sabato 24 dicembre 2022

Saint Omer

Maternità e colpa


La storia di due donne si incrocia attraverso il mito di Medea: una regista, incinta, che vuole farne un film, e una donna accusata di aver ucciso il proprio figlio proprio come la maga della Colchide. Il processo farà incrociare queste tre storie - la regista, l'accusata, e la più celebre infanticida della storia - e farà emergere segreti spesso taciuti: segreti su di noi e la società odierna.

Un esordio folgorante nel cinema di finzione per Alice Diop, finora documentarista, che racconta una storia viscerale con uno sguardo asettico, analitico, giurisprudenziale, lasciando che le emozioni sgorghino dal volto dei protagonisti e dalle pieghe di una vicenda sfaccettata (realmente accaduta), che cambia profondamente a seconda delle prospettive. Lo sguardo non si solleva mai da chi parla, con lunghe inquadrature statiche a sottolineare ogni parola, ogni movimento del viso, ogni esitazione. I personaggi e ciò che dicono (e non dicono) sono al centro del film, ed è dalle loro diverse voci che (non) emerge la verità.Il processo, vero cuore del film, è infatti un caleidoscopio di interrogatori, testimonianze, requisitorie che ribaltano continuamente il punto di vista, ottenendo un effetto di relativizzazione della realtà degno di Rashomon. 

La colpevole è chiara fin dall'inizio, rea confessa, ma il processo porta in luce altro, un intricato intreccio di cultura, famiglia e società che, forse, condivide la colpa, se non ne è addirittura il solo responsabile. Il "vero" colpevole, come nella storia di Medea, forse è invisibile - o, forse, è quello che la vera colpevole, la "barbara", la straniera vorrebbe farci credere. Colpevole o carnefice? La domanda che aleggia su Medea (non a caso compaiono alcune sequenze del film che Pasolini dedicò all'eroina tragica, dove questo tema è assolutamente centrale) aleggia anche sulla protagonista e sul suo viso imperturbabile, sulla sua voce quasi monocorde che riesce comunque a veicolare emozioni profonde, stordenti nella loro forza e purezza.

Diop realizza un film autoriale ma al tempo stesso ipnotico, primordiale nel suo affrontare il femminile e i lati più oscuri e inconfessati della maternità, scoperchiando tematiche che la nostra società tende a seppellire - dalla solitudine di molte donne nell'affrontare questa delicatissima fase alla depressione post partum, passando per ciò che significa essere donna "barbara" in un'epoca che vorremmo più illuminata dell'antica Grecia, ma che spesso ne riproduce le strutture, inossidabili al passare del tempo. Attraverso il suo io narrativo, la regista co-protagonista della storia, Diop dà voce ai suoi dubbi, che le vengono sbattuti in faccia, costringendola ad affrontarli e a risolverli al cospetto di un fatto di cronaca all'apparenza brutale, ma che rivela il suo vero, mostruoso volto solo durante il processo: un volto fatto di solitudine, emarginazione, superstizione, in cui verità e menzogna sono quasi indistinguibili.

Saint Omer è un film in cui le emozioni scorrono potenti senza bisogno di artifici retorici e pelosi pietismi, che costringe lo spettatore a fare i conti con il volto del male senza poter distogliere lo sguardo, per poi fargli realizzare che il male è anche in noi.

**** 1/2

Pier

Nessun commento:

Posta un commento