ha mostrato dei virtuosismi di montaggio più interessanti di altri. Appena dietro, Dávid Jancsó per The Brutalist: un montaggio meno appariscente, ma comunque molto efficace e funzionale alla narrazione. 
Pronostico: Sean Baker, Anora

Scelta personale: Juliette Welfling, Emilia Pérez

Miglior fotografia
Un solo nome possibile: Lol Crawley per The Brutalist. Anche Jarin Blaschke meriterebbe per Nosferatu, ma il lavoro di Crawley (con un budget "basso" per la portata monumentale dell'opera) è indimenticabile, e arriva all'interno di un film generalmente più apprezzato dall'Academy. Menzione d'onore per Greig Fraser, sfortunatissimo direttore della fotografia di Dune - Parte 2. In un anno normale, la scena in bianco e nero basterebbe da sola per ritirare la statuetta senza passare dal via: ma questo non è un anno normale. Si rifarà.
Pronostico: Lol Crawley, The Brutalist
Scelta personale: Lol Crawley, The Brutalist

Miglior film d'animazione
Sezione iper competitiva. Flow - Un mondo da salvare, che purtroppo non ho ancora visto, sembra il favorito all'interno di una competizione che negli ultimi anni ha dimostrato di guardare con attenzione a ciò che succede fuori dagli Stati Uniti. La mia scelta personale ricade però su Inside Out 2, il raro sequel in grado di replicare ed espandere il successo artistico dell'originale.
Pronostico: Flow
Scelta personale: Inside Out 2

Miglior attore non protagonista
Una delle sezioni dall'esito più scontato, e non perché non ci siano ottimi candidati: ma Kieran Culkin ha vinto ogni premio possibile, e la sua performance in A Real Pain è caleidoscopica, divertente e straziante allo stesso tempo. Impossibile non premiarlo e impossibile non farsene conquistare.
Pronostico: Kieran Culkin, A Real Pain
Scelta personale:  Kieran Culkin, A Real Pain


Miglior attrice non protagonista
Anche qui sembra non esserci storia, con Zoe Saldana uscita indenne dalle polemiche intorno a Emilia Pérez e pronta a portarsi a casa una meritata statuetta. Per quanto sia un grande fan della sua performance (a mio parere è lei la vera protagonista del film), voglio usare la mia scelta personale per mettere in luce una performance sorprendente e passata molto in sordina, quella di Ariana Grande in Wicked: Parte 1.
Pronostico: Zoe Saldana, Emilia Pérez
Scelta personale: Ariana Grande, Wicked: Parte 1

Miglior sceneggiatura originale
Qui il chiarissimo favorito è Sean Baker per Anora, che però non posso in cuor mio premiare data la presenza di un grosso buco di sceneggiatura e una distonia non pienamente risolta tra le diverse anime del film. La mia scelta personale ricade quindi su Jesse Eisenberg per A Real Pain, bella riflessione sul dolore individuale e collettivo. Menzione speciale per Brady Corbet e Mona Fastvold per The Brutalistun film di cui non rimane impressa la sceneggiatura, ma che riesce a mantenere alte emozioni e attenzione per più di tre ore: non banale.
Pronostico: Sean Baker, Anora
Scelta personale: Jesse Eisenberg, A Real Pain

Miglior sceneggiatura non originale
Sezione molto competitiva, in cui è davvero difficile trovare un chiaro favorito. Avendo vinto i WGA (Writers Guild Awards), il pronostico ricade su RaMell Ross e Joslyn Barnes per I Ragazzi della Nickel, tratto dall'omonimo romanzo premio Pulitzer di Colson Whitehead. La mia scelta personale ricade invece su James Mangold e Jay Cocks per A Complete Unknown, un film classico e mercuriale allo stesso tempo, che continua a scartare di lato come il suo protagonista.
Pronostico: RaMell Ross e Joslyn Barnes, I Ragazzi della Nickel
Scelta personale: James Mangold e Jay Cocks, A Complete Unknown


Miglior attrice protagonista
Qui la favorita sembra essere Demi Moore per The Substance, la classica storia di rinascita di una carriera che a Hollywood piace premiare. La mia scelta personale ricade invece su Fernanda Torres, anima silenziosa ma estremamente eloquente di Io Sono Ancora Qui, forse la più bella sorpresa (non in termini di valore, ma in termini di riconoscimento crescente) di questa stagione dei premi.
Pronostico: Demi Moore, The Substance
Scelta personale: Fernanda Torres, Io Sono Ancora Qui

Miglior attore protagonista
Adrien Brody sembrava il favorito grazie alla sua performance eccezionale in The Brutalist. Sembrava, appunto, perché dal nulla ai SAG (Screen Actors Guild) Awards è comparso Timothée Chalamet che con il suo Bob Dylan di A Complete Unknown ha vinto il premio conferito dai suoi colleghi e ha rimesso tutto in discussione. Penso vincerà Brody, dato che l'Academy raramente premia i giovani. E su Brody ricade anche la mia scelta personale, anche se anche Chalamet meriterebbe la vittoria.
Pronostico: Adrien Brody, The Brutalist
Scelta personale: Adrien Brody, The Brutalist

Miglior regia
Se esistesse giustizia a questo mondo, questo premio sarebbe già assegnato a Brady Corbet fin dal debutto di The Brutalist alla Mostra del Cinema di Venezia. Ma dato che viviamo in un mondo ingiusto, fatto di colleghi invidiosi, questo premio finirà a Sean Baker per l'ottimo ma non memorabile lavoro fatto su Anora.
Pronostico: Sean Baker, Anora
Scelta personale: Brady Corbet, The Brutalist

"Raccontare un intero film con una sola immagine nei primi minuti": olio su tela, Brady Corbet

Miglior film
Qui i pronostici impazzano, e nessuno sa veramente come finirà. Si parla di Anora, ovviamente, ma anche di ConclaveA Complete Unknown e persino Io Sono Ancora Qui. L'incertezza, insomma, regna sovrana, e il sistema di voto dell'Academy per il miglior film (diverso da quello degli altri premi) tende a premiare il film meno polarizzante, quello che non ha necessariamente entusiasmato tutti ma ha scontentato meno persone possibili. Per questo credo che il thriller manicheo ma molto efficace di Conclave possa alla fine prevalere. La mia scelta personale ricade invece su The Brutalist, il miglior film della stagione cinematografica che si conclude questa notte.
Pronostico: Conclave
Scelta personale: The Brutalist

Che aspettate? Correte in sala scommesse!

Pier

mercoledì 5 febbraio 2025

A Complete Unknown

It Ain't Me, Babe


Cosa significa essere un artista? Questa la domanda al centro di A complete unknown, seconda opera di James Mangold dedicata a un grande cantante del passato, dopo il suo splendido racconto su Johnny Cash. Ma se Quando l'amore brucia l'anima era la classica storia di ascesa-caduta-rinascita, quella di Bob Dylan è una vicenda più complessa e sfuggente: una vicenda che inizia e finisce in medias res, uno sguardo a un periodo della vita di Dylan che al suo interno contiene moltitudini. 

Che Dylan fosse un artista poliedrico e di fatto inafferrabile e incasellabile in una sola identità lo aveva già capito Todd Haynes in quel capolavoro che è Io non sono qui, dove Dylan era stato letteralmente moltiplicato in sei personaggi. Mangold sceglie una strada diversa, creando un film sullo sguardo e fatto di sguardi. Sono sempre gli altri, spettatori compresi, a definire cosa sia Dylan: giovane talento, impostore, poeta di una generazione, opportunista, paladino della musica folk, traditore della musica folk, tutto e niente. Il Dylan di Mangold è un vero "complete unknown", come la strofa di Like a rolling stone perfettamente sfruttata dal titolo: un essere in continuo divenire, multiforme e mutaforma, acqua che prende la forma del recipiente in cui viene versata. Ma l'acqua, si sa, da calma e placida sa farsi tempesta, inondazione, e travolgere senza pietà tutto ciò che trova sul suo cammino.

Dylan nel film ascolta, osserva, sorride sornione, ma parla pochissimo. Quando le fa, le sue parole sono spesso enigmatiche, quelle di una sfinge con chitarra che si muove nel mondo con il solo obiettivo di non fermarsi mai. A parlare è la sua musica, che domina la scena, la riempie, e sconvolge generazioni, generi, persone, in un fiume tracimante di emozioni incontrollabili, della sensazione che quelle parole parlino proprio a te, solo a te, in quel momento, e a nessun altro. Esemplari, in questo senso, sono le scene in cui Dylan canta The times they are-a changing (emozionate a dire poco) e It ain't me babe: ogni personaggio in ascolto sente e vive quelle canzoni in modo diverso, dando loro mille significati diversi, tutti giusti, tutti in parte sbagliati. 

Mangold riesce a catturare perfettamente l'essenza delle composizioni di Dylan: generazionali, eppure private, perfettamente in linea con lo zeitgeist, eppure in grado di anticiparlo, di cambiarlo, di indicare una nuova strade che non sapevi nemmeno esistesse, cancellando e lanciando indietro tutte le strade precedenti. Meravigliose anche le sequenze in cui si cattura la natura mercuriale della creatività, sia in generale (l'attacco di organo di Al Kooper in Like a rolling stone, improvvisato e fondamentale) sia di Dylan in particolare (il ritrovamento del fischietto siren whistle che si sente all'inizio di Highway 61 revisited): in continua evoluzione, in continuo mutamento, con l'unica regola di non ripetersi, mai. 

Dylan nel film incarna il cambiamento al punto da divenirne quasi una divinità in terra: creatore e distruttore, capace di oscurare il talento e rubare la scena a mostri sacri come Pete Seeger e Joan Baez, che lo usano senza rendersi conto che si stanno anche facendo usare. Un dio che tutto divora, ma che apre nuovi mondi, incarnato alla perfezione da un Timothée Chalamet che ha un vero e proprio talento per interpretare personaggi sfuggenti e inafferrabili, che sembrano a tratti onnipotenti, e a tratti tremendamente fragili, sul punto di rompersi inesorabilmente. Sarebbe tempo che si riconoscesse la sua versatilità, anziché fermarsi all'apparente similitudine di alcuni suoi personaggi che è, appunto, data solo dal loro essere indecifrabili, in continuo cambiamento: sfido qualunque detrattore a dire che Paul Atreides ricorda Bob Dylan o Willy Wonka. La sua capacità di imitare le voci di Dylan (a volte nasale, a volte raschiante; a volte melodica, a volte simile a un miagolio; a volte ben scandita, a volte quasi incomprensibile) è impressionante, e chiudendo gli occhi si ha spesso la sensazione di ascoltare l'originale.

Accanto a lui, Edward Norton offre una bellissima prova nel ruolo del (per una volta) "buono" Pete Seeger, e Monica Barbaro dà ottima voce al talento introverso di Joan Baez. Elle Fanning è il cuore emotivo del film, ed è con le sue reazioni e i suoi occhi che il pubblico finisce spesso per vedere Dylan: occhi che accettano che l'unico suo fattore distintivo è il non-essere, non-stare. "It ain't me, babe": non sono io, e questo è tutto ciò che saprai di me.

A complete unknown è un film sul cambiamento, sull'arte, sul trovare il proprio posto del mondo, sul dolore di crescere sulla doppia natura delle relazioni, legami che ci tengono a galla ma a volte impediscono di nuotare al largo. Mangold confeziona un film avvolgente, in cui la musica e le parole sono protagoniste e che, come una melodia, cambia continuamente direzione: culla, tramortisce, esalta, stordisce, è univerale e intimo, parla della vita e della Vita, ponendo tantissime domande senza dare risposte, e lasciandoci con la sensazione di conoscere davvero l'unico cantautore vincitore di un premio Nobel, e al tempo stesso di non conoscerlo affatto. 

**** 1/2

Pier

mercoledì 28 febbraio 2024

Dune - Parte 2

Muad'dib colpisce ancora


Dopo essere scampati al tentativo di ucciderli da parte degli Harkonnen, Paul Atreides e sua madre Jessica vivono tra i Fremen, supportati dal leader di un loro clan, Stilgar. I Fremen però faticano ad accettarli, fino a quando non si diffonde la voce che Paul sia l'atteso Messia di Dune promesso dalle leggende, la Voce da un Altro Mondo. Paul dovrà scegliere se cavalcare l'ondata di fervore religioso o dare retta alle sue visioni, che predicono sventura, e a Chani, una guerriera Fremen per cui comincia a provare dei sentimenti, e che lo esorta a rimanere se stesso.

Quello dell'Eletto è un topos fondante della narrativa, cinematografica e non. È al centro di molte delle saghe più popolari, da Harry Potter a Guerre Stellari, passando per Matrix. Il pubblico è talmente abituato a vederla che, spesso, reagisce molto negativamente ai tentativi di sovvertirla. Anche Dune, il romanzo di Frank Herbert, racconta, la storia dell'ascesa di un eletto. Tuttavia, a differenza di ciò che credono molti, non lo fa per celebrarlo, ma per mettere in evidenza i pericoli ideologici, filosofici, e sociali del rendere un semplice uomo un Messia. Dune non è la storia di un salvatore esterno (né, tantomeno, di un white savior come hanno spesso sostenuto critici superficiali): è la storia di come si costruisce un mito inesistente, il racconto di una colonizzazione culturale al fine di perpetuare un piano di controllo e dominio - finché qualcosa, nel meccanismo, si inceppa.

Denis Villeneuve coglie alla perfezione le intenzioni di Herbert - intenzioni spesso travisate, come detto, ma evidenti a chi conosce anche i capitoli successivi della saga, in particolare Dune Messiah - e le traspone alla perfezione in questo secondo capitolo, facendo centro e riuscendo finalmente a catturare la complessità di quello che è stato definito per decenni un "romanzo infilmabile." Villeneuve, come già ampiamente dimostrato sia nel primo capitolo, sia in altri suoi lavori, non teme la complessità, anzi, sembra quasi bramarla, e tesse un arazzo complesso, intricato, che rende giustizia al materiale di partenza e non ha paura di raccontare un'ascesa oscura, la nascita di un eroe che è anche un antieroe, che per prendere il proprio posto nel mondo deve accettare il suo lato oscuro e il fatto che le sue azioni provocheranno milioni di morti. 

Salvatore o carnefice? Liberatore o colonizzatore? La risposta è ambigua, ma il fatto stesso che questa ambiguità sussista è una rivoluzione per il genere, quantomeno al cinema. La complessità morale di Paul, e l'inganno alla base della sua venuta messianica sono qui messe pienamente in luce, e questa scelta rende più interessanti, complessi, e sfaccettati tutti i personaggi - Paul in primis, ma anche Chani, vera bussola morale del film, e Lady Jessica. La musica di Hans Zimmer svolge un ruolo fondamentale, perché non tocca mai note di esaltazione e celebrazione, ma suggerisce un disastro incombente, un male nascosto nell'ombra, un'inquietudine che non viene mai del tutto sopita.


In generale, Villeneuve abbraccia la densità tematica del romanzo (oltre alla "sindrome del messia" si parla di colonialismo, fanatismo, ecologia, e tanto altro) e la fa sua, apportando cambiamenti a volte dolorosi, ma doverosi, - sia perché superflui ai fini narrativi, sia perché complessi da gestire perché avrebbero richiesto ulteriore minutaggio - omettendo spiegazioni non necessarie, e senza farsi problemi a rallentare il ritmo quando necessario, per poi accelerare di colpo quando l'azione diventa regina. Il regista (e il suo co-sceneggiatore, Jon Spaihts) fanno una cosa che sembra eccezionale ma è in realtà estremamente semplice: si fidano dell'intelligenza e, soprattutto, dell'immaginazione dello spettatore nel connettere i puntini, nel dare senso a quello che si vede ma non viene sviscerato in ogni dettaglio. Così facendo, dando vita a un mondo che lascia una sensazione di profondità, di infinite storie che potrebbero essere raccontate, di personaggi cui potrebbero essere dedicati interi film, e che incontriamo come passeggeri nella notte mentre seguiamo le avventure di Paul e dei Fremen, e di cui vorremmo sapere di più. 

L'ultima saga a riuscire a rendere in modo paragonabile la profondità del mondo romanzesco era stata quella de Il Signore degli Anelli, ma Peter Jackson aveva sempre preferito puntare più sul lato spettacolare e non soffermarsi troppo su quello tematico (che pur emergeva). Villeneuve invece riesce a mantenere un bilanciamento queste due anime, ed è una goduria cinematografica vedere questo esercizio di equilibrismo dipanarsi scena dopo scena.

Visivamente il film è abbacinante: riempie gli occhi di stupore, lascia continuamente a bocca aperta e, quando pensi di esserti ormai abituato a deserti immensi che paiono mari solcati dalle onde, tecnologie innovative che sembrano al tempo stesso vecchissime (non a caso Lucas ha saccheggiato a piene mani la creazione di Herbert per creare l'immaginario di Guerre Stellari), e immense creature che emergono dalle sabbie, ti colpisce ancora, e ancora, e ancora con immagini sempre più ambiziose, coraggiose, creative. Non citerò scene specifiche per evitare spoiler, ma ci sono almeno tre momenti (tra cui quello che apre il film) destinati a diventare iconici. 

La cifra visiva di Villeneuve è pienamente riconoscibile, tra duelli ripresi in silhouette, personaggi che si stagliano solitari di fronte all'infinito, e panoramiche che catturano la vastità di una natura di volta in volta meravigliosa, matrigna, o deturpata dall'intervento dell'uomo. A questo bagaglio dei trucchi si aggiunge qui un uso del colore espressionista e una tendenza spiccata a posizionare la camera a terra, inquadrando dal basso per rivelare, anzi, evocare qualcosa di grande e terribile che diventa a poco a poco visibile, creando un senso di attesa prima e di meraviglia poi nello spettatore.


Il film non potrebbe però raggiungere le vette che raggiunge senza l'aiuto di un cast semplicemente perfetto. Tra le vecchie conoscenze, Chalamet rende alla perfezione la crescita di Paul, passando dal ragazzino etereo e un po' imbronciato del primo film a leader di un popolo e di una guerra santa con una performance sfaccettata, in cui dimostra un carisma fisico e, soprattutto, vocale inaspettato che, unito alla sua capacità di dare voce e corpo alla fragilità, rende alla perfezione l'ambiguità morale in cui lentamente svicola Paul. Accanto a lui, Zendaya è l'occhio scettico, l'ancora che dovrebbe impedire a Paul di perdere il suo lato umano, l'unica a vederlo come Paul, come Muad'dib, e non come il Messia, la Voce da un Altro Mondo in cui le persone intorno a lui vogliono trasformarlo. Rebecca Ferguson è una Lady Jessica che ricorda una Lady Macbeth, incutendo terrore come una Reverenda Madre delle Bene Gesserit dovrebbe fare, e Stellan Skarsgard continua ad abitare i nostri incubi con il suo Barone Harkonnen.

Anche i nuovi arrivi brillano, a cominciare da Austin Butler, che regala un Feyd-Rautha imperioso, dalla voce oltremondana e dalle movenze serpentine, un sadico assassino con un codice d'onore, perfetto specchio deformato di ciò che diventa Paul - un aspetto, questo, resto in modo addirittura più efficace che nel romanzo, dove Feyd risultava meno profondo e più tipizzato come "malvagio", per quanto affascinante. Accanto a lui da segnalare anche Léa Seydoux, attrice dal range limitato che però Villeneuve sfrutta alla perfezione, ritagliandole addosso una Bene Gesserit felina, seduttiva, a suo agio nel muoversi tra luci e ombre. Florence Pugh e Christopher Walken, pur con un minutaggio limitato, danno spessore e gravitas ai rispettivi personaggi, e Pugh promette di portare sullo schermo una Irulan eccezionale se, come sperano sia Villeneuve che i fan, verrà realizzato un film anche dal secondo libro della saga, Dune Messiah.

Dune - Parte 2 è un sequel cupo, oscuro, in uno scarto tonale che ricorda Impero colpisce ancora ma se si fosse focalizzato maggiormente su Darth Vader. È un adattamento fedelissimo allo spirito e fedele alla lettera del libro, e al tempo stesso accessibile anche per chi non conosce il lavoro di Herbert. È, in sintesi, tutto ciò che dovrebbe essere un blockbuster d'autore: intrattiene con battaglie, intrighi, creature mitologiche e personaggi memorabili, ma al tempo stesso stupisce, colpisce e fa riflettere, prendendosi i suoi tempi e lasciando lo spettatore a interrogarsi su cosa ha visto e con il desiderio di rivedere il film per scoprire dettagli, suggestioni, interpretazioni. Destinato a diventare una pietra miliare del genere: come per la trilogia de Il Signore degli Anelli e Mad Max: Fury Road, ci sarà un "prima" e un "dopo" Dune.

*****

Pier

sabato 30 dicembre 2023

Wonka

Una cioccolata calda


Il giovane Willy Wonka arriva in città con il sogno di aprire un negozio dove vendere le sue geniali creazioni a base di cioccolato. Tuttavia, i tre cioccolatai già presenti in città non vedono di buon occhio la sua concorrenza, e fanno di tutto per liberarsi di lui. Inoltre, la locanda presso cui finisce per alloggiare si rivela tutt'altro che rispettabile.

C'è un aggettivo inglese che non ha un'esatta corrispondenza in italiano, ma che è perfetto per descrivere Wonka: heart-warming, "scalda-cuore." Wonka è infatti un film che scalda il cuore, un perfetto musical natalizio in grado di far sognare, sperare, ridere e, perché no, commuoversi; un film in cui i cattivi sono cattivissimi e i buoni sono buoni, e in cui l'ostacolo principale è un mondo cinico che non solo non accetta i sognatori, ma li ostacola attivamente. Paul King può ormai essere considerato il maestro di questo genere di film, dato che ha realizzato Paddington e il suo sequel Paddington 2: due film che non solo sono perfetti rappresentanti del concetto di "scalda-cuore", ma hanno ottenuto un clamoroso successo di critica, oltre che di pubblico.

Wonka riprende ottimamente molti dei fattori di successo di Paddington, calandoli nella realtà a metà tra il dickensiano e lo steampunk del libro di Roal Dahl, in cui tutte le cose belle e desiderabili nascondono insospettabili lati oscuri. Ritroviamo quindi un protagonista sognatore e dal cuore d'oro, talmente naïf da terminare tutti i pochi soldi a sua disposizione non appena messo piede nella grande città (un misto tra il centro di Parigi durante la Belle Époque e i bassifondi di Londra durante l'età vittoriana); dei compagni che inizialmente sono increduli di fronte alle gesta del folle, adorabile protagonista, ma poi iniziano ad apprezzarlo; e Hugh Grant in un ruolo molto lontano da quelli cui ci ha abituato (se non avete visto il trailer, fatevi un favore: andate in sala senza sapere nulla e godetevi la sorpresa).

Narrativamente, il film ha un'idea geniale nel presentarci un Wonka molto diverso da quello che farà la sua comparsa ne La Fabbrica di Cioccolato: è già un geniale inventore (di macchinari, oltre che di ricette) e ha già uno straordinario carisma, ma gli mancano ancora quel cinismo e quell'oscurità che esibirà nella sua versione adulta. È un giovane entusiasta, non ancora indurito dal cinismo e dalla crudeltà del mondo, ancora fiducioso circa la possibilità di redimersi ed elevarsi dell'umanità. Come origin story, Wonka funziona meglio dei flashback presentati nel remake burtoniano, e lascia la curiosità per un seguito che spieghi come Wonka sia diventato quello che conosciamo nel romanzo. 


Chalamet offre al protagonista un entusiasmo fanciullesco e un aspetto elfico, oltremondano, che ben si adatta alla personalità sognatrice e dirompente del suo Willy, e dimostra anche ottime e inaspettate doti nel canto e nel ballo. I personaggi di contorno sembrano usciti direttamente da Dickens, sia per quanto riguarda gli alleati di Willy (ottima Calah Lane nel ruolo di Noodle), sia per quanto riguarda gli antagonisti. Per questi ultimi, King riprende sia la vena "drammatica" di Dickens (la Mrs. Scrubbit di Oliva Colman ricorda i grandi malvagi di Oliver Twist e David Copperfield), sia quella "comica", con i tre monopolisti del cioccolato che uniscono brillantemente malvagità e ridicolo.

Visivamente e musicalmente il film è una gioia per occhi e orecchie. La fotografia e le scenografie sono splendide, colorate e fiabesche, così come alcune trovate come i mini-macchinari di Wonka. Le canzoni, composte da Neil Hannon e scritte dallo stesso King insieme all'altro sceneggiatore Simon Farnaby, sono perfette per un musical di questo genere, e offrono il giusto mix di allegria, coreografie pazze, e intimismo. Ottimo anche il modo in cui vengono riprese le due canzoni più iconiche del film originale con Gene Wilder, utilizzate per marcare momenti chiave dal punto di vista emotivo anziché come semplice "momento nostalgia."

Wonka arrivava in sala accompagnato da quel comprensibile scetticismo che accompagna operazioni di questo genere: un prequel per un grande classico ha sempre il rischio di risultare una "copia inferiore", che non aggiunge nulla a quanto già detto nell'originale. King ha preso una strada decisamente inaspettata, persino rischiosa, tratteggiando un protagonista e un film decisamente diversi dall'originale, ma allo stesso tempo perfettamente connessi con esso.

La scommessa è decisamente vinta. Wonka è un perfetto dolce natalizio, una cioccolata calda che protegge contro i rigori del mondo e lascia lo spettatore con occhi sognanti, e il desiderio di averne ancora. Se non amate i film "scalda-cuore", passate oltre. Ma se amate perdervi in una fiaba fatta di immaginazione, riscatto, umorismo, colori, musiche (e dolciumi), non perdetelo (possibilmente in lingua originale): ve ne pentireste.

**** 1/2

Pier

sabato 26 novembre 2022

Bones and All

Love will tear us apart


USA, anni Ottanta. Maren, in piena adolescenza, scopre di avere istinti cannibalistici, e di averli ereditati da sua madre. Abbandonata improvvisamente dal padre, stanco di spendere la sua vita a nascondere i danni della ragazza, Maren si ritrova sola, in fuga per l'America. Battendo strade secondarie scopre però che ci sono altri come lei, incapaci di resistere al richiamo della carne umana. 

Cosa significa essere "diversi"? Negli USA, ma in generale nel mondo, la diversità porta spesso con sé uno stigma sociale, la sensazione di essere ai margini della società anziché parte di essa. Come nella tradizione del grande cinema horror, il cannibalismo dei protagonisti diviene una metafora di ogni tipo di diversità. I riferimenti alla tossicodipendenza e all'epidemia di AIDS degli anni Ottanta  sono evidenti, anche per via dell'ambientazione temporale sotto la presidenza Reagan, ma la metafora è abbastanza elastica da prestarsi a ogni tipo di lettura, esattamente come altri grandi tropoi dell'horror come il vampirismo. L'emarginazione è sì sociale, ma anche generazionale ed esistenziale: impossibile non vedere nel risveglio degli istinti di Maren anche un riferimento al risveglio sessuale, grande tabù in una società come gli USA dove le radici cristiano-puritane sono ancora fortissime e spesso generano orrori sociali. 

Qualunque sia la causa, l'emarginazione si traduce in invisibilità, nel vivere negli interstizi della società. Si può essere diversi solo lontani dagli sguardi altrui, adeguatamente rimossi dalla coscienza collettiva. La storia di Maren e Lee si svolge in un'America rurale, periferica, lontana dalle strade più battute, che ricorda quella di Nomadland o di Easy Rider, altri film che avevano nell'emarginazione del "diverso" uno dei temi portanti.

Guadagnino racconta la sua storia in punta di piedi, rinunciando ai virtuosismi dei suoi primi film e tenendosi quasi in disparte, con una regia che punta a esaltare il lavoro degli attori senza rinunciare alla bellezza delle immagini. Sono i due protagonisti, dunque, a raccontare sentimenti, incertezze, scheletri nell'armadio (letterali e non). La macchina da presa indaga i loro volti, i loro viaggi on the road nel cuore dell'America, con il paesaggio che diventa un terzo protagonista, panorami meravigliosi che nascondono un cuore nero che fa di tutto per trasformare Maren e Lee in ciò che il mondo pensa che siano: dei mostri. Ma se il mondo si chiede cosa sono, Maren e Lee sono determinati a capire chi sono, in un riappropriamento della propria identità che si manifesta con prorompente energia, in una progressiva ma catartica liberazione dalla gabbia oscura e invisibile in cui li hanno rinchiusi genitori e società per scrivere il proprio futuro.

Taylor Russell è una bellissima scoperta, e si porta il film sulle spalle. Timothée Chalamet si conferma attore di rara sensibilità e profondità emotiva, confermando quelle doti già dimostrate nel film di Guadagnino che ha lanciato la sua carriera, Chiamami col tuo nome, e in particolare nella splendida scena conclusiva. Accanto a loro, brilla il personaggio di Mark Rylance, perfetto nel bilanciare la capacità di essere inquietante con la fragilità derivante da una vita in solitaria.

È facile farsi ingannare da Bones and All, fermarsi alla superficie dell'horror e del granguignolesco e trattarlo come un "banale" film di genere. Bones and All, tuttavia, fa quello che solo i grandi film di genere sanno fare: utilizzare gli stilemi della sua categoria per raccontare una storia stratificata e complessa, riuscendo e tenere insieme profondità tematica e capacità di intrattenere. Il risultato è un film all'apparenza semplice ma di grande complessità emotiva, che mette a nudo le sue ossa, la sua carne, e il suo cuore.

**** 1/2

Pier

venerdì 2 settembre 2022

Telegrammi da Venezia 2022 - #2

Secondo telegramma da Venezia, con cannibali, mogli di grandi scrittori, spie misericordiose, rivolte nelle periferie, e concerti punk.


Un Couple (Concorso), voto 4. Il primo lavoro di finzione di Frederick Wiseman è tale solo di nome, dato che consiste in un'alternanza tra splendide immagini della natura e di un'attrice che recita le lettere di Sof'ja Tolstaja, la moglie di Tolstoj. Sfugge il senso dell'operazione, che risulta una versione filmata di quei monologhi teatrali "al femminile" talmente stereotipati e diffusi da essere divenuti oggetto di parodia. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

A Compassionate Spy (Fuori Concorso), voto 8. Una storia poco nota sul Progetto Manhattan, che ricostruisce le ragioni per cui Ted Hall, il più giovane fisico a lavorare al progetto, decise di passare i piani alla Russia. Hall temeva la tirannide che gli Stati Uniti avrebbero potuto esercitare se fossero stati i soli ad avere la bomba, ma al tempo stesso ha armato il regime staliniano: i dubbi etici di Hall e della moglie, vera protagonista del documentario, impongono al pubblico riflessioni fondamentali, soprattutto di questi tempi.

Athena (Concorso), voto 7.5. Una rivolta nelle banlieu diventa una vera e propria guerra, e il regista Gravas la riprende come tale. La scena d'apertura è magnifica, un piano sequenza di rara potenza con una immagine di chiusura potente ed evocativa; il resto del film è comunque girato sublimemente e, anche se perde strada facendo un po' della sua forza dirompente, colpisce e avvince per tutta la sua durata.

Bones and All (Concorso), voto 8.5. Una ragazza cannibale si ritrova sola, abbandonata dalla famiglia, ma scopre che ci sono altri come lei, incapaci di resistere al richiamo della carne umana. Come nella tradizione del grande cinema horror, la loro condizione diviene una metafora dell'emarginazione - sociale, generazionale, esistenziale. Guadagnino gira una storia d'amore sui generis rinunciando a virtuosismi tenendosi in disparte, lasciando che siano i suoi protagonisti (gli ottimi Taylor Russell e Timothée Chalamet) a raccontare sentimenti, incertezze, scheletri nell'armadio (letterali e non). La macchina da presa indaga i loro volti, i loro viaggi on the road nel cuore dell'America, offrendoci un film all'apparenza semplice ma di grande complessità emotiva, che mette a nudo le sue ossa, la sua carne, e il suo cuore.

Margini (Settimana della Critica), voto 6.5. Una lettera d'amore al punk, a tratti onesta, a tratti furbetta, ma comunque dotata di energia e humor. Si poteva fare di meglio, ma la storia di una sgangherata band punk di Grosseto riesce comunque a divertire.

Pier


mercoledì 29 dicembre 2021

Don't Look Up

L'onestà è lodata ma muore di freddo


Kate Dibiasky, dottoranda in astrofisica presso l'Università del Michigan, scopre una gigantesca cometa in rotta di collisione con la Terra: l'impatto provocherà l'estinzione del genere umano. Insieme al suo docente, il Dr. Mindy, cerca di avvertire le autorità: nonostante ricevano l'attenzione del Dr. Oglethorpe, responsabile del Planetary Defense Coordination Office, vengono ignorati dalla Presidente degli Stati Uniti e dal suo staff. Si rivolgono allora alla stampa e alla televisione: è l'inizio di un immenso circo mediatico che trasformerà la salvezza dell'umanità nell'ennesimo dibattito da social media, tra sondaggi di gradimento, tweet, e sedicenti esperti da salotto tv.

Dopo la politica shakespeariana di Vice e la satira economica de La grande scommessa, Adam McKay torna alla regia con quello che potrebbe essere visto come una summa del suo cinema, il punto di incontro tra Anchorman e i due film sopracitati: una satira a tutto tondo della società americana, a partire dal suo sistema mediatico fatto di eroi, personaggi, cicli di notizie, in cui non conta cosa si dice, ma come lo si dice e, soprattutto, chi lo dice. Una società dell'apparenza che fa sì che anche la fine del mondo diventi solo una storia come tante, fatta di opportunismo, avidità, protagonismo esasperato. Il sistema mediatico si interseca in un abbraccio mortale con quello politico, dando vita a una tempesta perfetta con una sola vittima: la verità.

Il film sembrerebbe estremizzare la divisione tra "noi" e "loro", con i conservatori e i capitalisti dipinti come personaggi da operetta, dei "cattivi" tanto ridicoli quanto letali, e gli scienziati a fare la parte dei buoni. In superficie, questo è indubbiamente vero: i politici e i giornalisti che vediamo nel film sono delle macchiette, dei tipi più che dei personaggi, caricaturizzati al punto di perdere qualunque credibilità (con qualche eccezione, vedi la scena finale del personaggio di Jonah Hill - un momento in cui la maschera cade e rimane la persona, sola, su un palcoscenico deserto). Gli scienziati, dall'altra parte, sono invece dei personaggi a tutto tondo: conosciamo le loro famiglie, la loro vita privata, le loro nevrosi e il loro passato. 

Tuttavia, uno sguardo più approfondito rivela che McKay non guarda in faccia  a nessuno, e che anche gli scienziati vengono travolti dagli strali della sua satira. Alcuni (il personaggio di Di Caprio) sono convinti di fare del bene, ma non si accorgono (o decidono di ignorare) che la loro partecipazione al circo mediatico non fa altro che contribuire allo svilimento della scienza, ridotta a puro elemento di spettacolo, fatta di personaggi, storie, pettegolezzi - qualcosa di più affine al gossip delle celebrità o al wrestling che al metodo scientifico: un'opinione come tutte le altre. Altri (il personaggio della Lawrence, lo stesso Di Caprio in alcune fasi) dimostrano una totale incapacità - o, forse, volontà - di comunicare correttamente con il pubblico, di instaurare un dialogo fatto di ascolto e di comprensione delle perplessità: questa è la scienza che si chiude nella sua torre d'avorio, ritenendo che l'ascolto da parte dei potenti e del pubblico sia un atto dovuto, un dialogo dall'alto al basso dove lo scienziato spiega, e il pubblico ascolta, come uno studente giudizioso. 


McKay non guarda a questi atteggiamenti con simpatia, come piccoli difetti che rendono più umani i suoi protagonisti, ma come parte integrante del problema: approcci, come ormai sappiamo, destinati al fallimento, e correi del crescente pensiero antiscientifico in molti strati della popolazione. Ce ne è anche per le celebrità: impossibile non vedere nel personaggio interpretato da Ariana Grande una critica, nemmeno troppo bonaria, a quelle star convinte che basti agire da megafono per diffondere il messaggio scientifico, quando invece, spesso, contribuiscono solo al suo ulteriore svilimento. 
Solo una categoria sociale non diviene mai il bersaglio della satira di McKay: il pubblico, la gente comune, che non viene derisa, come ad esempio in Idiocracy, ma presentata come la tragica vittima di una commedia in cui altri ridono sguaiatamente di lei. Don't look up rispetta alla perfezione la regola d'oro della satira fin dai tempi di Giovenale: attaccare chi comanda, non i comandati (punch up, not down, dicono gli anglosassoni).

La sceneggiatura ha momenti brillanti e geniali, ma rallenta troppo nella parte centrale e diventa eccessivamente partigiana nel finale, dopo aver mantenuto un ammirevole equilibrio per gran parte del film: se è indubbiamente vero, infatti, che una parte politica è più propensa a certi atteggiamenti antiscientifici, è anche vero che la sua identificazione così smaccata depotenzia la forza sovversiva della satira erga omnes che caratterizza il resto del film.

Il montaggio ha il ritmo che manca a tratti alla sceneggiatura, e fa sì che il film rimanga comunque sempre godibile e scorrevole. La fotografia predilige i primi piani, concentrandosi sulle espressioni esasperate, sulle maschere grottesche dei protagonisti, e perdendosi raramente nelle profondità del cosmo. Una scelta, questa, che sembra il contraltare visivo della scelta di parte dell'umanità di ignorare la cometa: lo sguardo della macchina da presa rimane fisso a terra esattamente come quello dei protagonisti. Questa concentrazione sull'umano, sulle emozioni esalta anche la splendida prova corale di un cast in stato di grazia, capitanato da Di Caprio (splendido il suo scienziato in bilico tra etica, nevrosi e narcisismo) e Jennifer Lawrence, con Jonah Hill a fare la parte del leone tra i personaggi secondari.

Don't look up è una diagnosi amara dei nostri tempi e della crisi profonda che attraversa il pensiero scientifico, attaccato da nemici interni ed esterni. La satira, tuttavia, è meno efficace che ne La grande scommessa a causa di una sceneggiatura meno riuscita e della scelta di diagnosticare una malattia senza però scavare a fondo nei sintomi né, soprattutto, prescrivere una cura: al termine della visione si ha una chiara percezione del macro-problema e delle sue cause apparenti, ma poche idee sulle cause profonde dello stesso, e nessuna su come sistemare le cose. Forse, per McKay, è troppo tardi: ma dare spazio a coloro che una soluzione ancora la stanno cercando avrebbe potuto arricchire il film anziché farlo scivolare in un brillante, sferzante, ma rassegnato pessimismo.

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Pier

martedì 9 novembre 2021

The French Dispatch

Qui, lì, in nessun luogo


Alla morte di Arthur Howitzer Jr., fondatore di The French Dispatch, il supplemento domenicale del quotidiano "The Evening Sun" di Liberty (Kansas), la redazione si riunisce per ricordarlo. Scopre che Howitzer ha deciso che, alla sua morte, il periodico, con sede nell'immaginaria cittadina francese di Ennui-sur-Blasé, dovrà chiudere. La redazione si prepara dunque a stampare l'ultimo numero, fatto di tre storie molto diverse, eppure rappresentative della fervida vita sociale e culturale del paese che lo ospita.

Con The French Dispatch, Anderson si cimenta con nuovi linguaggi (il bianco e nero), soluzione espressive (i cambi scena visibili), generi (il poliziesco/cinema d'azione): pur mantenendo il suo inconfondibile sguardo, è un film diverso, sperimentale, che prova a cercare nuovi modi di raccontare le sue storie fatte. 
Il risultato non è convincente come quello di altri registi "usciti dal seminato" - anche a causa della struttura a episodi, che detrae un po' dal coinvolgimento emotivo che solitamente è la forza dei film di Anderson - ma è comunque estremamente affascinante: è sempre una gioia vedere un regista affermato che prova nuove strade, cercando di reinventarsi senza rinunciare a essere se stesso.

La sperimentazione è visibile già nella struttura a episodi e nel tema: The French Dispatch è un'ode al giornalismo narrativo e, più in generale, all'arte del racconto, al coraggio necessario per avere uno sguardo forte, distintivo e per raccontare il mondo per come lo vediamo, senza compromessi. È anche il film più "politico" di Anderson: il conflitto generazionale, da sempre presente nei suoi film, si fa protesta di piazza, il razzismo e l'omofobia fanno capolino in modo delicato ma di impatto, e la polizia compie a favore di camera azioni che richiamano all'omertà che circonda i pestaggi fuori e dentro le carceri, spesso impuniti. 

La prima volta di Anderson con il bianco e nero convince, ed è splendida nella sua semplicità e pulizia: in alcune scene i bianchi e neri che sfumano con eleganza l'uno nell'altro, la luce soffusa di un ricordo nostalgico; in altre sono più netti, definiti, quasi espressionisti nel loro delineare luci e ombre. Le periodiche e impreviste incursioni di colore (splendida quella che vede protagonista Saoirse Ronan) hanno una qualità onirica, e contribuiscono a trasportare la vicenda in un altrove che è un "qui" diverso per ciascuno spettatore.

La prova del cast è, come sempre, sontuosa: spiccano Chalamet e Del Toro, divertiti e sornioni, e soprattutto un dolente Jeffrey Wright, cuore pulsante del terzo atto che torreggia su tutti gli altri per peculiarità del personaggio (un giornalista culinario che vuole intervistare il più famoso chef di "cucina poliziesca") e portata emotiva del suo passato.

The French Dispatch può apparire superficiale a causa di un estetismo a limiti del perfezionismo e di un sapore per la messa in scena teatrale, a volte in maniera esplicita. Tuttavia, sotto l'abito buono ed elegante si intuisce un cuore pulsante fatto di personaggi bizzarri ma vivi, reali: un gruppo di adorabili asimmetrici costretti a esibirsi su un palco simmetrico, tondi in un mondo quadrato, perennemente alla ricerca di un qualcosa che, come nella vita, finisce spesso per non arrivare. Ma, sembra dirci Anderson, è nell'attesa, nella continua aspirazione che si realizza l'essere umano: un messaggio vecchio di secoli, ma che sembra sempre più vero nella società odierna.

È un film con una grande amarezza di fondo, un senso di non-finito, di interruzione improvvisa e indesiderata, un profumo di sogni non realizzati che accompagna tutte le storie e la vicenda dell'editore e del suo giornale. The French Dispatch è, in questo senso, un perfetto ritratto della nostra epoca, soprattutto per i giovani e le minoranze: un tempo di eterna attesa, di riconoscimenti cercati, inseguiti, ma mai raggiunti, un eterno presente in cui il passato è un macigno lasciatoci da altri e il futuro ha, forse, smesso di esistere.

*** 1/2

Pier

sabato 4 settembre 2021

Dune - Parte 1

Creare un mondo impossibile


In un futuro prossimo venturo, l'universo è controllato da un impero che si regge su un sistema feudale. Le casate sono in lotta tra loro, e una preda ambita è il pianeta Arrakis, un deserto che però ospita la preziosissima Spezia, fondamentale per il viaggio interspaziale dopo che la jihad di Butler ha portato alla distruzione di ogni intelligenza artificiale, e capace di conferire a chi la assume poteri profetici e capacità cognitive degne di un computer. L'imperatore decide di assegnare il pianeta alla casata Atreides, sottraendolo alla casata rivale degli Harkonnen. Paul, erede della casata, si trova quindi costretto a trasferirsi sul pianeta, abitato dai Fremen, che da sempre combattono contro la colonizzazione della propria terra. Paul è tormentato da sogni misteriosi, e da un destino che sua madre, Lady Jessica, membra della misteriosa sorellanza Bene Gesserit, sembra aver architettato per lui.

Il romanzo Dune, pubblicato da Frank Herbert nel 1965, è stato a lungo considerato infilmabile: il mondo creato da Herbert era troppo complesso, troppo denso di riferimenti storici, politici, ambientali e mistici per essere efficacemente trasposto su schermo. Jodorowsky ha provato per anni a realizzarlo, senza riuscirci; e David Lynch ne realizzò una versione che, pur essendo nel frattempo diventato un piccolo cult, riuscì a scontentare sia il regista che il produttore, ma soprattutto il pubblico, che lo trovò troppo complesso. Il paradosso di queste disavventure è che Dune ha profondamente influenzato, sia direttamente, sia indirettamente attraverso i materiali sviluppati per il tentativo di Jodorowsky, tutta la fantascienza cinematografica e televisiva: da Star Wars (il più evidente) a Star Trek, passando per Nausicaa nella valle del vento, Terminator e Alien, sono pochissimi i cult fantascientifici che non gli sono debitori a livello narrativo o di immaginario visivo.


Denis Villeneuve si trovava dunque di fronte a una sfida titanica, persino più del sequel di Blade Runner: da una parte doveva soddisfare le schiere di fan del libro, che da anni attendono un adattamento degno; dall'altro doveva riuscire ad attirare il grande pubblico, trasferendo su schermo la complessità e la densità tematica del romanzo senza annoiare con continui momenti espositivi e lunghissime spiegazioni.
Possiamo dire che Villeneuve ha stravinto la sfida, dimostrandosi ancora una volta uno dei registi migliori degli ultimi anni, uno dei pochissimi in grado di coniugare autorialità e intrattenimento. Il suo Dune è un trionfo registico, in cui tutte le parti si integrano e si amalgamano alla perfezione: se alcuni elementi, presi singolarmente, possono legittimamente non convincere, è impossibile non riconoscere come questi si incastrino tra loro alla perfezione. 

Il risultato è un film magniloquente e mistico, che trasuda epica e mito a ogni inquadratura, capace di stimolare la fantasia e, al tempo stesso, imporre una riflessione sulla realtà. Lo spettatore è letteralmente trasportato a Caladan, a Giedi Prime, ad Arrakis: Dune fa per la saga (che per ora prevede solo un secondo film, che concluderà gli eventi narrati nel primo libro) quello che La compagnia dell'anello fece per Il signore degli anelli: creare i riferimenti visivi e tematici di un nuovo universo, riuscendo a trasmetterne appieno la ricchezza e la profondità - il suo sistema politico, la sua mitologia, le sue tradizioni; e, al tempo stesso, narrare la storia dei suoi protagonisti.


World building: farlo bene

Il principale trionfo di Villeneuve è forse la sceneggiatura: paradossale, forse, per un regista conosciuto soprattutto per le sue doti visive; ma si tratta di un mezzo miracolo. Villeneuve riesce a limitare al minimo le spiegazioni, immergendo lo spettatore nei vari mondi di Dune e cercando di usare il più possibile immagini e azioni per spiegare le complesse regole dell'universo creato da Herbert. I (pochi) tagli operati rispetto all'opera originale sono certosini e funzionali allo scorrere della trama e alla sua comprensione anche agli spettatori non iniziati ai lavori di Herbert. Villeneuve punta tutto sulla macrotrama - sia politica che spirituale - facendo muovere i suoi personaggi in un mondo più grande di loro. Lo stupore di Paul, di Leto, di Lady Jessica è anche quello dello spettatore, ma ci si rende sempre conto di essere di fronte alle ruote della Storia e ai tentativi dei protagonisti di non finirne schiacciati. Volendo proprio trovare un difetto, i sogni di Paul sono forse troppo frequenti, ma risultano comunque funzionali alla creazione di quell'aura di misticismo e predestinazione profetica che è centrale nel fascino di libro e film. 

La magniloquenza narrativa trova un efficace corrispettivo nella fotografia, nei costumi e nella scenografia. Greig Fraiser alterna sapientemente luci e ombre, giocando con naturale ed artificiale e puntando su immagini panoramiche e statiche, che abbracciano le grandi scene di guerra così come le azioni dei personaggi, permettendo allo spettatore di assaporarle appieno. Ogni pianeta vive di luce propria, con i colori caldi di Arrakis che contrastano con quelli freddi, da incubo di Giedi Prime e la placida calma verde-blu di Caladan. 
Il design di set, astronavi e costumi è semplicemente una gioia per gli occhi per creatività e varietà, e la ricchezza dei dettagli è tale che molti sfuggiranno all'occhio cosciente dello spettatore. Hans Zimmer accompagna il tutto con una colonna sonora magniloquente, non particolarmente originale (gli echi dei suoi lavori con Christopher Nolan sono evidenti) ma perfetta per raccontare quello che è a tutti gli effetti un racconto mitologico/fondativo.


Ombre e luci

In questo contesto, non era facile per gli attori riuscire a creare personaggi convincenti e a tutto tondo, che fossero persone prima che categorie, individui prima che pedine nel gioco di scacchi della politica e della Storia. Il casting, tuttavia, si rivela semplicemente perfetto, e gli attori offrono tutte prove eccellenti: Chalamet è un Paul Atreides da manuale, e offre quel mix di energia e tormento giovanile e di aura mistica che sono fondamentali per il personaggio; Rebecca Ferguson è una Lady Jessica fiera e sovrannaturale, Oscar Isaac un Duca Leto empatico e carismatico; e Stellan Skarsgård interpreta il sadico Vladimir Harkonnen con il terrificante piglio nichilista del Kurz di Marlon Brando in Apocalypse Now. Intorno a loro, spiccano Josh Brolin, Jason Momoa, Javier Bardem e Zendaya, che portano in vita i co-protagonisti più amati del romanzo.

The horror, the horror


Dune è un film creativo, originale, che mostra una forte visione registica e autoriale e riesce al tempo stesso a intrattenere e creare un universo che lo spettatore può esplorare, e dove può far volare la fantasia. È tutto quello che dovrebbe essere un blockbuster: non un film fatto con lo stampino e scritto da un algoritmo per non scontentare nessuno, ma un film ambizioso, che ha il coraggio delle sue idee e le persegue anche a costo di alienarsi qualche spettatore. Questa prima parte conquista, avvince, e seduce: non vediamo l'ora di tornare su Arrakis per la seconda.

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Pier

sabato 8 febbraio 2020

Piccole donne

L'arte è vita, la vita è arte


Jo March ambisce a diventare una scrittrice, ma per ora si deve accontentare di scrivere romanzi rosa e scandalistici. Quando un'emergenza la richiama a casa, scopriamo a poco a poco il suo indissolubile legame con la famiglia: le sorelle Meg, Amy, e Beth, la madre, il vicino di causa Laurie. La loro storia è indissolubile da quella di Jo, ed è destinata a divenire anche parte fondante della sua arte.

Dopo l'ottimo esordio di Lady Bird, Greta Gerwig decide di alzare il tiro, cimentandosi con uno dei grandi classici della letteratura per l'infanzia, rileggendolo e trasformandolo in una riflessione sul ruolo della donna nella società, sull'atto creativo, e sull'intersezione tra questi temi. Le ambizioni e il desiderio di emancipazione di Lady Bird si ritrovano nell'iconico personaggio di Jo March - la Gerwig non a caso decide di affidare il personaggio alla stessa attrice, Saoirse Ronan - la cui storia personale diviene finzione ma anche riflessione sul processo artistico, sia del personaggio, sia di Louisa McAlcott, la cui biografia si fonde con la storia di Jo, sia della regista stessa.

La sceneggiatura è il punto forte del film: costruita dalla Gerwig con certosina attenzione, alternando passato e presente e sconvolgendo la struttura lineare del romanzo, rende i confini tra reale e narrato sempre più indistiguibili, fino a farli diventare inestricabili l'uno dall'altro. La gioia, anzi, la volontà di vivere appieno la propria vita, anche di fronte all'avversità, emerge con forza in numerose scene, che brillano per energia e vitalità. La visione della Gerwig, tuttavia, non riesce a eliminare la patina un po' da feuilleton/sceneggiato in costume della BBC: l'ambientazione d'epoca non aiuta, e la scelta di smussare i toni più duri di alcuni personaggi (Marmee March su tutte, troppo dolce e hippie) e di puntare forte sul sentimento fraterno, soprattutto nella prima parte, fa sì che alcuni passaggi risultino un po' troppo zuccherosi, inficiando in parte anche la forza del messaggio.

La regia, per quanto scolastica, sorregge la geniale ambiguità della sceneggiatura con dei cambi di palette di colore - caldi per il passato narrato, freddi per il presente - innescando così un'alternanza che funziona ottimamente fino al finale, quando invece la fotografia fa sì che l'ambiguità diventi confusione, e la riflessione della regista sul sottile confine tra vita e arte non colpisca quindi quanto potrebbe.

Il cast offre un'ottima prova corale, anche se alcune scelte destano perplessità nei conoscitori del romanzo: se Florence Pugh offre una Amy diversa ma proprio per questo più profonda e interessante di quella originale, la Jo di Saoirse Ronan manca della complessità emotiva del suo equivalente cartaceo, e sembra eternamente in balia delle sue passioni anziché esserne padrona. I personaggi più fuori parte, tuttavia, sono senza dubbio i genitori, tra una Laura Dern inspiegabilmente smielata e un Bob Odenkirk che, forse a causa della sua forte identificazione con il Saul della omonima serie TV, non è davvero credibile nella parte del mite e onesto padre di famiglia.

Piccole donne è un film ambizioso, più coraggioso di Lady Bird, rispetto al quale mostra una notevole maturazione artistica; tuttavia, questa ambizione fa sì che, a tratti, il film manchi il suo bersaglio, perdendosi nel suo stesso impianto narrativo e, soprattutto, in inutili sequenze zuccherine, laddove Lady Bird, pur volando più basso, lo coglieva appieno.
Rimane comunque un film importante, che guarda alla storia della letteratura per riflettere sull'arte femminile nella realtà di oggi, concludendo con amarezza dissimulata che, in fondo, non è cambiato troppo: le difficoltà di Jo sono le stesse affrontate oggi dalle donne che vogliono intraprendere una carriera artistica, che anzi per assurdo si trovano ad affrontare un sistema editoriale ancor meno disposto a dare voce alle esordienti. La Gerwig è Jo, Jo è la Gerwig, e ambedue sono il personaggio del romanzo scritto da Jo, del film scritto da Greta Gerwig: l'arte e la vita si fondono, e si fanno atto di speranza, di liberazione, di emancipazione.

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Pier


lunedì 19 febbraio 2018

Chiamami col tuo nome

Molto rumore per nulla



Nel 1983, Elio Perlman, un giovane diciassettenne italoamericano, trascorre un'estate oziosa nella campagna intorno a Crema insieme ai suoi genitori. A loro si unisce Oliver, uno studente universitario che lavora con il padre di Elio alla sua tesi di dottorato. Tra Elio e Oliver si instaura un rapporto che cambierà la vita di entrambi.

Cosa è un regista se abdica alla sua visione? È ciò che viene da chiedersi vedendo Chiamami col tuo nome, un film in cui Luca Guadagnino rinuncia a ogni pretesa di autorialità e originalità girando un film che sembra un condensato di sguardi altrui. Se a Sorrentino si rimprovera spesso (e spesso a torto) di “voler fare Fellini”, cosa dire allora di Guadagnino, che è talmente schiacciato dai suoi modelli di riferimento da non riuscire mai a discostarsene se non per brevi, meravigliosi attimi di respiro autonomo: dall'estetismo di sapore classico di Visconti alla gioventù sovversiva di Bertolucci, fino al fitto sottobosco della vita di provincia di Risi, non c'è modello che Guadagnino non citi e riutilizzi in modo ossequioso e quasi servile. Il risultato è un film ben girato ma anonimo, che potrebbe essere di Guadagnino come di qualunque altro regista, in cui persino le scene bucoliche sanno di già visto (Le Meraviglie di Alice Rohrwacher era ben più ispirato, in tal senso) e nessuna immagine resta stampata nella memoria.

Tuttavia, sarebbe ingeneroso non riconoscere il grande lavoro fatto da Guadagnino per rendere filmabile e credibile la sceneggiatura ingessata, anzi, bitumata di James Ivory: una sceneggiatura che mette in bocca a degli adolescenti degli anni Ottanta dei dialoghi che sembrerebbero troppo forbiti in bocca alla nobiltà vittoriana di cui di solito Ivory tratta nei suoi tormenti filmici; una sceneggiatura che tormenta lo spettatore con momenti lirici che risultano solo noiosi, con un ritmo fiacco ed esasperante; una sceneggiatura, insomma, arrogante e tronfia nel suo essere totalmente disconnessa dalla realtà, e che infatti sta ricevendo il plauso di quella critica terrazzesca e salottiera che la realtà l'ha persa di vista da almeno tre lustri. L'emblema di questa sceneggiatura è il monologo finale del padre di Elio, che Ivory indubbiamente vedeva come profondo ma risulta essere invece una trista morale della storia degna di un libro di fiabe di livello scadente, intriso di retorica e talmente incredibile da divenire ridicola, e che viene salvato solo dal fatto di essere affidato a un interprete straordinario come Michael Stuhlbarg.

Guadagnino si dibatte in questa sceneggiatura come un uomo in fiume prigioniero di un'armatura elegante ma troppo pesante e, pur con fatica, riesce a trascinarsi a riva grazie a un paio di felici intuizioni: la prima, depotenziare tutte le scene eccessivamente retoriche con un uso semplice della macchina da presa, evitando di sovraccaricare gli orpelli ivoriani con ulteriori artifizi filmici; la seconda, affidarsi alla straordinaria bravura dei suoi attori, Armie Hammer e Timothée Chalamet, tanto naturali e spontanei da riuscire a rendere (quasi) credibili le odi pastorali che Ivory ha scritto spacciandole per dialoghi. Non per nulla le scena più riuscite sono quelle di intimità tra i due, in cui i dialoghi sono rarefatti e quasi del tutto assenti, ed è il linguaggio dei corpi a parlare, comunicare e, perché no, commuovere. Esemplare in questo senso è l'ultima scena del film, forse l'unica in cui vediamo la creatività del regista emergere con prepotenza, quasi con liberazione: Guadagnino decide di lasciare la scena a Chalamet, che lo ripaga con una sequenza semplice ma di fortissimo impatto emotivo.

Chiamami con il tuo nome è un film onesto, diretto con perizia, con un'ottima colonna sonora e splendidamente interpretato, ma molto lontano dal capolavoro di cui si urla oltreoceano, dove ha probabilmente guadagnato attenzione grazie alla tematica e a una regia che negli USA passa per autoriale, ma che qui in Europa fatica a distinguersi da mille altre viste nei maggiori festival cinematografici. È, soprattutto, molto lontano dall'essere il miglior lavoro di Guadagnino: come potrebbe, quando di Guadagnino e della sua poetica c'è poco o nulla?

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Pier