domenica 2 marzo 2025

A Real Pain

Raccontare il dolore


Ci sono storie apparentemente semplici da raccontare ma che in realtà nascondono complessità infinite, non detti che si sono accumulati per anni, decenni fino a stratificarsi: due cugini molto legati si perdono di vista, e diventano persone molto diverse. Sembra semplice, vero? Questa è la storia al cuore di A Real Pain, ma dentro di essa si nascondo moltitudini, come scriveva Walt Whitman e cantava Bob Dylan. 

C'è il senso di inadeguatezza di entrambi, che però uno nasconde dentro di sé e l'altro esprime in ogni modo possibile, incapace di nasconderlo e anzi, desideroso di condividerlo, perché ritiene disumano nascondere il dolore che pervade il mondo. C'è un passato condiviso fatto di resilienza e sofferenza, quello della diaspora ebraica che i due protagonisti rivivono in un viaggio organizzato nei luoghi della memoria in Polonia, tra momenti divertenti e altri toccanti, compresa una visita al campo di concentramento in cui Eisenberg, alla sua opera seconda da regista, dimostra una sensibilità da autore consumato, riuscendo a filmare l'infilmabile, a raccontare il dolore senza farne spettacolo.

C'è, soprattutto, l'incomunicabilità del dolore, la gabbia di silenzio dentro cui ci rinchiudiamo pensando che il dolore sia e debba essere una cosa privata, da tenere dentro, quasi vergognandocene, quando in realtà è un'esperienza condivisa, universale, che tocca le vite di tutte, ed è proprio parlandone che possiamo esorcizzarlo e cominciare a guarire. In una società in cui condividere il dolore è taboo il personaggio di Benji, perennemente in contatto con le sue emozioni e senza paura di condividerle, è dirompente, nel senso letterale del termine: costringe tutti i partecipanti al viaggio a rompere i propri argini e a condividere, lasciarsi andare, mostrare le proprie vulnerabilità e accettarle.

Eisenberg, tuttavia, rifugge dalle semplificazioni, dimostrando anche qui una maturità insospettabile nel trattare materie complesse. Il finale non è risolutorio, i rapporti umani possono essere costruiti e ricuciti, ma servono tempo e sforzi per riempire un vuoto che continua a scavare e che non accenna a fermarsi. Se è solo nella condivisione che possiamo trovare salvezza, è anche vero che quella stessa condivisione può essere difficile, faticosa, e che è più comodo tornare alle nostre routine, al nostro isolamento emotivo.

La regia di Eisenberg è delicata, attenta ai personaggi e alle loro emozioni, ma si concede anche alcuni momenti di grande forza espressiva a livello visivo (il già citato momento nel campo di concentramento, ma anche le scene di Benji in aeroporto), elevando la sua regia al di sopra di una confezione pulita di una bella storia. Ottima e molto "woodyalleniana" la scelta della colonna sonora, costituita quasi esclusivamente da sonate di Chopin, perfetto contrappunto musicale alla malinconia che pervade il film.

La forza del film risiede però soprattutto nella sceneggiatura, mai banale anche nella scelta dei personaggi che partecipano al tour, e negli attori. Eisenberg stesso offre una bellissima prova: il suo David è un personaggio solo in apparenza "sistemato", ma in realtà estremamente fragile e isolato, nonostante una vita personale e affettiva soddisfacente. A brillare, tuttavia, è Kieran Culkin, un uragano che travolge tutto quello che trova davanti a sé. Il suo Benji fa ridere, piangere, irritare, compatire, e crea una connessione emotiva con lo spettatore che raramente si riesce a trovare al cinema. 

A Real Pain non è un film rivoluzionario ma è un film importante, una dramedy da manuale che è anche molto efficace nel parlare di tematiche sociali attuali e importanti come il crescente analfabetismo emotivo e l'importanza della memoria. Eisenberg riesce a coinvolgere lo spettatore attraverso una storia piccola ma potente che parla anche della Storia, e di come il dolore - individuale e collettivo - non vada soppresso o evitato, ma condiviso, sempre: perché dimenticare è facile, ma dietro la mancanza di memoria si nascondono mostri. 

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Pier

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