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sabato 1 marzo 2025

Conclave

Non c'è nulla di sacro


Il papa è morto, e i cardinali si riuniscono a Roma per eleggere il suo successore. A guidare il conclave il Decano britannico Thomas Lawrence.

Che il conclave - la riunione in cui i cardinali scelgono il nuovo papa - non fosse esattamente la sala dell'amore fraterno è cosa nota a chiunque segua gli affari vaticani. Che fosse materiale per un thriller, però, richiedeva una visione creativa e una grande abilità di gestire la tensione all'interno di quella che, di fatto, è la classica "camera chiusa" dei gialli (conclave deriva da "cum clave", che significa proprio "chiuso a chiave"). 

Robert Harris prima, con il suo romanzo, ed Edward Berger poi, con il suo adattamento, dimostrano che gli intrighi vaticani per l'elezione sono materiale degno di una spy story o di un thriller politico, con tanto di segreti rivelati, spie, informatori, e colpi di scena. La tensione è palpabile fin dal primo minuto, e non ci abbandona fino ai titoli di coda, riflessa negli occhi di Ralph Fiennes (strepitoso) che sa che tutto può andare a rotoli in qualunque momento. 

Se il pericolo più immediato e concreto è l'elezione di Tedesco, cardinale oscurantista interpretato da un Sergio Castellitto adorabilmente gigione, quello più spaventoso è la fine della fede, in Dio e negli uomini. Negli occhi di Fiennes c'è l'esitazione a farsi carico di un fardello spaventoso (tema già trattato con veggenza da Habemus Papam), ma anche una sfiducia generale su un'istituzione e sugli uomini che ne fanno parte: uomini spesso meschini, che mettono il desiderio di potere davanti al bene comune. 

La tensione non è data solo dai continui colpi di scena, ma dal progressivo disvelamento di una speranza di redenzione, sia individuale che collettiva: una speranza forse imperfetta, come l'umanità stessa, ma quantomeno capace di guardare fuori dalle stanze del potere, a un mondo flagellato da povertà e sofferenza, e in cerca di qualcosa in cui credere.

Berger realizza un film perfetto a livello di confezione - sia narrativa che visiva, alcune inquadrature sono dei quadri per perfezione della composizione. Paradossalmente, proprio in questa ricerca della perfezione formale sta anche il suo unico peccato mortale. Conclave è a volte troppo inquadrato, preso dalla sua struttura più che dalle sue vicende. Manca, in sintesi, di cuore e di coraggio nell'affrontare l'ambiguità: se al primo sopperisce un cast eccellente, che riesce a rendere tridimensionali dei personaggi altrimenti fin troppo "definiti", il secondo è il vero punto dolente. 

La narrazione restituisce una visione manichea che a tratti "imbocca" un po' troppo gli spettatori, dicendo loro cosa devono pensare, chi sono i buoni e chi sono i cattivi. Ma è proprio nei rari istanti in cui abbraccia l'ambiguità che Conclave si eleva e offre i suoi spunti migliori, facendo rimpiangere ancora di più la decisione di rifuggirla per la quasi totale durata di un film che risulta comunque efficace e capace di intrattenere.

*** 1/2

Pier

sabato 10 dicembre 2022

The Menu

Mangiare il capitalismo


Tyler, ricco amante del buon cibo, invita Margot ad accompagnarlo a Hawthorn, un ristorante stellato su un'isola privata che muore dalla voglia di provare. Lo chef, Slowik, lo gestisce con piglio autoritario, mettendo in tavola un menu misterioso che varia a ogni pasto e vive tanto del cibo quanto delle storie che racconta. Margot è meno entusiasta di Tyler, ma inizialmente si adegua alle stranezze. Tuttavia, portata dopo portata, il clima diviene sempre più surreale, e Margot si rende conto che quel luogo non è forse così paradisiaco. 

Sembra strano usare l'aggettivo "marxista" per definire un film nel 2022: eppure è difficile pensare a una definizione più appropriata per The Menu, film che sfugge a una facile classificazione di genere ma che ha la sua cifra distintiva in un violento spirito anticapitalista. Il film è infatti una satira violenta della mercificazione di ogni cosa imposta dall'ideale neoliberista ormai dominante. L'alta cucina, uno dei settori simbolo dell'iniquità economica della nostra società, diviene quindi la metafora di un intero sistema: e il regista Mark Mylod, alla prima prova di livello dopo una carriera piuttosto anonima sul grande schermo (ma di maggior successo in TV, dove ha diretto, tra gli altri, svariati episodi di Succession), si diverte a vivisezionarlo, facendolo letteralmente a pezzi. 

La sua furia non risparmia nessuno: gli ultraricchi, certo, quell'1% della popolazione che ignora o, più spesso, decide di ignorare il proprio privilegio e dà per scontato che gli altri siano al proprio servizio; ma anche coloro che, da membri delle classi lavoratrici (il proletariato, per continuare l'uso di termini marxisti), scelgono di prostituire il loro lavoro al servizio dei peggiori appetiti - è proprio il caso di dirlo - del capitale. Mylod ha un messaggio chiaro in testa, e non si fa scrupolo di utilizzare la grammatica di diversi generi per farlo arrivare a destinazione. Qui sta l'originalità di The Menu, il suo tratto più distintivo: nella capacità di muoversi senza soluzione di continuità tra satira sociale, thriller, dramma, e persino horror, alternando risate e riflessioni con momenti di panico e tensione. 

Questi ingredienti sono mescolati in modo apparentemente casuale e non sempre si amalgamano alla perfezione, risultando in un ritmo diseguale nelle varie parti del film. Quando lo fanno, però, il risultato è un'esplosione di sapori, un oggetto cinematografico non identificato che scombussola, sballotta e intrattiene senza rinunciare ad avere un messaggio. Alcune soluzioni sono artificiose, è vero, e a volte il copione sembra urlarci ciò che ha da dire anziché trasmetterlo con sottigliezza. Sono però dettagli veniali in un meccanismo ad altissimo rischio di implosione e che invece funziona come un orologio svizzero, trascinando lo spettatore in una cena degli orrori dove i piatti sono gironi danteschi, con tanto di pena del contrappasso per gli avventori, che da carnefici si trovano a essere, per una volta, vittime.

Ralph Fiennes è strepitoso nei panni dello chef che, divorato dai sensi di colpa, si fa capo della rivoluzione, e Chau Hong e Nicholas Hoult offrono ottime prove come l'assistente "fedele alla linea" e il cliente apparentemente più "presentabile" - apparentemente, appunto. Il vero motore e cuore del film è però Anya Taylor-Joy, il cui sarcasmo e scetticismo per le inutili sofisticherie del ristorante si trasformano gradualmente in una furia contagiosa, capace di farsi strada nel cuore della storia e dello spettatore, facendolo esultare nella piccola, grande catarsi del finale.

The Menu è un film che, in altri tempi, si sarebbe definito programmatico, e che oggi ci limiteremo a definire puntuale, un ritratto degli aspetti orribili della società contemporanea che ci costringe a renderci conto che ciò che vediamo non è un riflesso distorto, ma l'amara realtà. Vero, fa un po' troppa confusione nella preparazione, e la cucina non è proprio pulitissima: ma il risultato è comunque un piatto sofisticato, complesso ma gustosissimo, che soddisfa palato e stomaco.

****

Pier

venerdì 1 ottobre 2021

007 - No Time do Die

Licenza di chiudere


James Bond si è ritirato dal servizio attivo, e si gode la pensione con Madeleine Swann, conosciuta durante gli eventi di Spectre. Tuttavia, il passato di entrambi nasconde ancora segreti, e tornerà a tormentarli, costringendo Bond a tornare in servizio.

Fin da Casino royale, tutta l'esperienza di Daniel Craig come 007 è stata segnata dal tentativo di rinnovare il personaggio, sia a livello caratteriale che narrativo. La stessa scelta di Craig - un Bond grezzo, muscolare, ruvido - andava in quella direzione. Attraverso cinque film, autori e registi diversi hanno condiviso l'obiettivo di creare un universo narrativo coerente, con un arco psicologico del protagonista che si dipana su più film, personaggi ricorrenti, filoni di trama che continuano e si risolvono nel film successivo. No time to die aveva l'ingrato compito di tirare le fila, agendo quasi da Avengers: Endgame di questo ciclo di Bond, e al tempo stesso di continuare questo processo di rinnovamento.

E le novità, indubbiamente, non mancano: l'approccio narrativo è focalizzato sui personaggi più che sulla missione, al punto che questa sembra spesso secondaria rispetto al percorso. Qui si notano le prime differenze con Skyfall (ma anche con Casino royale), che invece era riuscito a mantenere maggiormente in equilibrio le due anime del film - quella dei Bond classici, fatti di avventure rocambolesche e coolness, e quella del ciclo di Craig, focalizzata sui rovelli interiori del protagonista. 

L'impalcatura regge solo grazie a una sceneggiatura con ottimi dialoghi (in alcuni è evidente la mano di Phoebe Wallers-Bridge, chiamata a "svecchiare" alcuni aspetti della sceneggiatura originale) e a una regia solida da parte di Fukunaga, che dimostra ottima mano per l'action, muovendosi con maestria tra i momenti più realistici e quelli più fumettistici, e regalando alcune sequenze memorabili come quella a Matera e una scazzottata in piano sequenza degna di quella di Atomica Bionda. A brillare meno del solito sono i set, abbastanza anonimi e derivativi, nonostante alcuni di essi offrissero grandi possibilità creative ed espressive (ad esempio, il giardino di Safin). 
E deludono abbastanza anche i villain -  non come interpretazione, ma come caratterizzazione e centralità nella trama: Rami Malek offre un'interpretazione convincente, che ricorda quelle dei "mostri" del cinema muto, ma il suo Safin manca di spessore drammatico e motivazioni convincenti; e il Blofeld di Waltz è, ancora una volta, sprecato malamente (anche se, paradossalmente, meno che in Spectre).

Il cast è azzeccato e in ottima forma, con un'unica eccezione: una Léa Seydoux in modalità Corinna Negri, incapace di comunicare efficacemente qualunque emozione e continuamente oscurata da chiunque le venga messo a fianco in scena, attrici bambine comprese: il confronto con il precedente interesse amoroso di Bond (la Vesper Lynd/Eva Green di Casino royale) è impietoso. 
La sua prestazione pedestre, per fortuna, non frustra l'ottima prova di Daniel Craig, che incarna alla perfezione questo Bond malinconico e dolente, e di tutto il cast di supporto: accanto ai come sempre ottimi Ralph Fiennes (M), Ben Whishaw (Q) e Naomie Harris (Moneypenny), a questo giro si distingue Ana de Armas, splendida per ironia e presenza scenica nei panni dell'inesperta (?) agente CIA. Una prova, la sua, che accresce ulteriormente il rammarico per aver affidato la parte della protagonista a un'attrice così inconsistente. Buona anche la prova di Lashana Lynch, una 007 (ebbene sì) convincente, anche se forse lasciata un po' troppo ai margini.

Nonostante qualche inciampo narrativo e una spettacolarità inferiore alle attese, il film avvince e convince negli elementi chiave, i colpi di scena, dotati di un notevole impatto emotivo e capaci di capovolgere di continuo le attese dello spettatore fino all'ultimo minuto di film, e di farlo in  modo soddisfacente. 
Sembra facile, ma non lo era affatto, considerando sia la storia produttiva del film, sia l'enorme bagaglio di aspettative che si portava dietro. No time to die doveva stupire, ma anche guardare al passato; tirare le fila, ma al tempo stesso raccontare una storia a se stante. Ci riesce? La risposta è sì: forse non in maniera memorabile, ma senza dubbio in maniera efficace, rendendo onore a un'era di Bond che, nel bene e nel male, ha avuto il coraggio di cambiare l'immagine di un'icona: in tempi in cui si sta spremendo fino all'estremo l'effetto nostalgia, non è poco.

***

Pier

domenica 13 aprile 2014

Grand Budapest Hotel

Quando la favola sconfigge la decadenza



Monsieur Gustave è il concierge del Grand Budapest Hotel, un hotel di lusso in mezzo all'Europa. E' il migliore nel suo lavoro, che esegue con grande perizia e attenzione, e gode per questo della stima e della fiducia dei suoi facoltosi ospiti, soprattutto di quelli anziani e di sesso femminile. Quando una di esse, Madame D., passa a miglior vita in circostanze misteriose, egli eredita un prezioso dipinto, scatenando le ire della famiglia della facoltosa nobildonna. Successivamente accusato di omicidio, Monsieur Gustave si imbarcherà in una rocambolesca fuga per dimostrare la sua innocenza accompagnato dal suo fedele lobby boy Zero, mentre l'ombra del conflitto mondiale si allunga sull'Europa.

Sono pochi i registi che riescono ad avere uno stile immediatamente riconoscibile senza risultare ripetitivi e sempre uguali a se stessi. L'esercizio richiede abilità, inventiva, ma soprattutto la capacità di cambiare sempre generi e stilemi narrativi, applicando la propria estetica di volta in volta a tematiche e ambientazioni differenti. Wes Anderson è uno di questi registi, un maestro di stile ed estetica, senza eguali nella sua capacità di narrare visivamente una storia, utilizzando le immagini come strumento narrativo ed espressivo. Le immagini dei suoi film non svolgono mai una funzione meramente estetica, ma raccontano storie, personaggi e situazioni, con una forza e una capacità evocativa impareggiate nel cinema contemporaneo. Grand Budapest Hotel porta l'impronta di Wes Anderson in ogni elemento della scenografia, dei costumi, in ogni inquadratura o scelta musicale, applicandola però a un genere nuovo per il regista statunitense, una favola dalle forti connotazioni comiche e, a volte, grottesche.

L'arte del narrare è al centro del racconto, con ogni storia che viene raccontata dal protagonista di un'altra, in un gioco di scatole cinesi che esalta il contenuto emotivo e affettivo della storia, in un omaggio esplicito ed implicito ai libri di Stefan Zweig e al cinema di Lubitsch e Billy Wilder. Wes Anderson mette in scena una favola che dipinge l'eleganza e la classe degli hotel di una volta, dove tutto è perfetto e nulla è fuori posto, metafora di un'Europa splendente ma destinata per via della guerra a diventare una fatiscente rovina, memoria di un tempo glorioso che non sembra destinato a tornare. La storia di Monsieur Gustave e del suo delizioso lobby boy è quella di un lento disfacimento, in cui il razzismo e confini arbitrari diventano legacci cui sembra impossibile sfuggire. La libertà, tuttavia, è a portata di mano per chi ha spirito d'iniziativa e fantasia: i nostri eroi sperimenteranno rocambolesche fughe di prigione, amori romantici e contrastati, e continui tentativi di omicidio, alleati nella loro missione da alleanze di concierge quasi onnipotenti, amanti intraprendenti e una notevole faccia tosta, il tutto spruzzato di quel tanto di profumo necessario a fare buona figura in società.

Il film ha un gran ritmo e regala momenti di esilarante comicità verbale e visiva, sorretta da scenografia e fotografie superbe. A queste si accompagna un cast stellare, in cui spiccano lo strepitoso Ralph Fiennes, personificazione dello stile e del nobile contegno, il villain vampiresco di Adrien Brody, e l'esordiente Tony Revolori, la cui comicità a metà tra Buster Keaton e Charlie Chaplin lo rende un personaggio comico e drammatico al tempo stesso, che finisce per rappresentare tutti i popoli perseguitati della storia d'Europa.

Grand Budapest Hotel è un film delizioso, in cui il talento visivo di Wes Anderson racconta una storia che, in apparenza banale, rivela via via la sua profondità e i suoi diversi significati, offrendo tanti spunti interpretativi quanti sono i suoi piani narrativi, in un rocambolesco gioco di incastri e di rimandi che estasia gli occhi e alleggerisce il cuore.

****1/2

Pier

sabato 10 novembre 2012

007 - Skyfall

Uno 007 intimista



Bond è in missione a Istanbul per recuperare un file contenente la lista degli agenti britannici sotto copertura. Mentre insegue il killer che ha in mano il documento, Bond viene colpito da un proiettile sparato da una sua collega su ordine di M., disposta a tutto pur di riprendere il file. Il killer riesce ad involarsi con la lista, mentre l'agente 007 viene dichiarato morto. La sua scomparsa e il furto della lista daranno vita a una lunga serie di eventi, che porteranno Bond, M. e i servizi segreti a dover fare i conti con il proprio passato e con un nemico invisibile e terribile.

Skyfall completa idealmente la trasformazione del personaggio di Bond avviata con Casino Royale. Il Bond sofferto e tormentato di Daniel Craig trova la sua conclusione e il suo nuovo inizio nel melodramma spionistico orchestrato da Sam Mendes, in cui i sentimenti e le relazioni tra i personaggi non sono un semplice approfondimento, ma il vero motore della storia. Mendes disegna un film con un basso contenuto d'azione, concentrato in poche scene fotografate magistralmente (il combattimento a Shanghai su tutti), e si concentra sulla storia di M., Bond e del loro nuovo nemico, intersecandola con quella di un'intelligence che sembra non essere più al passo dei tempi e di un mondo in cui i nemici sono sempre più invisibili.
Il risultato è un action movie intimista, un apparente ossimoro che trae la sua forza proprio dalla capacità di riconciliare elementi provenienti da generi distanti anni luce.

La sceneggiatura si esalta nei dialoghi, ricchi di ironia british e di parole non dette, in cui prevalgono le dimensioni umane dei personaggi rispetto a quelle professionali. La trama è però piena di difetti, con un villain eccezionale (tra i migliori della storia di Bond) mosso da motivazioni quantomeno risibili, una serie di buchi di sceneggiatura che non possono esistere all'interno di un film di spionaggio, e una certa incostanza nella gestione del ritmo, che risulta eccessivamente rallentato in più di un passaggio. Il finale, ambientato in una campagna scozzese che riflette il tormento e l'incertezza dei personaggi, è di grande tensione emotiva ma di basso impatto spettacolare.
Mendes arricchisce il film di citazioni non casuali, dalle origini di Bond (scozzese, come Sean Connery) al ritorno della storica Aston Martin dei primi film, simbolo di un'epoca ormai finita con la quale è ora necessario chiudere i conti. Proprio il confronto con il passato è il tema centrale del film, che porta tutti i personaggi a un punto di svolta che chiuderà i loro conti in sospeso e segnerà l'inizio di un nuovo capitolo.
Il risultato è un film che è più simile alla serie TV con protagonista John Smiley/Alec Guinnes (da cui è stato recentemente tratto  Tinker, Taylor, Soldier, Spy) che a un classico 007, con l'elemento riflessivo e di indagine dello spionaggio che prende il sopravvento su quello d'azione.

Il cast offre un'ottima prova, capitanato da un Bardem sempre più a suo agio nel ruolo del cattivo psicopatico e da un Daniel Craig intenso, che sembra trovare la sua dimensione migliore quando smette l'abito elegante per fare i conti con il suo passato. Tra le nuove reclute dell' MI6, accanto a una sempre perfetta Judi Dench, spicca Ben Whishaw, che "trasporta" il personaggio di Q ai giorni nostri, trasformandolo in un geek informatico con scarso amore per i fantasiosi gadget del passato.

Skyfall è un Bond a basso contenuto spettacolare, ma rappresenta una degna conclusione a quel processo di umanizzazione di 007 che aveva caratterizzato gli ultimi film. Rimane il rammarico per una storyline risicata e piena di buchi, ma il film è comunque godibile grazie alle prestazioni degli attori e alla regia di Mendes, il quale ci regala un Bond messo a nudo come mai era accaduto prima, che lascia ben sperare per i capitoli successivi.

*** 1/2

Pier

sabato 16 luglio 2011

Harry Potter e i Doni della Morte - Parte 2

Esecuzione senza interpretazione



Harry Potter è quasi giunto alla resa dei conti: Voldemort è sempre più forte, e lo scontro finale è vicino. Prima però dovrà individuare e distruggere gli ultimi Horcrux, oltre che chiarire alcuni misteri sul suo passato, quello di Silente e di Voldemort stesso.

L'ultimo capitolo della saga riparte con gli stessi toni del penultimo: atmosfere cupe, colori quasi assenti, fotografia che esalta ed esaspera i toni di grigio. La speranza non sembra essere di casa, ma è anche l'ultima a morire. Il percorso di trasformazione di Harry da apprendista a mago, da ragazzo a uomo, sta per compiersi, e i temi sono quelli delle grandi tragedie: tradimenti, intrighi, scelte sofferte, sacrifici per il bene comune.
La trama si svolge esattamente come nel libro, con una fedeltà quasi assoluta a quanto scritto dalla Rowling. Anche i punti deboli del film, concentrati in particolare in due scene del finale, derivano per intero dal testo, e non si può certo farne una colpa al regista David Yates, che confeziona un blockbuster di buona fattura, che lascia il giusto spazio all'intrattenimento e all'azione.

Quello che gli si può invece rimproverare, a lui ma soprattutto alla produzione, è la totale incapacità di osare, di staccarsi dal modello originale non nei contenuti ma nelle atmosfere, creando un Harry Potter fedele ma allo stesso tempo nuovo e vitale.
Ci era riuscito alla perfezione Cuaròn nel terzo film, Il prigioniero di Azkaban, in questo senso il migliore della saga, ma lo avevano fatto in modo efficace anche Chris Columbus, il vero inventore dell'universo visivo del maghetto, e Mike Newell, che aveva conferito al quarto capitolo un tono da commedia brillante che lo aveva arricchito di una dimensione fino a quel momento pressoché inesplorata.

Yates invece si limita ad eseguire e, pur facendolo con un'ottima tecnica, non aggiunge nulla al testo originale, rinunciando a un'operazione fondamentale per qualunque regista che si approcci a un testo letterario per farne un film. Questa mancanza di interpretazione e questa rinuncia nel trovare nuove chiavi di lettura diventano particolarmente evidenti nell'ultimo capitolo, quello del gran finale, quello in cui vengono tirate le somme di una saga che ha segnato gli ultimi dieci anni. E il risultato è piatto, scarno, monodimensionale, in cui bene e male restano sempre distinti e contrapposti, e in cui le atmosfere e le opportunità offerte dal mondo magico della Rowling non vengono esplorate ma appena sfiorate in superficie.

Il film è avvincente e soddisfa i fan, ma resta il rammarico nel pensare cosa sarebbe potuto essere di questo ultimo capitolo se si fosse affidata la materia prima della Rowling a un artista anzichè a un onesto artigiano.

***

Pier

domenica 21 novembre 2010

Harry Potter e i doni della morte - Parte 1

Dark con humour



Con la morte di Silente, il potere di Voldemort cresce sempre di più. Harry riesce a sfuggire a ben due agguati e, accompagnato solo da Ron ed Hermione, si mette alla ricerca degli horcrux, oggetti in cui Voldemort ha nascosto parte della sua anima. Durante la ricerca, i tre si imbattono a più riprese nella leggenda dei doni della morte, che sembra nascondere un fondo di verità e potrebbe giocare un ruolo nella sfida contro i maghi oscuri.

Il penultimo capitolo di Harry Potter, a dispetto dei trailer, non è affatto il più dark: il Prigioniero di Azkaban (ad oggi probabilmente il migliore della saga) aveva toni molto più cupi, senza alcun momento di speranza e nessuna prospettiva per i protagonisti. La prima parte de I doni della morte, invece, alterna momenti di commozione e tristezza a momenti di humour di ottima qualità, avvicinandosi più ai classici della commedia nera britannica che a un fantasy. Il risultato è un film molto interessante e non banale, in cui la vicenda "magica" non fa perdere di vista le emozioni e l'evoluzione caratteriale dei protagonisti, che si trovano per la prima volta a dover affrontare la vita da soli.

La fotografia è a tinte fosche e cupe, tendenti al grigio, ma la tensione è come detto spesso stemperata da una sceneggiatura di ottima fattura, agevolata anche dalla scelta (azzeccata) di dividere l'ultimo capitolo in due episodi. Questo permette al film di concentrarsi sui protagonisti e non solo sui momenti di azione e gli inseguimenti, facendo risaltare le prove dei giovani attori, e in particolare di Ron-Rupert Grint il quale, se deciderà di continuare a recitare, promette di diventare un attore eccellente. Il cast di contorno funziona perfettamente, ma sarebbe difficile aspettarsi altro visti i nomi coinvolti.
Yates, dopo l'esordio poco convincente de L'ordine della fenice, sembra aver preso in mano con decisione le redini della saga. Il ritmo è alto, e per una volta anche chi non ha letto il libro innumerevoli volte riesce a seguire la vicenda. La regia supporta e combina con successo tutti gli elementi sopracitati, creando un film che si candida seriamente ad essere uno dei migliori blockbuster prodotti negli ultimi anni.

***1/2

Pier