martedì 12 luglio 2022

Elvis

Assistere alla rivoluzione


Stati Uniti, 1955. Il "Colonnello" Parker vede esibirsi per la prima volta un giovane di Memphis, Elvis Aaron Presley, e ne intuisce il rivoluzionario potenziale. È l'inizio di un sodalizio che porterà Elvis al successo, ma anche a un'eterna insoddisfazione e infelicità, mentre Parker pensa più ai suoi interessi che alla felicità del suo assistito.

È sempre difficile raccontare una rivoluzione culturale e artistica a chi non l'ha vissuta: certe cose che allora erano innovative ora vengono date per scontate, o addirittura sono diventate il linguaggio comune con cui ogni artista si esprime. È questo il caso di Elvis Presley, inventore de facto del rock and roll e, quindi, di tutta la musica leggera moderna e contemporanea: un rivoluzionario "per ricombinazione", che attingendo alle sue radici (bianco cresciuto in un quartiere nero) ha creato una miscela esplosiva tra country, blues e gospel che ha cambiato la storia della musica. 
È sempre difficile raccontare una rivoluzione culturale e artistica a chi non l'ha vissuta, e il motivo non sta tanto nella spiegazione: quella è facile. La difficoltà sta nel trasmettere l'energia, lo stupore, la sensazione vibrante, quasi palpabile di trovarsi davanti a qualcosa di mai visto prima - le emozioni provate da chi davvero lo vedeva per la prima volta, mentre lo si sta raccontando a chi lo ha già visto, rivisto, rielaborato e assorbito. 

È difficile, dunque, difficilissimo: ma Baz Luhrmann ci riesce alla grande, grazie a un uso del mezzo cinematografico magnifico, che fonde alla perfezione musica, immagini e interpretazioni. Da grande intrattenitore, Luhrmann riesce a catturare l'energia pura, grezza e travolgente del primo Elvis: la prima parte del film è un'iniezione di adrenalina, una folgore di emozioni che parte a 1000 all'ora e non si ferma mai a tirare il fiato. Una prima parte fatta di urla, sudore, ancheggiamenti, delirio, paure, gioia, bellezza stordente, malvagità abissali: una prima parte che trasuda, espira, esala rock and roll. Il montaggio frenetico di Luhrmann si accompagna a una cura del sonoro maniacale, in cui le musiche di Elvis e dei suoi modelli e ispirazioni si incontrano, si mescolano, si deformano, in un tappeto sonoro che acquisisce una potenza evocativa soprannaturale, sciamanica, e trasporta lo spettatore lì sotto il palco, a vedere la rivoluzione manifestarsi davanti ai suoi occhi.

Vincente, in tal senso, la scelta di raccontare il film dalla prospettiva del "Colonnello" Parker, lo storico manager di Elvis: il suo stupore, la sua sensazione di essere di fronte a un momento epocale viene perfettamente trasmesso al pubblico, così come il suo istinto predatorio, come una tigre che scopre un nuovo cibo in grado di sostentarla in eterno. Il pubblico vede Elvis e vorrebbe urlargli di scappare, ma non può farlo: non resta che farsi travolgere - come Elvis, come il suo pubblico - da un turbinio di note, immagini ed emozioni che sono il marchio di fabbrica di Luhrmann, ciò che ha fatto grande Moulin Rouge! e ciò che è del tutto mancato al suo fallimentare Grande Gatsby


Nella seconda parte il film rallenta, e non potrebbe essere altrimenti, e non solo per risparmiare le coronarie dello spettatore: a rallentare è la vita di Elvis, che si avvolge su se stessa e lo intrappola in un labirinto dalle pareti dorate, da cui riesce occasionalmente a riemergere con guizzi creativi, come un pesce che salta fuori dall'acqua, prima di essere ricatturato dalle reti del subdolo Parker. Vediamo l'energia pura e cristallina di Elvis sparire lentamente, la sua vitalità spegnersi, mentre Parker, come un grasso ragno, succhia la sua linfa vitale senza ucciderlo, spremendo fino all'ultima goccia di quella rivoluzione in forma umana. Luhrmann qui abbandona quasi in toto i suoi guizzi visivi e si affida alla forza dirompente del dramma umano, concedendosi qualche (riuscitissimo) arzizogolo solo in occasione delle esibizioni musicali, con il tocco di classe del finale, in cui l'Elvis cinematografico e quello reale si alternano fino a confondersi, con il pubblico che non sa più chi sia a cantare alla perfezione quella meravigliosa, dolente versione di Unchained Melody, ma sa che gli sta straziando il cuore.

Luhrmann mette al centro di tutto la performance di Austin Butler, e fa centro. Butler offre una performance indimenticabile, e diventa Elvis, in tutte le sue sfaccettature: dolce, capriccioso, irraggiungibile, bisognoso di affetto, fragile, carismatico, rivoluzionario, svuotato. Si mangia la scena ogni secondo in cui si esibisce, e genera nel pubblico quel senso di fascinazione e idolatria che il vero Elvis suscitava nei fan. Al suo fianco, uno dei villain migliori visti su schermo da molti anni, un "Colonnello" Parker che è l'apoteosi del viscidume e della manipolazione, un genio del male la cui pericolosità si percepisce lontano un miglio, ma cui è impossibile sottrarsi. A dargli voce e corpo, uno straordinarioTom Hanks, lontanissimo dai ruoli che lo hanno reso famoso, che offre una delle migliori prove della sua già eccezionale carriera. 

A voler proprio trovare un difetto, Elvis non è particolarmente innovativo nell'approccio al genere "music biography": la struttura narrativa non è troppo diversa da quella di Walk the Line o di Bohemian Rhapsody, per citare due esempi. Tuttavia, il film ha una tale potenza emotiva che fa passare in secondo piano il suo impianto classico, trascinando lo spettatore in una caleidoscopica corsa nella vita di un rivoluzionario che passò la vita a cercare di volare, e fu sempre trattenuto a terra.

**** 1/2

Pier

Nessun commento:

Posta un commento