Le donne, i cavallier, l'arme, gli orrori
A Camelot, nel giorno di Natale, un anziano re Artù tiene udienza. Si presenta, a sorpresa, il Cavaliere Verde, misterioso gigante dall'aspetto di un albero, e lancia una misteriosa sfida. La raccoglie Gawain, nipote del re. Per mantenere i patti, dovrà intraprendere un percorso che lo porterà a fronteggiare fantasmi, creature fantastiche, briganti, e tentazioni della carne, costringendolo a interrogarsi di continuo sul significato di onore, consapevole che, alla fine del suo viaggio, lo attende la morte.
La saga di Re Artù è una delle più raccontate dai cineasti, tra trasposizioni (più o meno) fedeli (Excalibur), adattamenti di successo (La spada nella roccia, a sua volta tratto dalla splendida rilettura delle storie arturiane di T.H. White, Re in eterno), tentativi di storicizzazione del mito (King Arthur), e riletture in chiave action (King Arthur: La leggenda della spada) e romantica (Il primo cavaliere).
Era dunque difficile pensare di riuscire ad approcciare la materia con uno sguardo del tutto nuovo, creativo, originale.
La scelta vincente è puntare su un mito meno conosciuto della saga arturiana, il romanzo allitterativo Gawain e il cavaliere verde che costituisce una delle più importanti testimonianze letterarie del periodo medioevale: scritto in medio inglese, è stato trasposto in inglese moderno numerose volte, con la versione forse più celebre a opera di J.R.R. Tolkien. La scelta è vincente non solo perché permette uno sguardo fresco rispetto a quello che avrebbe offerto l'ennesimo racconto delle vicende di Artù (o Lancillotto), ma anche perché la storia è intrisa di simbolismo, immersa in un'atmosfera onirica che il regista Lowery abbraccia fino in fondo, trasformando un romanzo cavalleresco in un incubo a occhi aperti, un viaggio infernale alla ricerca dell'onore.
Il risultato è un film che ricorda ciò che potrebbe partorire David Lynch se approcciasse la materia arturiana, un intreccio continuo di stregoneria, sogni, e umana miseria in cui il reale e il sovrannaturale si permeano fino a confondersi in un unica grande visione. Gawain si muove per terre desolate, funeree, in cui la luce di Camelot non è mai arrivata e probabilmente non arriverà mai.
La complessità e la ricchezza simbolica del materiale di partenza sono tali da permettere molteplici livelli di lettura: dal rapporto uomo-natura (natura creatrice, natura matrigna) al significato di mascolinità, passando per una riflessione sul potere e per lo scontro tra ragione e sentimento, paganesimo e cristianità. In primo piano, tuttavia, c'è l'emancipazione del giovane Gawain, un personaggio molto diverso dall'archetipo del cavaliere che siamo abituati a conoscere: esitante, pieno di dubbi, insicuro persino sul suo voler diventare cavaliere, affronta la missione che gli si para davanti quasi controvoglia, trascinato più dall'istinto di sopravvivenza che da un vero desiderio di avventura. Il suo è un percorso di maturazione che si fa rito iniziatico e anche seduta psicoanalitica, grazie anche ad alcune modifiche apportate da David Lowery al testo originale (potete leggerne qui, ma attenti agli spoiler). L'onore viene cercato e, forse, trovato: ma ne valeva davvero la pena?
Il viaggio di Gawain può essere visto sia come una discesa agli inferi che come una ricerca della vita, sia una catabasi che come una catarsi: se da un lato viaggia verso la morte, dall'altro fugge da una corte crepuscolare, moribonda, stantia. Re Artù e Ginevra sono vecchi, cadaverici, relitti di un'epoca passata, laddove Gawain è giovane e pieno di vita. Il grigio della civiltà si contrappone al verde del cavaliere, simbolo, tra le altre cose, della natura che travolge il fuggevole passaggio dell'uomo. Tutto, intorno a lui, è morte: il suo viaggio prosegue per lande desolate, immerse in una nebbia oltremondana e infestate da spettri ed esseri che di umano hanno ormai soltanto il nome. Gawain soffre la fame, il freddo, la paura, e noi ci trasciniamo con lui per un sentiero che non vorrebbe percorrere ma che continua a seguire, nonostante alla fine lo aspetti, letteralmente, la morte.
La trama tradisce a tratti la natura "ingenua" e mitologica del romanzo, ma Lowery fa sì che passi tutto in secondo piano, calandola nella logica illogica del sogno e dell'allucinazione. La fotografia è splendida, abbacinante, un'estasi visiva che alterna luci monocrome squillanti a una desaturazione estrema, e in cui ogni location pare uscita da un incubo o da un sogno, offrendo una straniante commistione di reale e fantastico che arricchisce i simbolismi della trama. Ogni inquadratura è studiata con precisione maniacale, e offre all'osservatore più attento dei dettagli che consentono di apprezzare appieno la trama sia dal punto di vista letterale che da quello metaforico.
Dev Patel è un Gawain perfetto (e chi conosce le leggende arturiane può apprezzare l'appropriatezza di rendere lui e sua madre di un'etnia diversa rispetto agli altri cavalieri), e rende appieno la titubanza, l'incertezza, e il senso dell'onore in fieri del suo personaggio. Al suo fianco, Alicia Vikander convince in un doppio ruolo, e offre un monologo sul "verde" di grande portata emotiva.
The Green Knight è un film coraggioso, creativo, con una visione forte e originale che viene portata avanti senza aver paura di confondere lo spettatore, invitandolo a lasciar andare la riflessione razionale per lasciarsi trasportare dalla forza delle immagini e da una storia che parla più all'inconscio. Lasciatevi trascinare: non ve ne pentirete.
****1/2
Pier
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