martedì 6 ottobre 2020

Il processo ai Chicago 7

Tutto il mondo ci guarda


USA, 1969. Il Dipartimento della Giustizia del neoeletto presidente Nixon decide di istituire un processo contro vari esponenti della controcultura giovanile e del movimento per i diritti civili, scegliendoli come capri espiatori per le violenze nate in seguito alla repressione delle proteste avvenute durante la convention democratica di Chicago del 1968. Il processo si rivela ben presto una farsa, ma gli avvocati della difesa e gli imputati non intendono darsi per vinti.

Aaron Sorkin, dopo il convincente esordio dietro la macchina da presa con Molly's Game, si conferma regista talentuoso e con visione, capace di giocare con il ritmo, le immagini, i suoni. I tempi filmici si comprimono e si dilatano a piacere, grazie a un'alternanza tra lunghi piani sequenza che abbracciano una folla, l'aula, una stanza, e rapide sequenze di montaggio che mostrano la violenza o la quiete prima della tempesta, interpolati con filmati d'epoca che arrivano come tanti piccoli pugni allo stomaco. Il cambio di ritmo è al servizio del cambio di atmosfera tra i momenti concitati delle proteste e quelli (in apparenza) più compassati dell'aula.
La violenza è volutamente nascosta per larghi tratti del film, ma quando si vede esplode in una violenza sconvolgente, reale, non patinata né spettacolarizzata, che restituisce appieno l'inutile brutalità della polizia.

La sceneggiatura, se mai ci fossero dubbi, è un perfetto meccanismo a orologeria, senza una sbavatura o una battuta fuori posto. Sorkin è un maestro del dialogo e, come sempre, non delude, muovendosi a suo agio in un genere ben codificato come il courtroom drama e scardinandone gli impianti in modo creativo e innovativo. La scena d'apertura, con un'alternanza di walk and talk in pieno stile The West Wing, è un capolavoro di scrittura, recitazione, e montaggio. Sorkin costruisce dei personaggi memorabili e li mette all'interno di un teatro sociale e culturale meticolosamente ricostruito, in cui impariamo a scoprire le diverse anime di un paese in subbuglio, alla ricerca di un equilibrio tra interessi troppo diversi. 

Sorkin mette in scena il processo dapprima con toni farseschi, per sottolinearne le assurdità, ma poi vira decisamente verso il tragico, verso il pathos, in particolare grazie a due episodi reali che non possono non sconvolgere lo spettatore: episodi che si stenta a credere siano accaduti veramente in un'aula di tribunale, tradiscono un totale disprezzo per lo stato di diritto e per quell'ideale di Giustizia che dovrebbe animare ogni procedimento giudiziario.

Al centro di tutto ci sono i personaggi, protagonisti dimenticati di una storia che si fa Storia, di un processo che sembra essere in corso ancora oggi. Tutti gli attori offrono prove magistrali, ma su tutti spiccano Sacha Baron Cohen, meraviglioso hippie, e Yahya Abdul-Mateen II, già visto nella serie di Watchmen, protagonista dei momenti più drammatici del film.

Il processo ai Chicago 7 scava nei problemi della società statunitense, sia storici che contemporanei, restituendo un ritratto degli anni Sessanta che somiglia in modo inquietante ai nostri tempi. Sorkin realizza un film che guarda a ieri per parlare con enorme potenza all'oggi, raccontando una società dilaniata da conflitti razziali, politici, sociali, e generazionali, dove la verità non è più importante. Il processo ai Chicago 7 è un richiamo all'importanza dell'attenzione civile e sociale, perché solo gli occhi attenti del mondo possono evitare che il potere trionfi sulla giustizia. Da non perdere.

**** 1/2

Pier

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