giovedì 22 settembre 2022

Don't Worry Darling

C'è del marcio negli Anni Cinquanta


Anni Cinquanta. Alice e Jack vivono nella comunità di Victory, una città aziendale sperimentale che ospita gli uomini che lavorano al progetto top-secret omonimo e le loro famiglie. Mentre i mariti trascorrono ogni giorno all’interno del quartier generale del Victory Project, le loro mogli trascorrono il loro tempo godendosi la bellezza, il lusso e la dissolutezza della loro comunità. La vita è perfetta, con tutti i bisogni dei residenti soddisfatti dall’azienda. Ma è davvero così? 

Dopo l’ottimo esordio di Booksmart (tradotto in italiano con l'orrido La rivincita delle sfigate), Olivia Wilde torna alla regia con un film del tutto diverso, un’utopia anni Cinquanta dove qualcosa è fuori posto. Uno dei problemi del film è che questo “qualcosa” si intuisce quasi subito: fin dall’inizio, infatti, una sensazione di “sbagliato” pervade lo spettatore, che è quindi privato del brivido della scoperta che un’opera di questo genere dovrebbe offrire. 

Wilde si muove tra thriller e horror con un grande talento per la costruzione delle immagini: molte soluzioni (ahinoi spesso già rivelate nel trailer) sono di fortissimo impatto e mai fini a se stesse, e servono da perfetto accompagnamento alla crescente angoscia di Alice man mano che si addentra nella tana del bianconiglio. La metafora anti-patriarcato è ben riuscita e non pesante, e la Wilde cuce il film con un buon ritmo, avvalendosi di una buona sceneggiatura e di ottime prove degli attori, Florence Pugh su tutti. 

Pugh è infatti il cuore pulsante del film, solare all’inizio, sempre più rabbiosa con il proseguire dei minuti: è la sua energia quasi animalesca a spingere il film in avanti, facendoci sorvolare su alcuni buchi di trama e generando quella sospensione dell’incredulità che è fondamentale in pellicole come questa. Accanto a lei, Styles offre una buona prova, e la stessa Wilde è convincente nei panni della migliore amica di Alice. Tuttavia, il film ripete tanti, troppi temi già visti (da Matrix a La fabbrica delle mogli, passando per classici del thriller psicologico come Shutter Island) e risulta quindi poco originale. L’intuibilità del colpo di scena deriva anche da qui – da una mancanza di quello scarto creativo che poteva riuscire a stupire il pubblico più esperto, che invece intuisce quasi tutto fin da subito. 

Don’t worry darling è un’opera seconda ambiziosa, non del tutto riuscita ma comunque coraggiosa nel suo voler esplorare territori completamente diversi rispetto a Booksmart, ma al tempo stesso mantenere un’impronta tematica riconoscibile. Wilde dimostra di essere regista con visione e voglia di prendersi dei rischi: e questo, in un’industria sempre più appiattita sul già visto e su standard “sicuri”, è un merito non da poco.

***

Pier


Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

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