Cosa significa essere un artista? Questa la domanda al centro di A complete unknown, seconda opera di James Mangold dedicata a un grande cantante del passato, dopo il suo splendido racconto su Johnny Cash. Ma se Quando l'amore brucia l'anima era la classica storia di ascesa-caduta-rinascita, quella di Bob Dylan è una vicenda più complessa e sfuggente: una vicenda che inizia e finisce in medias res, uno sguardo a un periodo della vita di Dylan che al suo interno contiene moltitudini.
Che Dylan fosse un artista poliedrico e di fatto inafferrabile e incasellabile in una sola identità lo aveva già capito Todd Haynes in quel capolavoro che è Io non sono qui, dove Dylan era stato letteralmente moltiplicato in sei personaggi. Mangold sceglie una strada diversa, creando un film sullo sguardo e fatto di sguardi. Sono sempre gli altri, spettatori compresi, a definire cosa sia Dylan: giovane talento, impostore, poeta di una generazione, opportunista, paladino della musica folk, traditore della musica folk, tutto e niente. Il Dylan di Mangold è un vero "complete unknown", come la strofa di Like a rolling stone perfettamente sfruttata dal titolo: un essere in continuo divenire, multiforme e mutaforma, acqua che prende la forma del recipiente in cui viene versata. Ma l'acqua, si sa, da calma e placida sa farsi tempesta, inondazione, e travolgere senza pietà tutto ciò che trova sul suo cammino.
Dylan nel film ascolta, osserva, sorride enigmatico, ma parla pochissimo. Quando le fa, le sue parole sono spesso enigmatiche, quelle di una sfinge con chitarra che si muove nel mondo con il solo obiettivo di non fermarsi mai. A parlare è la sua musica, che domina la scena, la riempie, e sconvolge generazioni, generi, persone, in un fiume tracimante di emozioni incontrollabili, della sensazione che quelle parole parlino proprio a te, solo a te, in quel momento, e a nessun altro. Esemplari, in questo senso, sono le scene in cui Dylan canta The times they are-a changing (emozionate a dire poco) e It ain't me babe: ogni personaggio in ascolto sente e vive quelle canzoni in modo diverso, dando loro mille significati diversi, tutti giusti, tutti in parte sbagliati.
Mangold riesce a catturare perfettamente l'essenza delle composizioni di Dylan: generazionali, eppure private, perfettamente in linea con lo zeitgeist, eppure in grado di anticiparlo, di cambiarlo, di indicare una nuova strade che non sapevi nemmeno esistesse, cancellando e lanciando indietro tutte le strade precedenti. Meravigliose anche le sequenze in cui si cattura la natura mercuriale della creatività, sia in generale (l'attacco di organo di Al Kooper in Like a rolling stone, improvvisato e fondamentale) sia di Dylan in particolare (il ritrovamento del fischietto siren whistle che si sente all'inizio di Highway 61 revisited): in continua evoluzione, in continuo mutamento, con l'unica regola di non ripetersi, mai.
Dylan nel film incarna il cambiamento al punto da divenirne quasi una divinità in terra: creatore e distruttore, capace di oscurare il talento e rubare la scena a mostri sacri come Pete Seeger e Joan Baez, che lo usano senza rendersi conto che si stanno anche facendo usare. Un dio che tutto divora, ma che apre nuovi mondi, incarnato alla perfezione da un Timothée Chalamet che ha un vero e proprio talento per interpretare personaggi sfuggenti e inafferrabili, che sembrano a tratti onnipotenti, e a tratti tremendamente fragili, sul punto di rompersi inesorabilmente. Sarebbe tempo che si riconoscesse la sua versatilità, anziché fermarsi all'apparente similitudine di alcuni suoi personaggi che è, appunto, data solo dal loro essere indecifrabili, in continuo cambiamento: sfido qualunque detrattore a dire che Paul Atreides ricorda Bob Dylan o Willy Wonka. La sua capacità di imitare le voci di Dylan (a volte nasale, a volte raschiante; a volte melodica, a volte simile a un miagolio; a volte ben scandita, a volte quasi incomprensibile) è impressionante, e chiudendo gli occhi si ha spesso la sensazione di ascoltare l'originale.
Accanto a lui, Edward Norton offre una bellissima prova nel ruolo del (per una volta) "buono" Pete Seeger, e Monica Barbaro dà ottima voce al talento introverso di Joan Baez. Elle Fanning è il cuore emotivo del film, ed è con le sue reazioni e i suoi occhi che il pubblico finisce spesso per vedere Dylan: occhi che accettano che l'unico suo fattore distintivo è il non-essere, non-stare. "It ain't me, babe": non sono io, e questo è tutto ciò che saprai di me.
A complete unknown è un film sul cambiamento, sull'arte, sul trovare il proprio posto del mondo, sul dolore di crescere sulla doppia natura delle relazioni, legami che ci tengono a galla ma a volte impediscono di nuotare al largo. Mangold confeziona un film avvolgente, in cui la musica e le parole sono protagoniste e che, come una melodia, cambia continuamente direzione: culla, tramortisce, esalta, stordisce, è univerale e intimo, parla della vita e della Vita, ponendo tantissime domande senza dare risposte, e lasciandoci con la sensazione di conoscere davvero l'unico cantautore vincitore di un premio Nobel, e al tempo stesso di non conoscerlo affatto.
**** 1/2
Pier
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