Il motore sotto il cofano
In una scena di Ferrari, Enzo invita il piccolo Piero a immaginare il funzionamento di un motore senza averlo davanti, un motore sempre nascosto dal cofano ma così centrale al funzionamento dell’automobile; un motore la cui bellezza (o bruttezza) è importante tanto quanto la bellezza esteriore dell’automobile. Questo dialogo, all’apparenza secondario, racchiude in sé il tema centrale del film: il rapporto tra pubblico e privato, tra ciò che si vede e ciò che si nasconde sotto il cofano, invisibile, ma senza il quale l’auto non può nemmeno mettersi in moto.
Nonostante offra due diverse facce al mondo – energico e imperscrutabile in pubblico, fragile ed emotivo in privato, Enzo Ferrari scopre sulla sua pelle che le due sfere non sono separate, ma sono vasi comunicanti che è impossibile tenere completamente isolati. La sua crisi privata e famigliare si riverbera anche sulla sua azienda e sulla sua capacità di tenerla a galla. Ferrari, di fronte a questa doppia sfida, fa ciò che gli riesce meglio: rilancia, anziché arretrare, alzando il livello della sfida per sé e per i suoi dipendenti.
Sembra strano che Michael Mann, in un film fatto di corse di automobili, di adrenalina e velocità, decida di occuparsi della sfera privata del protagonista. Eppure è proprio dalla tensione tra pubblico e privato che scaturisce la forza di Ferrari, l’energia che si accumula in silenzio, sotto traccia, e che poi esplode nel terzo atto, in cui la Mille Miglia, da semplice corsa, diventa molto di più: una sfida contro il tempo ma anche contro se stessi, contro un paese che non riesce a guardare avanti ma ha lo sguardo ostinatamente all’indietro e che però, nonostante questo, non riesce a distogliere lo sguardo dalle alchimie di motori del mago di Maranello.
Mann evita la facile retorica e i pietismi che solitamente caratterizzano le descrizioni della sfera privata (chi scrive si è trovato, con un brivido di paura, a immaginare durante la proiezione come un regista medio italiano avrebbe trattato la materia, conferendole il classico taglio da “dramma da tinello”). Racconta il Ferrari privato con un taglio asciutto, cronachistico, aiutato anche dall’ottima prova di Adam Driver e Penelope Cruz (con buona pace di Favino e della sua sterile polemica veneziana), maestro e maestra dell’emozione trattenuta, della rabbia e della frustrazione accennate ma mai pienamente lasciate esplodere.
Il Ferrari pubblico è invece raccontato con pathos, adrenalina, emozioni pulsanti, vive, di chi vede ogni giorno la morte in faccia. Mann dirige le scene delle corse con mano impeccabile, realizzando una Mille Miglia a tutto gas perfetta a livello visivo e di ritmo.
Ferrari è un film di emozioni e ambizioni, sia realizzate che frustrate; è uno spaccato biografico di un uomo di contraddizioni, che sognava la normalità ma al tempo stesso desiderava l’immortalità, il brivido, il superare i propri limiti, ancora, e ancora, e ancora, fino alle estreme conseguenze.
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Pier
Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.
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