venerdì 22 febbraio 2019

Green Book

La forza della semplicità


New York City, anni Sessanta. Tony 'Lip' Vallelonga è un italoamericano che fa il buttafuori al Copacabana. A causa della temporanea chiusura del locale, Tony si ritrova senza lavoro. Per mantenere la moglie e i due figli accetta un'offerta di lavoro singolare: accompagnare il dottor Donald Shirley, un musicista afroamericano, nel suo tour di concerti attraverso gli Stati del Sud, dall'Iowa al Mississipi. Tony dovrà fargli da autista e guardia del corpo, superando allo stesso tempo i suoi stessi stereotipi razziali.

Il tema del razzismo è un nervo scoperto nella società statunitense, una parte di passato (e presente) non ancora del tutto risolta, e che forse non lo sarà mai; un problema che sembra superato, e che invece periodicamente torna a riemergere, come un coccodrillo rimasto nascosto sotto la superficie dell’acqua, in attesa. È un tema, dunque, molto difficile da affrontare in modo adeguato, da un lato per il rischio di incorrere nel politically incorrect, dall’altro per quello di scivolare nel pietistico, finendo per sminuire, anziché esaltare, la portata storica del problema.

Potrebbe sorprendere, dunque, che uno dei film migliori sul tema sia una storia scritta (con Nick Vallelonga, figlio di Tony, e Brian Currie) e diretta da Peter Farrelly, celebre presso il grande pubblico per commedie demenziali come Tutti pazzi per Mary e Io, me, e Irene. Tuttavia, forse è proprio la conoscenza dei meccanismi e dei tempi comici che permette a Farrelly di raccontare con efficacia la storia (vera) dell’incontro-scontro tra Tony e Shirley, realizzando un film on the road che bilancia sapientemente gli elementi comici e drammatici. Il film ha infatti la sua forza principale nella sceneggiatura, semplicemente perfetta per ritmo, struttura e scrittura dei personaggi. Sia Tony che Shirley sono personaggi che scopriamo gradualmente, più attraverso le loro azioni che per mezzo di inutili descrizioni, e che rivelano una complessità insospettabile al primo incontro.

Gran parte del merito va alle interpretazioni di Mahershala Alì e, soprattutto, di Viggo Mortensen, all’ennesima prova sontuosa che non verrà premiata con l’Oscar. Prima poi occorrerà fare un discorso sulla carriera di Mortensen, forse l’attore migliore della sua generazione ma costantemente snobbato nella stagione dei premi, probabilmente a causa della sua recitazione sempre misurata e mai sopra le righe. In Green Book dà vita a un Tony eccezionale per simpatia e naturalezza, vero e proprio mattatore che riesce però anche a dare vita ad alcuni dei momenti più profondi e commoventi del film. Accanto a lui, Alì dà vita a un personaggio costruito per sottrazione, in cui il non detto è più importante di ciò che dice.

La coppia ha una chimica innegabile, dovuta anche alla perfetta complementarità dei loro personaggi: laddove Tony è ciarliero fino ad autodefinirsi un artista della parola, Shirley è taciturno e introverso, e parla solo con la sua musica; laddove Tony è definito dalla sua appartenenza a una famiglia onnipresente e affettuosa, Shirley è invece solo, rifiutato sia dai bianchi che dai neri, e costretto a suonare una musica più “vendibile” per uno con il suo colore della pelle, ma lontana dal suo cuore.

Green Book non brilla certo per originalità, ma costruisce una storia semplice ed efficace, che spinge lo spettatore a una riflessione che non viene invece sollecitata da altri film teoricamente più profondi e di supposta maggiore dignità filmica e drammaturgica. La storia del cinema indipendente statunitense ci insegna però che è con la semplicità che si riescono a trasmettere messaggi “forti”, e gli autori di Green Book dimostrano di aver capito perfettamente la lezione, realizzando un film non indimenticabile ma che arriva dritta al cuore.

*** 1/2

Pier

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