Potete trovare qui la prima parte.
Dopo "La ragazza con la valigia", Zurlini riuscì finalmente a convincere Pratolini a portare sullo schermo "Cronaca familiare" (1962) con Mastroianni e Jacques Perrin. Il film vinse il Leone d'Oro a Venezia, ex aequo con "L'infanzia di Ivan" di Andrej Tarkovskij, chiudendo in questo modo in soli tre anni un trittico di film straordinari, tutti nati nel rispetto di un consiglio impartitogli all'esordio dalla ditta Benvenuti&De Bernardi. I due sceneggiatori avevano fatto capire a Zurlini che i personaggi di un film devono essere autentici, perché soltanto partendo dalle loro speranze e dalle loro angosce può nascere una storia credibile. Egli recepì appieno questo insegnamento, costruendo i suoi futuri film con uno sguardo sensibile e delicato sulle emozioni dei protagonisti.
Aveva appena trentasei anni, ma era lo Zurlini migliore; in seguito non avrebbe più saputo raggiungere questi livelli di rendimento e di continuità. Dal cinema prese le distanze, o meglio fu il cinema a prenderle da lui. Negli anni successivi realizzò soltanto due opere minori per la sua filmografia: "Le soldatesse" nel 1965 e "Seduto alla sua destra" nel 1968, ispirato alla vita del leader congolese Lumumba. Quest'ultimo ebbe gestazione tortuosa: nato per essere uno dei cortometraggi - gli altri sarebbero stati di Pasolini, Lizzani e Bertolucci - del progetto Vangelo '70, una sorta di rilettura dei testi sacri in chiave moderna da presentare al Festival di Berlino e uscito poi col titolo "Amore e rabbia", divenne invece un lungometraggio a se stante.
In questi anni Zurlini viveva una crisi creativa a causa delle sue inquietudini e metteva più passione e curiosità nei progetti che non riusciva a realizzare che in quelli che diventarono film. Gliene furono cari tre in particolare, dei quali sono rimaste le sceneggiature con le sue annotazioni e le sue ambizioni: "La zattera della medusa", su un gruppo di intellettuali americani nella Roma della Dolce Vita, ispirato a incontri della giovinezza; "Verso Damasco", un progetto a cui lavorò con Giorgio Albertazzi e Luigi Vanzi, tratto dal racconto "L'inchiesta" di Flaiano e Suso Cecchi d'Amico, in cui s'immagina l'arrivo di un magistrato romano in Galilea per indagare sulla scomparsa di Cristo; "Il sole nero", un soggetto ispirato alla vicenda del "boia di Albenga" Luciano Luberti, già fascista macchiatosi di sevizie contro i partigiani, accusato nel 1970 di aver ucciso la propria amante e di averne tenuto il cadavere in casa per alcuni mesi. Zurlini immaginò un confronto tra quest'uomo e un giovane giornalista depresso e vacillante nella fede cristiana, con un conseguente reciproco plagio tra i due. Un film sul tema del perdono con echi dostoevskijani, che nessun produttore era disposto a finanziare, e un protagonista di sgradevole e abietta autenticità al quale nessun attore era disposto a dare un volto.
Zurlini ne ricavò un giudizio molto negativo sul cinema italiano, convincendosi forse non a torto che la volontà di borghese quieto vivere e la paura di sfide e innovazioni lo stessero facendo scivolare in una sonnolenza pericolosa e irreversibile e che gli attori volessero conservare un'immagine casalinga e rassicurante, evitando ogni interpretazione che potesse alterarla. Questa delusione contribuì a far sentire Zurlini un regista fuori dal sistema e a spingerlo ad isolarsi sempre di più.
Nel 1976, ad appena cinquant'anni, girò il suo ultimo film, "Il deserto dei tartari", grazie all'impegno dell'amico Jacques Perrin (che fu anche il protagonista nei panni del tenente Drogo) nel reperire i finanziamenti necessari per un'opera tanto dispendiosa da aver già fatto desistere Antonioni dal portarla sullo schermo. Il film, con un cast stellare che includeva, oltre a Perrin, Vittorio Gassman, Philippe Noiret, Max von Sydow e Jean-Luis Trintignant. Gli valse il Nastro d'Argento e il David di Donatello e fu molto apprezzato dalla critica.
Il vero testamento di Zurlini è però il penultimo film, "La prima notte di quiete", girato nel
Era molto esigente, tanto è vero che i film realizzati, soltanto otto, furono meno di quelli rimastigli nel cassetto. Sopra la media per sensibilità e cultura, letteraria e artistica, pretendeva di tradurre in immagini l'animo umano e i suoi sentimenti. Quando gli riusciva, il film risultava più adatto a un pubblico di nicchia che di massa. Quando non gli riusciva, se ne crucciava, come nel caso de "La prima notte di quiete", che considerava il suo film meno riuscito perché a suo giudizio Delon non possedeva nel privato la profonda gentilezza e l'inguaribile malinconia del personaggio. La cosa gli fece apparire l'intero lavoro come un falso e disse di aver provato la sofferenza e l'amarezza di un padre che scopre una vocazione di criminale in un figlio molto amato. Ma forse la verità è che detestava quel figlio proprio perché era venuto fuori a sua immagine e somiglianza, obbligandolo, ogni volta che lo guardava, a vederne riflessi come su uno specchio le illusioni del passato e le delusioni del presente che lo tormentarono per tutta la vita.
Se ad inizio carriera l'incomprensione con Ponti lo aveva spinto in un limbo suo malgrado, in quello stesso limbo egli si gettò di nuovo spontaneamente nel giro di pochi anni. Questo non gl'impedì di fare film, anzi glieli rese più belli, perché il miglior Zurlini è stato quello impegnato a raccontare Zurlini stesso dandogli un'altra veste: ora quella di un adolescente confuso, ora quella di una ragazza giovane ma già delusa dalla vita, ora quella di un professore d'italiano fiero e decadente. Dietro ciascuno di questi personaggi faceva capolino un aspetto del loro creatore e ad accomunarli vi era sempre un senso d'inquietudine profonda. Ecco allora assimilata la lezione di Benvenuti&De Bernardi, ma in modo estremamente personale. I film di Zurlini, per lo meno quelli più riusciti, sono nati tutti dai personaggi. Ma dietro quei personaggi vi era sempre lui, costretto a confrontarsi con il brutto di una quotidianità fatta di rimpianti e occasioni perdute. Per questo ha passato la vita a cercare rifugio nel bello della letteratura e dell'arte, sempre immerso in una solitudine che, oggi che non c'è più, si è trasformata nella causa del suo immeritato oblio.
Giovanni
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