Non è un segreto che oggi l'horror sia diventato un genere che ama affrontare tematiche sociali. Forse lo era sempre stato, ma da Get Out! in poi il numero di film dai forti connotati sociologici e, spesso, politici è esploso. Weapons, opera seconda di Zach Cregger, non fa eccezione. La trama sarebbe riassumibile come "qualcosa di malvagio e misterioso si infiltra in una comunità già frammentata e la distrugge definitivamente, usando le persone come armi contro chi cerca di ostacolare i suoi piani": se suona come la realtà in cui ci troviamo a vivere, soprattutto negli USA, non è un caso.
Weapons è un film sulla manipolazione, che qui avviene per via magica anziché mediatica, e di come questa possa portare intere comunità a uno stato di guerra permanente, tutti contro tutti. Il Male, alla fine, può essere sconfitto, ma la ferita che ha lasciato faticherà a guarire, e forse non guarirà mai. Garner dipana la trama lentamente, senza fretta, cambiando i punti di vista per disvelare gli effetti tossici del Male, che scava, distrugge, corrompe, sfrutta le debolezze e i traumi già esistenti per insinuarsi e mettere radici. Se da un lato questo espediente rende la narrazione troppo spezzettata e, alla lunga, un po' ripetitiva (l'inizio è decisamente più efficace della parte centrale), dall'altro riesce a restituire l'anima frammentata del paese in cui si svolge la vicenda, epitome degli Stati Uniti e del mondo intero: un paese già "rotto", e per questo fragile quando il Male si presenta a bussare alla sua porta.
La frammentazione narrativa evidenzia alla perfezione come questo avvenga grazie al fatto che i protagonisti sono isolati, non si parlano tra loro, spesso non si conoscono nemmeno, e di sicuro non si fidano. Garner usa uno dei tropoi più pigri dell'horror e del thriller (la non-comunicazione di informazioni fondamentali tra i protagonisti), e lo vira a suo favore, rendendolo parte integrante del messaggio.
Il film è fotografato con maestria, e molti dei momenti migliori sono puramente visivi, a cominciare dall'immagine efficacissima e inquietante che campeggia sui materiali promozionali. Garner ha grande senso dell'inquadratura e dell'atmosfera, e con questo compensa ciò che gli difetta in ritmo e costruzione del crescendo narrativo. Weapons è un film ricco di suggestioni visive che parlano più di mille parole, dalla "zombificazione" di chi cade preda del male alle inquadrature che evidenziano la desolazione e la solitudine dei protagonisti (magistrale, in tal senso, quella in cui vediamo la maestra di Julia Garner rispondere a un misterioso scampanellio notturno).
Weapons non passerà alla storia, ma è un horror solido, teso, e con un messaggio chiaro e forte che non appesantisce la narrazione. Anche se è indubbio che le continue "ripartenze" della storia, con cambio del punto di vista, siano funzionali alle intenzioni del regista, non si può non notare che un cambio di struttura e ritmo (anche non radicale come quello di Parasite o de I Peccatori) avrebbe giovato al film in termini sia di narrazione che di creatività. Resta comunque un'ottima opera seconda, che promette bene per il prosieguo di Cregger all'interno di un genere che è oggi forse il più vitale e innovativo del panorma hollywoodiano.
Dopo essere scampati al tentativo di ucciderli da parte degli Harkonnen, Paul Atreides e sua madre Jessica vivono tra i Fremen, supportati dal leader di un loro clan, Stilgar. I Fremen però faticano ad accettarli, fino a quando non si diffonde la voce che Paul sia l'atteso Messia di Dune promesso dalle leggende, la Voce da un Altro Mondo. Paul dovrà scegliere se cavalcare l'ondata di fervore religioso o dare retta alle sue visioni, che predicono sventura, e a Chani, una guerriera Fremen per cui comincia a provare dei sentimenti, e che lo esorta a rimanere se stesso.
Quello dell'Eletto è un topos fondante della narrativa, cinematografica e non. È al centro di molte delle saghe più popolari, da Harry Potter a Guerre Stellari, passando per Matrix. Il pubblico è talmente abituato a vederla che, spesso, reagisce molto negativamente ai tentativi di sovvertirla. Anche Dune, il romanzo di Frank Herbert, racconta, la storia dell'ascesa di un eletto. Tuttavia, a differenza di ciò che credono molti, non lo fa per celebrarlo, ma per mettere in evidenza i pericoli ideologici, filosofici, e sociali del rendere un semplice uomo un Messia. Dune non è la storia di un salvatore esterno (né, tantomeno, di un white savior come hanno spesso sostenuto critici superficiali): è la storia di come si costruisce un mito inesistente, il racconto di una colonizzazione culturale al fine di perpetuare un piano di controllo e dominio - finché qualcosa, nel meccanismo, si inceppa.
Denis Villeneuve coglie alla perfezione le intenzioni di Herbert - intenzioni spesso travisate, come detto, ma evidenti a chi conosce anche i capitoli successivi della saga, in particolare Dune Messiah - e le traspone alla perfezione in questo secondo capitolo, facendo centro e riuscendo finalmente a catturare la complessità di quello che è stato definito per decenni un "romanzo infilmabile." Villeneuve, come già ampiamente dimostrato sia nel primo capitolo, sia in altri suoi lavori, non teme la complessità, anzi, sembra quasi bramarla, e tesse un arazzo complesso, intricato, che rende giustizia al materiale di partenza e non ha paura di raccontare un'ascesa oscura, la nascita di un eroe che è anche un antieroe, che per prendere il proprio posto nel mondo deve accettare il suo lato oscuro e il fatto che le sue azioni provocheranno milioni di morti.
Salvatore o carnefice? Liberatore o colonizzatore? La risposta è ambigua, ma il fatto stesso che questa ambiguità sussista è una rivoluzione per il genere, quantomeno al cinema. La complessità morale di Paul, e l'inganno alla base della sua venuta messianica sono qui messe pienamente in luce, e questa scelta rende più interessanti, complessi, e sfaccettati tutti i personaggi - Paul in primis, ma anche Chani, vera bussola morale del film, e Lady Jessica. La musica di Hans Zimmer svolge un ruolo fondamentale, perché non tocca mai note di esaltazione e celebrazione, ma suggerisce un disastro incombente, un male nascosto nell'ombra, un'inquietudine che non viene mai del tutto sopita.
In generale, Villeneuve abbraccia la densità tematica del romanzo (oltre alla "sindrome del messia" si parla di colonialismo, fanatismo, ecologia, e tanto altro) e la fa sua, apportando cambiamenti a volte dolorosi, ma doverosi, - sia perché superflui ai fini narrativi, sia perché complessi da gestire perché avrebbero richiesto ulteriore minutaggio - omettendo spiegazioni non necessarie, e senza farsi problemi a rallentare il ritmo quando necessario, per poi accelerare di colpo quando l'azione diventa regina. Il regista (e il suo co-sceneggiatore, Jon Spaihts) fanno una cosa che sembra eccezionale ma è in realtà estremamente semplice: si fidano dell'intelligenza e, soprattutto, dell'immaginazione dello spettatore nel connettere i puntini, nel dare senso a quello che si vede ma non viene sviscerato in ogni dettaglio. Così facendo, dando vita a un mondo che lascia una sensazione di profondità, di infinite storie che potrebbero essere raccontate, di personaggi cui potrebbero essere dedicati interi film, e che incontriamo come passeggeri nella notte mentre seguiamo le avventure di Paul e dei Fremen, e di cui vorremmo sapere di più.
L'ultima saga a riuscire a rendere in modo paragonabile la profondità del mondo romanzesco era stata quella de Il Signore degli Anelli, ma Peter Jackson aveva sempre preferito puntare più sul lato spettacolare e non soffermarsi troppo su quello tematico (che pur emergeva). Villeneuve invece riesce a mantenere un bilanciamento queste due anime, ed è una goduria cinematografica vedere questo esercizio di equilibrismo dipanarsi scena dopo scena.
Visivamente il film è abbacinante: riempie gli occhi di stupore, lascia continuamente a bocca aperta e, quando pensi di esserti ormai abituato a deserti immensi che paiono mari solcati dalle onde, tecnologie innovative che sembrano al tempo stesso vecchissime (non a caso Lucas ha saccheggiato a piene mani la creazione di Herbert per creare l'immaginario di Guerre Stellari), e immense creature che emergono dalle sabbie, ti colpisce ancora, e ancora, e ancora con immagini sempre più ambiziose, coraggiose, creative. Non citerò scene specifiche per evitare spoiler, ma ci sono almeno tre momenti (tra cui quello che apre il film) destinati a diventare iconici.
La cifra visiva di Villeneuve è pienamente riconoscibile, tra duelli ripresi in silhouette, personaggi che si stagliano solitari di fronte all'infinito, e panoramiche che catturano la vastità di una natura di volta in volta meravigliosa, matrigna, o deturpata dall'intervento dell'uomo. A questo bagaglio dei trucchi si aggiunge qui un uso del colore espressionista e una tendenza spiccata a posizionare la camera a terra, inquadrando dal basso per rivelare, anzi, evocare qualcosa di grande e terribile che diventa a poco a poco visibile, creando un senso di attesa prima e di meraviglia poi nello spettatore.
Il film non potrebbe però raggiungere le vette che raggiunge senza l'aiuto di un cast semplicemente perfetto. Tra le vecchie conoscenze, Chalamet rende alla perfezione la crescita di Paul, passando dal ragazzino etereo e un po' imbronciato del primo film a leader di un popolo e di una guerra santa con una performance sfaccettata, in cui dimostra un carisma fisico e, soprattutto, vocale inaspettato che, unito alla sua capacità di dare voce e corpo alla fragilità, rende alla perfezione l'ambiguità morale in cui lentamente svicola Paul. Accanto a lui, Zendaya è l'occhio scettico, l'ancora che dovrebbe impedire a Paul di perdere il suo lato umano, l'unica a vederlo come Paul, come Muad'dib, e non come il Messia, la Voce da un Altro Mondo in cui le persone intorno a lui vogliono trasformarlo. Rebecca Ferguson è una Lady Jessica che ricorda una Lady Macbeth, incutendo terrore come una Reverenda Madre delle Bene Gesserit dovrebbe fare, e Stellan Skarsgard continua ad abitare i nostri incubi con il suo Barone Harkonnen.
Anche i nuovi arrivi brillano, a cominciare da Austin Butler, che regala un Feyd-Rautha imperioso, dalla voce oltremondana e dalle movenze serpentine, un sadico assassino con un codice d'onore, perfetto specchio deformato di ciò che diventa Paul - un aspetto, questo, resto in modo addirittura più efficace che nel romanzo, dove Feyd risultava meno profondo e più tipizzato come "malvagio", per quanto affascinante. Accanto a lui da segnalare anche Léa Seydoux, attrice dal range limitato che però Villeneuve sfrutta alla perfezione, ritagliandole addosso una Bene Gesserit felina, seduttiva, a suo agio nel muoversi tra luci e ombre. Florence Pugh e Christopher Walken, pur con un minutaggio limitato, danno spessore e gravitas ai rispettivi personaggi, e Pugh promette di portare sullo schermo una Irulan eccezionale se, come sperano sia Villeneuve che i fan, verrà realizzato un film anche dal secondo libro della saga, Dune Messiah.
Dune - Parte 2 è un sequel cupo, oscuro, in uno scarto tonale che ricorda Impero colpisce ancora ma se si fosse focalizzato maggiormente su Darth Vader. È un adattamento fedelissimo allo spirito e fedele alla lettera del libro, e al tempo stesso accessibile anche per chi non conosce il lavoro di Herbert. È, in sintesi, tutto ciò che dovrebbe essere un blockbuster d'autore: intrattiene con battaglie, intrighi, creature mitologiche e personaggi memorabili, ma al tempo stesso stupisce, colpisce e fa riflettere, prendendosi i suoi tempi e lasciando lo spettatore a interrogarsi su cosa ha visto e con il desiderio di rivedere il film per scoprire dettagli, suggestioni, interpretazioni. Destinato a diventare una pietra miliare del genere: come per la trilogia de Il Signore degli Anelli e Mad Max: Fury Road, ci sarà un "prima" e un "dopo" Dune.
In un futuro prossimo venturo, l'universo è controllato da un impero che si regge su un sistema feudale. Le casate sono in lotta tra loro, e una preda ambita è il pianeta Arrakis, un deserto che però ospita la preziosissima Spezia, fondamentale per il viaggio interspaziale dopo che la jihad di Butler ha portato alla distruzione di ogni intelligenza artificiale, e capace di conferire a chi la assume poteri profetici e capacità cognitive degne di un computer. L'imperatore decide di assegnare il pianeta alla casata Atreides, sottraendolo alla casata rivale degli Harkonnen. Paul, erede della casata, si trova quindi costretto a trasferirsi sul pianeta, abitato dai Fremen, che da sempre combattono contro la colonizzazione della propria terra. Paul è tormentato da sogni misteriosi, e da un destino che sua madre, Lady Jessica, membra della misteriosa sorellanza Bene Gesserit, sembra aver architettato per lui.
Il romanzo Dune, pubblicato da Frank Herbert nel 1965, è stato a lungo considerato infilmabile: il mondo creato da Herbert era troppo complesso, troppo denso di riferimenti storici, politici, ambientali e mistici per essere efficacemente trasposto su schermo. Jodorowsky ha provato per anni a realizzarlo, senza riuscirci; e David Lynch ne realizzò una versione che, pur essendo nel frattempo diventato un piccolo cult, riuscì a scontentare sia il regista che il produttore, ma soprattutto il pubblico, che lo trovò troppo complesso. Il paradosso di queste disavventure è che Dune ha profondamente influenzato, sia direttamente, sia indirettamente attraverso i materiali sviluppati per il tentativo di Jodorowsky, tutta la fantascienza cinematografica e televisiva: da Star Wars (il più evidente) a Star Trek, passando per Nausicaa nella valle del vento, Terminator e Alien, sono pochissimi i cult fantascientifici che non gli sono debitori a livello narrativo o di immaginario visivo.
Denis Villeneuve si trovava dunque di fronte a una sfida titanica, persino più del sequel di Blade Runner: da una parte doveva soddisfare le schiere di fan del libro, che da anni attendono un adattamento degno; dall'altro doveva riuscire ad attirare il grande pubblico, trasferendo su schermo la complessità e la densità tematica del romanzo senza annoiare con continui momenti espositivi e lunghissime spiegazioni.
Possiamo dire che Villeneuve ha stravinto la sfida, dimostrandosi ancora una volta uno dei registi migliori degli ultimi anni, uno dei pochissimi in grado di coniugare autorialità e intrattenimento. Il suo Dune è un trionfo registico, in cui tutte le parti si integrano e si amalgamano alla perfezione: se alcuni elementi, presi singolarmente, possono legittimamente non convincere, è impossibile non riconoscere come questi si incastrino tra loro alla perfezione.
Il risultato è un film magniloquente e mistico, che trasuda epica e mito a ogni inquadratura, capace di stimolare la fantasia e, al tempo stesso, imporre una riflessione sulla realtà. Lo spettatore è letteralmente trasportato a Caladan, a Giedi Prime, ad Arrakis: Dune fa per la saga (che per ora prevede solo un secondo film, che concluderà gli eventi narrati nel primo libro) quello che La compagnia dell'anello fece per Il signore degli anelli: creare i riferimenti visivi e tematici di un nuovo universo, riuscendo a trasmetterne appieno la ricchezza e la profondità - il suo sistema politico, la sua mitologia, le sue tradizioni; e, al tempo stesso, narrare la storia dei suoi protagonisti.
World building: farlo bene
Il principale trionfo di Villeneuve è forse la sceneggiatura: paradossale, forse, per un regista conosciuto soprattutto per le sue doti visive; ma si tratta di un mezzo miracolo. Villeneuve riesce a limitare al minimo le spiegazioni, immergendo lo spettatore nei vari mondi di Dune e cercando di usare il più possibile immagini e azioni per spiegare le complesse regole dell'universo creato da Herbert. I (pochi) tagli operati rispetto all'opera originale sono certosini e funzionali allo scorrere della trama e alla sua comprensione anche agli spettatori non iniziati ai lavori di Herbert. Villeneuve punta tutto sulla macrotrama - sia politica che spirituale - facendo muovere i suoi personaggi in un mondo più grande di loro. Lo stupore di Paul, di Leto, di Lady Jessica è anche quello dello spettatore, ma ci si rende sempre conto di essere di fronte alle ruote della Storia e ai tentativi dei protagonisti di non finirne schiacciati. Volendo proprio trovare un difetto, i sogni di Paul sono forse troppo frequenti, ma risultano comunque funzionali alla creazione di quell'aura di misticismo e predestinazione profetica che è centrale nel fascino di libro e film.
La magniloquenza narrativa trova un efficace corrispettivo nella fotografia, nei costumi e nella scenografia. Greig Fraiser alterna sapientemente luci e ombre, giocando con naturale ed artificiale e puntando su immagini panoramiche e statiche, che abbracciano le grandi scene di guerra così come le azioni dei personaggi, permettendo allo spettatore di assaporarle appieno. Ogni pianeta vive di luce propria, con i colori caldi di Arrakis che contrastano con quelli freddi, da incubo di Giedi Prime e la placida calma verde-blu di Caladan.
Il design di set, astronavi e costumi è semplicemente una gioia per gli occhi per creatività e varietà, e la ricchezza dei dettagli è tale che molti sfuggiranno all'occhio cosciente dello spettatore. Hans Zimmer accompagna il tutto con una colonna sonora magniloquente, non particolarmente originale (gli echi dei suoi lavori con Christopher Nolan sono evidenti) ma perfetta per raccontare quello che è a tutti gli effetti un racconto mitologico/fondativo.
Ombre e luci
In questo contesto, non era facile per gli attori riuscire a creare personaggi convincenti e a tutto tondo, che fossero persone prima che categorie, individui prima che pedine nel gioco di scacchi della politica e della Storia. Il casting, tuttavia, si rivela semplicemente perfetto, e gli attori offrono tutte prove eccellenti: Chalamet è un Paul Atreides da manuale, e offre quel mix di energia e tormento giovanile e di aura mistica che sono fondamentali per il personaggio; Rebecca Ferguson è una Lady Jessica fiera e sovrannaturale, Oscar Isaac un Duca Leto empatico e carismatico; e Stellan Skarsgård interpreta il sadico Vladimir Harkonnen con il terrificante piglio nichilista del Kurz di Marlon Brando in Apocalypse Now. Intorno a loro, spiccano Josh Brolin, Jason Momoa, Javier Bardem e Zendaya, che portano in vita i co-protagonisti più amati del romanzo.
The horror, the horror
Dune è un film creativo, originale, che mostra una forte visione registica e autoriale e riesce al tempo stesso a intrattenere e creare un universo che lo spettatore può esplorare, e dove può far volare la fantasia. È tutto quello che dovrebbe essere un blockbuster: non un film fatto con lo stampino e scritto da un algoritmo per non scontentare nessuno, ma un film ambizioso, che ha il coraggio delle sue idee e le persegue anche a costo di alienarsi qualche spettatore. Questa prima parte conquista, avvince, e seduce: non vediamo l'ora di tornare su Arrakis per la seconda.
Attenzione: questa recensione contiene spoiler sulla trama
Thanos ha raccolto tutte le Gemme dell'Infinito, e ha dimezzato gli esseri viventi nell'Universo. Gli Avengers superstiti sono decisi a non dargliela vinta, e si mettono sulle sue tracce.
Chiunque si sia mai cimentato in una qualunque forma di attività narrativa vi dirà che chiudere una storia in modo efficace è estremamente complesso: occorre portare a conclusione i vari fili della trama, concludere in modo soddisfacente l'arco dei protagonisti, creare qualche colpo di scena e al tempo stesso dare al pubblico un senso di chiusura. Chiudere male una storia può avere un impatto devastante, rovinando non solo il finale, ma anche la memoria di ciò che è stato, come se tutto ciò cui si è assistito in quel momento venisse improvvisamente privato di senso.
Avengers: Endgame doveva assolvere alla titanica impresa di concludere una storia dipanatasi attraverso ventidue film per quasi undici anni, e la porta a termine con successo, onorando la memoria di ciò che è stato, orchestrando alla perfezione gli eventi nel presente, e gettando le basi per un futuro incerto ma intrigante.
I fratelli Russo, coadiuvati come sempre da Christopher Markus e Stephen McFeely, elaborano infatti una trama a orologeria, in cui le sorprese sono equamente distribuite nell'arco di tre ore che paiono volare, e in cui tutti gli innumerevoli protagonisti visti in questi undici anni ottengono il loro giusto momento di gloria. La memoria è la vera protagonista del film, e viene declinata in tutte le sue forme: rimorso, rimpianto, nostalgia, apprendimento, parte dell'identità.
I registi mettono in chiaro fin da subito il loro intento, e nel farlo stravolgono le prospettive dello spettatore. Laddove tutti si aspettavano un film incentrato su un nuovo scontro con Thanos, i fratelli Russo decidono di uccidere il Titano nei primi minuti del film, ma non prima di aver rivelato agli Avengers superstiti la terribile verità: ha distrutto le Gemme dell'Infinito, rendendo quindi impossibile ogni tentativo di cancellare la sua opera. Un colpo di scena congegnato alla perfezione, che rende onore sia al talento narrativo degli sceneggiatori, sia alle motivazioni e all'intelligenza di quello che è nettamente il miglior villain dell'universo cinematografico Marvel. Thanos non è un cattivo dei fumetti da operetta, ma un freddo calcolatore mosso da un ideale, per quanto folle, e disposto a dare la vita per vederlo realizzato; non vuole dominare il mondo, ma solo renderlo un luogo migliore. Prima di essere ucciso da Thor, lo vediamo intento a coltivare la terra, lontano da ogni tentazione di mantenere quel potere assoluto che le Gemme gli avevano garantito.
Gli Avengers sono annichiliti, e la parte centrale del film è dedicata all'esplorazione del loro senso di perdita, del loro fallimento. Li ritroviamo cinque anni dopo, sfatti, sconfitti, emotivamente distrutti. Ognuno cerca di reagire in modo diverso, e da questo caleidoscopio emotivo emergono momenti toccanti, comici, introspettivi, in uno strano mix che sembra destinato a fallire e che invece funziona alla perfezione, nonostante alcuni personaggi vengano forse buttati eccessivamente in burletta (Thor su tutti). Ed è in questo momento che riemerge la speranza, nelle fattezze e nei modi più inaspettati: un topo riattiva il tunnel quantico che aveva intrappolato Ant-Man, riportando Scott Lang sulla terra. Chi scrive è un fan sfegatato di Paul Rudd, ma sfido chiunque a non riconoscere la sua straordinaria capacità di rendere umano e vero il suo Scott, forse il personaggio emotivamente meglio riuscito del film. Sarà lui a elaborare un piano per annullare gli effetti della Decimazione: un viaggio nel tempo utilizzando il tunnel quantico, al fine di recuperare le pietre prima di Thanos. La sua folle idea stuzzica la mente degli Avengers, e li porta a tornare a collaborare dopo anni di lontananza: Iron Man ci mette la tecnologia, Capitan America le capacità di leader, e il viaggio nel tempo diventa realtà.
La memoria viene qui affrontata anche in chiave meta-narrativa, riportando i protagonisti ai momenti chiave della loro storia, e facendo rivivere allo spettatore snodi cruciali dei film precedenti, presentandoli sotto diverse angolazioni. Un dietro le quinte che rivela la natura sottile e illusoria dei ricordi che, lungi dall'essere obiettivo come noi ci illudiamo che siano, sono invece solo il risultato di un'elaborazione parziale di quanto successo: ciò che ci sembrava epico è ridicolo agli occhi di qualcun altro, ciò che ci sembrava tragico è in realtà solo parte della vita, un passo necessario per l'evoluzione delle cose e di noi stessi. Allo stesso tempo, tuttavia, il ricordo è anche ciò che ci sostiene, e che permette agli Avengers di continuare a sperare: quando il Thanos del passato scopre del piano degli Avengers, dunque, il ricordo diventa il nemico. L'obiettivo non è più quindi cancellare metà degli esseri viventi, ma obliterarne il ricordo, affinché possa nascere una nuova vita libera dalla memoria di ciò che è stato.
Se la parte narrativa è pressoché impeccabile, l'unico difetto del film risiede nella fotografia, tornata banale e piatta come in Civil War,bloccata su colori grigio/bluastri che non riescono a essere tragici e che rendono il film incolore per larghi tratti, costretto a sorreggersi sugli effetti speciali per fornire un qualunque tipo di stimolo visivo.
Questo rimane tuttavia un difetto veniale in un film che conclude in modo eccezionale una saga che ci ha accompagnato per più di un decennio, assemblando (è proprio il caso di dirlo) diversi personaggi e diverse storie in un unicum di rara coerenza che costituisce una delle pagine più alte del genere supereroistico e del blockbuster hollywoodiano in generale.
Nel finale il film abbandona la vena introspettiva per lanciarsi in una battaglia campale che non mancherà di dare grandi soddisfazioni ai fan, fino a un finale di devastante portata emotiva, in grado di farci piangere di sofferenza ma anche di gioia per la conclusione semplicemente perfetta degli archi narrativi di alcuni degli eroi più popolari. Non vogliamo dire di più: ognuno potrà riempire questo spazio con il suo ricordo, il suo momento preferito del finale di una saga che rimarrà nei nostri cuori; un finale che non può lasciare indifferenti, e che dà un nuovo significato alla frase che ha accompagnato la campagna promozionale del film: a qualunque costo.
Ci sono un mercenario, un cyborg, e un bambino lanciafiamme...
Deadpool si sta godendo la vita, diviso tra il lavoro e la fidanzata Vanessa. Un evento tanto tragico quanto inaspettato lo porta sulla strada di un giovane mutante molto potente che, in preda all'ira, sta seminando il panico nell'ospedale in cui è rinchiuso. L'arrivo di Deadpool non contribuisce a migliorare la situazione, ma decide di salvare il ragazzo, costi quel che costi. A complicare le cose arriva Cable, un misterioso guerriero bionico venuto dal futuro con l'obiettivo preciso di uccidere il ragazzo.
Tuttavia, le varie scene si susseguono come una serie di collage, piuttosto che come un insieme unitario, in una continua, schizofrenica alternanza di gag e momenti riflessivi, persino mistici, che stonano però con il tono caciarone del resto del film. Se nel primo film il bilanciamento era garantito dagli archetipi della origin story, che garantivano una certa coesione di insieme, qui il filo narrativo risulta invece troppo fine per far funzionare appieno il tutto. La storia del ragazzino mutante offre degli spunti interessanti, ma mostra la corda quando si tratta di diventare il trait d'union di una serie di avvenimenti e personaggi quanto mai eterogenei.
Il film si regge come sempre sulle spalle di Ryan Reynolds, semplicemente perfetto nella parte del protagonista, cui riesce a trasmettere un difficilissimo mix di cialtroneria e gravitas. Al suo fianco troviamo un Josh Brolin che conferma il suo stato di grazia supereroistico: dopo lo splendido Thanos di Infinity Wars, Brolin interpreta un Cable temibile e granitico, perfetto contraltare alla contagiosa esuberanza di Deadpool, regalandoci una coppia che promette faville per i futuri sequel.
Deadpool 2 è come una vecchia barzelletta che, per quanto già sentita altre volte, non smette mai di far ridere. Il merito del film è che, a tratti, riesce anche a far riflettere; il demerito è che al secondo capitolo era forse lecito aspettarsi qualcosa di più che nuove gag, per quanto molto, molto riuscite (su tutte, la prima missione della X-Force).
Dopo un lungo tramare nell'ombra, Thanos il Titano è uscito allo scoperto, e con l'aiuto dei suoi aiutanti si è messo alla ricerca di tutte le sei Gemme dell'Infinito. Se riuscisse a raccogliere, potrebbe portare a compimento il suo piano per salvare l'Universo da un'estinzione che ritiene certa: dimezzarne la popolazione. Solo gli Avengers e i Guardiani della Galassia possono fermare il Matto Titano, e forse anche loro potrebbero non essere sufficienti. Avengers: Infinity War aveva un compito improbo: portare a compimento dieci anni di storie intrecciate attraverso una miriade di film (e non solo), tirando le fila di un'immensa trama orizzontale dipanatasi in modo sotterraneo all'interno delle varie trame verticali. Questa trama preveù deva l'arrivo di un nemico tanto temibile da rendere necessario l'intervento di tutti gli eroi (più o meno super) dell'Universo conosciuto. Per farla funzionare servivano quindi un nemico credibile sia dal punto di vista della minaccia che dal punto di vista della caratterizzazione, nonché un attento bilanciamento dello spazio dato ai vari personaggi.
Possiamo dire che Infinity War assolve perfettamente ad ambedue i compiti, regalandoci il miglior villain cinematografico della Marvel e riuscendo a dare il giusto spazio a tutti i personaggi. Thanos non è il solito cattivo da fumetto che vuole conquistare l'universo: al contrario, vuole salvarlo dalla distruzione, ma pensa che l'unico modo per farlo sia uccidere metà dei suoi abitanti. Thanos è spinto da motivazioni profonde, che ci vengono svelate a poco a poco attraverso dei flashback molto efficaci e, sopratutto, attraverso l'esplorazione dei suoi legami con altri personaggi, in particolare Gamora. Josh Brolin dona al suo Thanos in computer grafica una gravitas degna di un eroe tragico, rendendolo ancora più credibile e sfaccettato.
I fratelli Russo riescono anche nell'impresa di rendere giustizia a tutti i personaggi, evitando che alcuni finiscano per soffocare gli altri, e investendo il tempo necessario per costruire le loro relazioni, che finiscono per essere l'elemento più convincente del film. I rapporti pre-esistenti, come quello tra Tony Stark e Peter Parker, vengono ulteriormente approfonditi, mentre quelli di nuova formazione vengono sviluppati con il giusto bilanciamento tra humor e connessione emotiva, sfruttando i numerosi parallelismi che naturalmente esistono tra le biografie dei vari eroi. Quelli che più beneficiano di questo trattamento sono Thor, mai così carismatico, e Doctor Strange, molto più convincente qui che nel suo film solista, anche grazie a un Benedict Cumberbatch più a suo agio nella parte. A brillare su tutti, però, sono sempre Tony Stark e Peter Parker, che ci regalano anche una delle scene più emotivamente efficaci del film.
Il film scorre veloce, con alcuni cali di ritmo perdonabili perché finalizzati allo sviluppo dei personaggi . Le immagini sono spettacolari, con combattimenti finalmente fluidi, chiari e ben fruibili e ogni ambientazione dotata di una sua forte identità scenografica e cromatica, evitando quell'appiattimento visivo e coreografico che si era verificato in precedenti film corali. A voler trovare una pecca, alcune delle vicende narrate sono decisamente meno interessanti di altre, e avrebbero forse dovuto ottenere meno spazio, anziché essere misurate con il bilancino per garantire un minutaggio simile a tutti i grandi nomi presenti nel cast.
Tuttavia, questo è un difetto veniale per un film che, nonostante delle ambizioni tanto gargantuesche da sembrare destinato a rimanerne vittima, secondo l'adagio del "chi troppo vuole, nulla stringe", è invece perfettamente riuscito. Avengers: Infinity War intrattiene splendidamente per quasi tre ore, che volano veloci fino a un finale creativo e spiazzante (e giocoforza in sospeso, visto l'arrivo del secondo capitolo nel 2019) che rimarrà a lungo nelle menti degli spettatori. **** 1/2 Pier
Sin City è la città del peccato, dove la legge non esiste e vige la legge del più forte. In una notte che sembra eterna si incrociano storie e personaggi, che lasciano dietro di sè una scia di sangue. Incontriamo così Marv, in preda a un'ira così cocente da fargli accettare qualunque missione omicida; Dwight, ancora irretito da Ava, la Dea, una donna dal fascino così potente che può uccidere; Johnny, un fortunato e presuntuoso giocatore d'azzardo; e Nancy, spogliarellista decisa a vendicare la morte del suo angelo custode, il poliziotto John Hartigan.
Ci sono voluti nove anni perchè Frank Miller e Rober Rodriguez realizzassero il secondo capitolo della saga cinematografica tratta dai fumetti di Miller. L'attesa non è stata vana. Sin City 2 riparte dai punti forti del primo capitolo - il sontuoso bianco e nero, la scarnezza di dialoghi e l'abbondanza di monologhi interiori, il sapiente equilibrio tra la violenza delle azioni e la meravigliosa estetica delle immagini - e riesce a migliorarli e a esaltarli ulteriormente. Il 3D dona profondità e volume allo splendido bianco e nero, macchiato di tocchi di colore più vari e indovinati rispetto al primo capitolo. La storia scorre che è un piacere, alternando sapientemente humor nero, noir, pulp e tragedie di sapore quasi shakesperiano. Rodriguez e Miller dirigono con piglio e sicurezza un film che regalia momenti di pura estasi visiva fin dalle prime scene, in una resa filmica che migliora il fumetto e lo arricchisce.
La sceneggiatura è sostenuta da un cast in forma eccellente, dalla new entry Gordon-Levitt, adorabile ed eroico spaccone, al ritorno di Mickey Rourke, semplicemente perfetto nei panni del ruvido Marv. Quella che brilla più di tutti è però la donna per cui uccidere del titolo: Eva Green è una femme fatale da manuale, una vera Dea dotata di una bellezza quasi irreale, pari solo alla sua straordinaria bravura.
La fotografia è la punta di diamante del film, un pezzo di bravura che riesce a sposare le atmosfere fumose, sudate e torride dei noir con Humphrey Bogart al gusto pulp dei film di Tarantino.
Sin City 2 è un capolavoro nel suo genere, in grado di creare quel sapiente mix tra reale e surreale che è proprio del fumetto, e a tradurlo in un linguaggio cinematografico fresco ed efficace, in grado di intrattenere lo spettatore alternando momenti di divertimento a momenti di pura tensione. Da non perdere.