venerdì 20 dicembre 2024

Anora (In Pillole #29)

Volare troppo in alto


C'è una categoria di film cui Anora appartiene a pieno titolo: quello del film indipendente "di sceneggiatura", con bei dialoghi e ottimi attori, che solitamente esce dal Sundance Film Festival per poi strappare una candidatura all'Oscar per la miglior sceneggiatura, a volte anche vincendolo. 
Come questo tipo di film possa trionfare a Cannes, tuttavia, è domanda aperta e senza risposta, spiegabile solo in parte con il declino della kermesse francese. Al gusto dei giurati non si comanda, ma c'è più cinema nell'inquadratura più pasticciata di Megalopolis che in questo pur bel film di Sean Baker. 

In comune con il film di Coppola Anora ha il fatto di essere un prodotto quasi metacinematografico. Megalopolis racconta dell'ambizione folgorante ma autodistruttiva di un architetto, ed è il frutto dell'ambizione folgorante e autodistruttiva di Coppola.  Anora racconta la delusione che si prova quando si ritorna alla realtà dopo essersi illusi di aver realizzato i propri sogni (o il finale alternativo mai girato di Pretty Woman, film esplicitamente citato in vari punti) e il suo sogno realizzato (vincere la Palma d'Oro) finisce per alzare eccessivamente le aspettative e deludere chi lo guarda - una delusione immeritata, perché il film è comunque molto valido, ma inevitabile, perché le aspettative giocano comunque un ruolo importante nella visione.

Anora è infatti, come detto, un buon film di sceneggiatura che, pur soffrendo di un enorme buco di trama, trascina comunque grazie a dialoghi al fulmicotone, una regia cinetica che ricorda il primissimo Scorsese con punte aggiuntive di lirismo e, soprattutto, un giovane cast in stato di grazia. Mikey Madison è magnetica nel ruolo della protagonista, una stripper alla ricerca della felicità; Mark Eydelshteyn è una star in rampa di lancio, irresistibile nella sua cialtroneria e da schiaffi nel suo essere irrimediabilmente viziato; e Yura Borisov, già ammirato in due piccoli capolavori come Scompartimento 6 Captain Volkogonov escaped, è semplicemente un attore eccezionale, che speriamo riesca a proseguire la sua carriera negli USA.

Leggerete che il film ha un messaggio femminista, o quantomeno antipatriarcale: onestamente si fa fatica a trovarlo, perché è la stessa protagonista a rinunciare alla propria voce anche quando potrebbe usarla e perché il personaggio più negativo del film è un'altra donna. Se questa era davvero l'intenzione (e a tratti sembrerebbe esserlo), Baker pasticcia un po' con gli ingredienti, creando un film diseguale: le parti comiche, esilaranti, sono nettamente meglio di quelle drammatiche o "impegnate", con l'eccezione della breve ma potentissima scena finale, che avrebbe meritato una migliore costruzione per poter ribaltare davvero la prospettiva e dare al film quel valore aggiunto che lo avrebbe reso un capolavoro.

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Pier

venerdì 29 novembre 2024

Wicked: Parte 1

Il ritorno del musical


Glinda, la buona strega del Nord, annuncia al regno di Oz la morte della malvagia strega dell'Ovest. Il reame è in festa, ma qualcosa sembra turbare Glinda. Scopriamo che, una volta, lei e Elphaba, la strega dell'Ovest, non solo non si odiavano, ma erano addirittura amiche. Tutto iniziò all'università di Shiz, dove Glinda stava per iniziare gli studi e Elphaba - senza amici e derisa da tutti per la sua pelle verde - aveva accompagnato la sorella più giovane, Nessa...

Wicked è uno di quei prodotti creativi celeberrimi nel mondo anglosassone ma quasi sconosciuti in Italia. Tratto dal romanzo di Gregory Maguire, il musical debutta a Broadway nel 2003 ed è subito un successo sia di pubblico che di critica. Diventa un fenomeno culturale, e consacra definitivamente Idina Menzel, interprete di Elphaba, come una delle regine del musical contemporaneo (Menzel che, insieme a Kristine Chenoweth, interprete originale di Glinda, fa una comparsata nel film).

Di tutto questo a noi arriva solo una pallida eco e non stupisce, dunque, che gran parte del pubblico (e anche anche alcuni paludati critici, evidentemente privi di amici che li tengano a contatto con la realtà) abbia pensato che questo Wicked: Parte 1 fosse l'ennesimo prequel o rivisitazione generata dall'algoritmo degli studios, in un'epoca in cui le idee vengono riciclate o letteralmente rianimate come cadaveri. 

Wicked è invece un'opera originale, la cui trasposizione al cinema ha dovuto attendere anni per garantire lo splendore visivo e il respiro narrativo necessario a un'opera complessa e stratificata, che parla alla società odierna in modo forse ancora più forte di quella in cui uscì originariamente: una società divisa, polarizzata, un insieme di solitudini che non si fa mai gruppo; una società capace di unirsi solo contro un nemico inventato, con un'elite chiusa in una bolla che (letteralmente) impedisce loro di sentire la voce di chi dovrebbe servire.

John M. Chu, già autore di Crazy Rich Asians, aveva insomma un'impresa molto difficile da portare a termine, e passa l'esame a pieni voti. Wicked: Parte 1 è un perfetto adattamento del materiale di partenza, e mantiene la follia e la stravaganza tipiche dei musical teatrali, ma che spesso viene persa negli adattamenti cinematografici a causa dell'illusione che, per risultare drammaticamente più credibili, debbano anche diventare più seri. Ma senza un pizzico di follia, di scenografie esagerate e colori ipersaturidi enfasi teatrale si perde completamente la magia del musical. L'effetto paradossale è che si finisce per rendere noiosi, anziché più credibili, dei personaggi che a un tratto si mettono a cantare e ballare. La formula "seriosa" può funzionare per musical sperimentali, che usano il genere per parlare di altro (due esempi qui e qui) o che usano generi musicali meno classici

Chu ha decisamente imparato la lezione dei maestri contemporanei del genere (Buz Luhrmann e Rob Marshall su tutti) e lascia la magia del musical a briglia sciolta. Da regista di commedie capisce che la forza di Wicked sta anche nella linea comica (tanto cara agli sceneggiatori di Boris), e la esalta attraverso una regia ipercinetica e una direzione degli attori da commedia splapstick. Le scelte del regista sono supportate da un cast di caratteristi scelto alla perfezione, e alle prestazioni eccellenti, soprattutto dal punto di vista fisico, da parte dei protagonisti. Ariana Grande nella parte di Glinda e Jonathan Bailey (conosciuto al pubblico per Bridgerton, ma che dovrebbe essere conosciuto per quel gioiello di Crashing) nella parte di Fiyero sono perfetti nella loro incarnazione dei belli apparentemente vacui ma dal cuore d'oro, e sono il cuore comico della trama. Jeff Goldblum è un po' sottoutilizzato nella parte del Mago, anche se il suo momento di gloria dovrebbe arrivare nella seconda parte prevista per il 2025. A brillare su tutti è l'Elphaba di Cynthia Erivo che, pur non avendo la potenza vocale di Menzel, compensa con un'espressività e un'intensità attoriale da Oscar che le permettono di non perdere una virgola della potenza emotiva delle sue canzoni.

Chu dirige con maestria ed efficienza, senza particolari guizzi fino al finale, che invece merita un discorso a parte: la coreografia di Defying Gravity forse spezza un po' troppo il cantato, ma è perfetta per come restituisce il dolore e il desiderio di libertà di Elphaba, il tormento e l'affetto di due amiche che sanno che si stanno separando, forse per sempre, il Bene che si ribella al Male, al costo di perdere tutto e venire etichettato come il nemico. Un momento di grande potenza cinematografica, che soddisferà i fan del musical originale ma anche chi non lo conosce.

L'unico difetto di questo Wicked: Parte 1 sta nella durata. Se la divisione in due parti era inevitabile (i musical da sempre durano molto di più al cinema che a teatro, a meno di voler operare dolorosi tagli), la durata di questa prima parte rischia di stordire chi il musical non lo conosce. Alcune scene risultano ripetitive e potevano serenamente essere tagliate senza nulla togliere all'efficacia narrativa ed emotiva dell'opera.

Wicked: Parte 1 è un musical magico e divertente, che bilancia sapientemente i momenti in cui non si prende sul serio e quelli in cui far risuonare con grande forza il suo messaggio di unità e tolleranza - un messaggio universale, ma che risuona ancora più forte nei tempi che stiamo vivendo.

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Pier

martedì 26 novembre 2024

Giurato Numero 2

Cosa significa "giusto"?


Justin Kemp sta per diventare padre, ma viene convocato come giurato in un caso di omicidio. L'imputato è accusato di aver ucciso la fidanzata, Kendall Carter, dopo una lite in un locale, e di aver poi gettato il cadavere sul letto di un torrente. Mentre il procuratore, Faith Killebrew, espone i fatti, Justin, giurato numero due, si rende conto che potrebbe non essere estraneo a quando accaduto a Kendall Carter, e comincia ad arrovellarsi: deve parlare, rischiando di incriminarsi, o tacere, rischiando la condanna di un potenziale innocente?

La parola ai giurati (12 angry men in originale) è un film del 1957, il primo girato da Sidney Lumet. È un capolavoro in generale, e in particolare del cinema giudiziario/processuale, di cui è di fatto il capostipite (se non lo avete mai visto, potete trovarlo qui in italiano). I dodici protagonisti non hanno nomi: solo il loro numero da giurato li qualifica. Devono decidere se mandare sulla sedia elettrica un ragazzo accusato di aver ucciso il padre. Tutti sono convinti della sua colpevolezza, ma uno dei giurati, il numero 8 (interpretato da Henry Fonda) vota per l'innocenza: non è certo che il ragazzo sia colpevole (o innocente), ma proprio per questo vuole parlarne, per stabilire se esista un ragionevole dubbio: la vita di un ragazzo vale pure una conversazione, giusto? 
Senza fare spoiler del finale, vi basti sapere che su Internet esistono vari dibattiti sia sull'effettiva innocenza o colpevolezza del ragazzo, sia su cosa abbia spinto il giurato numero 8 a fare ciò che ha fatto. Una delle teorie più strampalate, ma anche più intriganti, è che lo abbia fatto perché il vero colpevole è lui. 

Dubito che Clint Eastwood abbia letto questa teoria, ma il dubbio viene, dato che il suo Giurato numero 2 è chiaramente debitore di La parola ai giurati (che viene esplicitamente citato, con alcune battute riprese parola per parola) ma soprattutto porta in scena proprio questo scenario così improbabile eppure così intrigante: come si comporterebbe un giurato se scoprisse, per caso, che il vero colpevole del crimine su cui si trova a giudicare potrebbe essere lui? 

Per affrontare questa domanda servono una sceneggiatura a prova di bomba, ma soprattutto una grande maestria nell'affrontare i dilemmi etici e morali che solleva senza scivolare in una noiosa discettazione filosofica. Per fortuna, etica e morale sono il pane quotidiano della cinematografia di Eastwood da sempre: da Lo straniero senza nome passando per Gli spietati, Mystic river, e Million dollar baby, Eastwood ha sempre esplorato i confini tra bene e male, giusto e sbagliato. Non sorprende, dunque, che Giurato numero 2 sia un thriller teso come una corda di violino, in cui la verità è inconoscibile ma intuibile, e in cui la bussola morale schizza in ogni direzione in base, ponendoci di fronte all'interrogativo: quanto siamo disposti a sacrificare sull'altare della Giustizia?

Eastwood, come detto, riprende alcuni stilemi de La parola ai giurati, ma ne abbandona le atmosfere claustrofobiche per portarci nella vita dei personaggi e farci rivivere i momenti chiave del delitto attraverso continui cambi di prospettiva, che aiutano l'empatia e confondono la percezione, costringendo lo spettatore a mettere continuamente in discussione ciò che crede di sapere. Il concetto di ragionevole dubbio diviene non solo strumento (sacrosanto) di difesa, ma anche arma di offesa per chi vuole nascondere la verità, ribaltando il copione del film processuale e trasformando il giudice in giudicato.

Al centro di tutto c'è un cast perfetto, da un Nicholas Hoult che sembra la personificazione del concetto di "ambiguità" a una Toni Collette divisa tra il desiderio di trovare la Verità con la v maiuscola e quello di salvaguardare la sua promettente carriera. Intorno a loro un cast di supporto di volti poco noti (con l'eccezione di J.K. Simmons e Kiefer Sutherland) ma terribilmente efficaci nell'interpretare tipi umani presi dal modello di Lumet (alcuni calchi sono evidenti) ma adattati alle sensibilità e ai problemi odierni. 

Giurato numero due è l'ennesimo colpo mandato a segno da Eastwood, che alla veneranda età di 94 anni gira con l'energia e la forza inquisitiva della gioventù, non avendo paura di fare domande scomode, dare risposte scomode, e lasciare dubbi e interrogativi cui ogni spettatore può rispondere in maniera differente. Un film socratico, dunque, nella sua capacità di far riflettere e offrire vari punti di vista sullo stesso argomento, e poi voltarsi di colpo verso le spettatore per chiedergli a bruciapelo: e tu, cosa ne pensi? 

**** 1/2

Pier

martedì 29 ottobre 2024

Il Robot Selvaggio

Poesia nazionalpopolare


Precipitato dal cielo su un'isola, un robot viene attivato per caso dalla fauna locale. Programmato per essere d'aiuto, cercherà un compito da eseguire, fino a trovarlo, dopo un tragico incidente, nell'allevare un pulcino di oca, rendendolo pronto per una vita fatta di migrazioni e predatori. 

Si alza un po' il sopracciglio, a leggere le sperticate lodi di cui tutti o quasi stanno ricoprendo Il robot selvaggio, ultima fatica di casa Dreamworks. Il film è indubbiamente molto meritevole dal punto di vista artistico, nonché il secondo migliore - dietro al recente sequel de Il gatto con gli stivali (se non lo avete visto, recuperatelo) - sfornato dalla casa del Bambino sulla Luna dai tempi dell'ingiustamente sottovalutato Le cinque leggende. Finalmente obbligata (grazie allo SpiderVerse) dall'obbligo (autoimposto) decennale del fotorealismo, l'animazione statunitense sembra rinata, esplorando quell'ibridazione di stile e tecniche introdotto dalla Disney con il corto Paperman e portato al successo critico e commerciale dagli SpiderVerse, appunto, ma anche da lavori come Nimona e Arcane, oltre che da alcuni recenti prodotti sia Disney che Pixar

Chris Sanders, il regista, ha il grande merito di non copiare i predecessori, ma di ricercare uno stile personale, quasi impressionistico nella rappresentazione dei paesaggi, delle ombreggiature, e delle pellicce degli animali. Se l'effetto su questi ultimi può dividere, risultando a tratti un po' artefatto, su paesaggi e rapporto luci-ombre Sanders fa decisamente centro, regalando agli spettatori alcune delle sequenze visivamente più mozzafiato degli ultimi anni: veri e propri quadri in movimento, in cui lo spettatore resta a bocca aperta di fronte alle meraviglie della natura.

A essere meno riuscita è, tuttavia, un aspetto che storicamente era un punto di forza di casa DreamWorks, ovvero la storia. La narrazione procede a salti, senza un reale arco narrativo, con personaggi che cambiano "perché sì" e alcuni momenti raccontati con troppa fretta e approssimazione. La tensione è del tutto assente anche quando dovrebbe esistere, dato che abbiamo visto il contrasto che dovrebbe guidarla risolversi quasi subito nei fatti, anche se non a parole. 

Qualcuno potrebbe, a ragione, obiettare che la forza nel film dovrebbe essere nelle tematiche raccontate - genitorialità ed ecologismo - e non nella storia narrata. Dovrebbe, appunto. Al netto del fatto che le stesse tematiche sono già state affrontate in uno dei film più ingiustamente bistrattati della Pixar, Il viaggio di Arlo, ambedue le tematiche non sono approfondite quanto dovrebbero, una in particolare.

Il racconto sulla genitorialità è semplice, forse troppo, ma quantomeno efficace e molto centrato, soprattutto di questi tempi, e crea anche alcuni dei momenti di commozione del film. Quello che non convince è il discorso ecologista, davvero troppo semplicista per funzionare con il "secondo target" di questo film, ovvero gli adulti. Mancano la profondità e la capacità di accettare anche gli aspetti meno "pucciosi" della natura (l'esistenza di predati e predatori) che è invece presente nei lavori del maestro del genere, Hayao Miyazaki - sia nei suoi classici, come Principessa Mononoke, sia in lavori più recenti come Il ragazzo e l'airone. Anche il già menzionato Il viaggio di Arlo presentava una natura più realistica, madre e matrigna insieme. Sanders, forse rimanendo troppo ancorato dal romanzo da cui il film è tratto, offre quindi una ricetta rassicurante ma troppo, troppo semplicistico, in cui l'armonia deriva da un sovvertimento impossibile dell'ordine naturale.

Cosa rimane, quindi, di questo Robot selvaggio? Rimane una bella fiaba per bambini, e solo per bambini, con immagini creative e splendide che da sole bastano, nonostante le pecche narrative, a piazzare il film tra i favoriti per l'Oscar per la miglior animazione. Rimane però anche una sensazione di occasione persa, perché sarebbe bastata una maggiore attenzione narrativa per poter parlare a tutti i tipi di pubblico e urlare, con ragione, al capolavoro.

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Pier

mercoledì 2 ottobre 2024

Joker: Folie à Deux

Danzare con il diavolo nel pallido plenilunio

 

Dopo gli eventi di Joker, Arthur Fleck è rinchiuso ad Arkham in attesa del processo. Un giorno conosce un’altra paziente/detenuta, Harleen “Lee” Quinzel, che gli rivela di essere una grande ammiratrice delle sue gesta e del suo “vero io”, Joker. Tra i due inizia una “follia a due”, una relazione sentimentale in equilibrio tra realtà e fantasia, fatta di numeri musicali intrisi di amore e violenza. 

Non si può certo dire che Todd Phillips manchi di coraggio. L’enorme successo di Joker era già una montagna altissima da scalare, roba da far tremare i polsi di registi più scafati e abituati al cinema d’autore. Phillips non solo non si scompone, ma rilancia, realizzando un musical psicoanalitico a tinte dark, uno splendido ibrido di generi che ci porta ancora una volta a esplorare la mente di Arthur Fleck, questa volta abitata non solo da depressione, inadeguatezza, e folle desiderio di rivalsa, ma anche dall’amore. Un amore vero, non come quello immaginario vissuto nel primo film – o almeno così sembrerebbe. Lee è innamorata di lui, lo bacia, lo loda, gli si concede, lo supporta nel suo processo, spingendolo ad abbandonare la tesi difensiva della malattia mentale per abbracciare finalmente la sua nuova identità: il volitivo, carismatico, violento Joker, anziché il timido, patetico, sottomesso Arthur. Ma è questo quello che vuole davvero Arthur? O sta solo, ancora una volta, cercando disperatamente qualcuno che lo ami?

Se il tema del primo film era raccontare le origini della follia e della violenza, ricercandone le radici nelle umiliazioni e nella sperequazione sociale, in questo film Phillips riparte dal finale di Joker: dalle rivolte che parevano fumettistiche, ma si sono rivelate tristemente reali; e dal fatto che molti hanno visto in Joker/Arthur non come un simbolo di ciò che non funziona nella società, ma un esempio da seguire. Folie à Deux racconta proprio questo, il momento in cui una persona diventa un simbolo, un’idea, che prende vita propria indipendentemente da ciò che pensa e fa chi le ha dato vita.


Laddove Joker racconta una follia individuale, il suo seguito ne racconta una collettiva e di coppia. Quello tra Arthur e Lee è un amore malato, che sconfina nell’idolatria, e rappresenta appieno il meccanismo perverso che fa sì che personaggi negativi diventino riferimenti, modelli da seguire. Arthur vorrebbe smettere di essere Joker, ma né Lee né la società glielo permettono: chi lo odia pensa che lui non possa cambiare, chi lo ama pensa che non debba vergognarsi di essere chi è. L’idea, ammonisce Phillips, sopravvive al suo portatore, e si gonfia, si deforma, diventa sempre più mostruosa. Magari scompare, per un periodo, ma poi torna, riemerge, più forte e spaventosa che mai. Folie à Deux parla del nostro quotidiano, in cui la celebre frase di Marx sembra essere stata sovvertita, con la storia che si ripete due volte, ma la seconda non è una farsa: è una tragedia ancora più cupa della prima.

Folie à Deux è un film cupo e privo di speranza, ma al tempo stesso guidato dalla speranza di essere amati, di trovare il proprio posto nel mondo. I numeri musicali riflettono questa natura ossimorica, ondeggiando tra la purezza dei sentimenti dei grandi musical hollywoodiani e l’oscurità che pervade la Gotham di Phillips. Le musiche sono solari, ma punteggiate di distorsioni; le luci sono brillanti, ma accompagnate da coreografie cupe e violente; la voce di Lee è perfetta, pulita, quella di Arthur sofferta, un sussurro di dolore che a volte si fa urlo. 

Lady Gaga offre la miglior prova attoriale della sua breve carriera nella recitazione (per onestà va anche detto che non aveva una grande montagna da scalare, per citare uno dei numeri musicali del film), mentre Phoenix è ancora una volta semplicemente strepitoso nel restituire la doppia natura di Arthur/Joker. Le sue doti canore e di ballerino sono una sorpresa, la sua capacità recitativa – a livello sia vocale che fisico – una garanzia. Il suo canto è straziante, una richiesta di aiuto che nessuno sente, il suo corpo lo specchio di una mente deformata, contorta, che vuole solo essere amata, anzi, non ambisce nemmeno a tanto: vuole solo essere vista, notata, considerata. C’è uno scambio con uno dei suoi ex colleghi clown, in tribunale, che racchiude in pochi minuti tutto il dramma di Arthur, tutto ciò che Phillips ha cercato di raccontare in questi due film, e in cui Phoenix offre uno dei tanti momenti emotivamente devastanti del film. 

Phillips osa anche nel finale, coraggioso, potente, inevitabile. Il regista non sceglie la strada facile, ma percorre fino in fondo la strada complessa, in salita, e arriva in cima alla montagna: all’orizzonte si vedono solo cenere e macerie, ma bisogna prima riconoscere il problema, a costo di passare per Cassandre, per poterlo risolvere. Folie à Deux ancora una volta usa il genere – anzi, i generi – per parlare dell’oggi, della realtà, e dei pericoli del futuro: vedremo se lo staremo a sentire, o se affonderemo, cantando e ballando mentre il mondo va in fiamme.

**** 1/2

Pier

Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

martedì 24 settembre 2024

Vermiglio

Piccolo mondo antico


Italia, ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale. La famiglia Graziadei vive a Vermiglio, un paesino sulle Alpi dove la vita scorre lenta e la guerra sembra lontanissima, a eccezioni della mancanza dei ragazzi arruolati. Un giorno il cugino dei Graziadei torna, portato in spalla da un altro soldato, siciliano: sono fuggiti da un campo di prigionia tedesco. I Graziadei lo ospitano perché altrimenti sarebbe rimandato al fronte, e la sua permanenza, accompagnata dalla crescita dei tanti figli e figlie della famiglia, provocano una reazione a catena che scuote il quieto mondo della valle.

Ha le sue radici nel cinema di Ermanno Olmi e Giorgio Diritti l’opera seconda di Maura Delpero: un cinema bucolico, fatto di quotidianità e provincia, senza patinature, attento a raccontare la vita reale e le relazioni tra persone (non personaggi). Proprio sulle relazioni si concentra Vermiglio, che fa affezionare lo spettatore alle sue protagoniste (soprattutto) e ai suoi protagonisti tratteggiandoli nelle loro sfide giornaliere, ma soprattutto in un momento di transizione: la guerra sta per finire, e figlie e figli adolescenti si affacciano sull’età adulta, con tutti i suoi turbamenti emotivi ed esistenziali. Nel mondo sospeso di un paesino innevato sulle Alpi, il cambiamento, seppur piccolo, può diventare in breve tempo una valanga.

Vermiglio non ha un tema preciso: usando una frase fatta, si potrebbe dire che parla di vita. L’abilità di Delpero sta nel tratteggiare personaggi realistici, diversi ma accomunati dal loro desiderio di un qualcosa di “altro”, soprattutto i più giovani – un altro che la valle, giocoforza, fa fatica a offrire. Il film offre anche un ritratto sociologico della vita di provincia negli anni della guerra e immediatamente successivi. In questo senso è illuminante soprattutto il ruolo del papà dei Graziadei, il maestro del paese, severo ma giusto, e devotissimo alla sua missione di nutrire le menti e le anime delle sue alunne e dei suoi alunni, sia con le sue lezioni, sia attraverso l’ascolto di musica classica. Vediamo quindi un paese ignorante ma desideroso di imparare, dove l’istruzione è ancora uno status symbol importante anche per chi magari passerà tutta la vita nei campi. In un’epoca in cui si parla incessattemente di aberrazioni come “il sapere utile”, dove “utile” significa “che serve al lavoro”, è rinfrescante vedere come fosse diversa la filosofia soltanto settant’anni fa, dove si pensava a formare persone e cittadini prima che lavoratori.

Il film pecca di un’eccessiva lunghezza e della mancanza di momenti emotivi veramente forti, ma avvolge lo spettatore dolcemente, come una nevicata leggera, trascinandolo in un’atmosfera ovattata che rievoca un mondo che non c’è più e ci fa osservare i suoi abitanti che, apparentemente immobili, si muovono a velocità sempre crescente verso il loro futuro – un futuro nuovo, incerto, ma proprio per questo pieno di speranza.

*** 1/2

Pier

Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

sabato 7 settembre 2024

Venezia 2024 - Il Totoleone

Anche quest'anno siamo giunti al termine della Mostra del Cinema, tra caldo tropicale, biciclette, cene ingollate tra un film e l'altro, e critici buongustai in panama bianco: una Mostra di buon livello medio, con poche vette ma ancor meno delusioni o film che facevano venir voglia di fuggire dalla sala. Anche quest'anno Alberto Barbera ha confezionato un'ottima selezione, corroborando l'entusiasmo con cui molti (compreso chi scrive) avevano accolto la sua riconferma.

È stata una Mostra in cui, come nel 2023, ci sono stati molti film biografici, da Diva Futura ad Ainda Estou Aqui, passando per la Callas di Larrain in Maria. Accanto a questi, molti film di carattere storico, come Campo di Battaglia e The Order, mentre minore è stata la presenza della politica, portata solo (e molto marginalmente) da Youth: Homecoming e The Room Next Door. La Mostra continua a guardare alla realtà, sia passata che presente, ma quest'anno è rispuntata la fantasia, che si è persino permessa di inventare intere biografie (The Brutalist). 

Qui trovate un elenco, con voti, dei film visti. Di seguito, invece, trovate i pronostici, quasi sicuramente sbagliati, per il Leone d'Oro e gli altri premi, corredati come sempre dalle mie preferenze personali.


Premio Mastroianni per il miglior attore emergente
Non ci sono tantissimi candidati papabili al premio Mastroianni quest'anno - vuoi per scarsità di ruoli rilevanti, vuoi per la natura corale della maggior parte dei film con giovani protagonisti. Il pronostico ricade su Martina Scrinzi, giovane protagonista di Vermiglio, mentre la mia scelta personale va a Benjamin Voisin, splendido coprotagonista di The Quiet Son, anche se forse è già troppo lanciato per poter ottenere questo premio.
PronosticoMartina Scrinzi, Vermiglio
Scelta personaleBenjamin Voisin, The Quiet Son

Coppa Volpi maschile
Sfida molto accesa, con tantissimi pretendenti: dal Vincent Lindon di The Quiet Son al Joaquin Phoenix canterino di Joker: Folie à Deux (dopo che con Joker non vinse a causa del regolamento della Mostra che impedisce che il Leone d'Oro prenda altri premi - regola cui pare quest'anno sia possibile ovviare in caso di unanimità in giuria); dall'Adrien Brody di The Brutalist al Nahuel Pérez Biscayart di El Jockey, passando per Daniel Craig in Queer. A Biscayart, dolente e silenzioso, va il mio pronostico, mentre su Brody, potente e fragile, va la mia scelta personale.
PronosticoNahuel Pérez Biscayart, El Jockey
Scelta personale: Adrien Brody, The Brutalist

Coppa Volpi femminile 
Sfida meno accesa di quella per la Coppa maschile, ma comunque ricca di pretendenti qualificate: Angelina Jolie offre la classica prova "da Oscar" in Maria, ma Isabelle Huppert potrebbe preferire prove meno appariscenti e più "contenute" come quelle di Tilda Swinton e Julianne Moore in The Room Next Door o di Fernanda Torres in Ainda Estou Aqui. Sulla Torres, bravissima, ricade il mio pronostico. La mia scelta personale va invece, ex aequo, alle due protagoniste del film di Almodovar, che sarebbe dimenticabile (a dispetto di ciò che dice la critica imparruccata, che non a caso sembra apprezzare un Almodovar più conservatore) se non fosse per la loro straordinaria prova.
Pronostico: Fernanda Torres, Ainda Estou Aqui
Scelta personale: Julianne Moore e Tilda Swinton, The Room Next Door

Leone d'Argento (Miglior Regia) 
Se ci fosse giustizia, The Brutalist avrebbe già il Leone d'Oro. Ma dato che il mondo è buio e freddo, e i capolavori vengono riconosciuti pienamente solo con il tempo, temo che Corbet dovrà "accontentarsi" di questo premio - un risultato comunque notevolissimo per un regista al terzo film. Su di lui ricade il mio pronostico, mentre la mia scelta personale ricade su Todd Phillips, che firma un sequel coraggioso e divisivo, creando una commissione di generi di difficile digestione ma di grande ricchezza e complessità. Piccola menzione anche per Giulia Steigerwalt, che realizza un'opera seconda di rara maturità per composizione, chiarezza tematica, e direzione degli attori: ma il film ha toni da commedia, peccato mortale presso i festival cinematografici e i già citati critici imparruccati.
Pronostico: Brady Corbet, The Brutalist
Scelta personale: Todd Phillips, Joker: Folie à Deux

Gran Premio della Giuria 
Il favorito per il secondo premio più importante sembrerebbe un beniamino dei giudici come Luca Guadagnino. E il suo Queer è indubbiamente un bel film a tutti i livelli: visivo (soprattutto), recitativo, e di scrittura (ancorché troppo lungo). Il problema è che è molto poco originale, e soprattutto è un adattamento pessimo del romanzo breve di Burroughs, e ne tradisce in pieno toni, intenzioni, e stile. Se ci fosse un minimo di attenzione per questi aspetti, il premio dovrebbe andare ad altri: ma temo non sarà così. All'opera più bizzarra, originale, meravigliosamente schizofrenica della Mostra - El Jockey di Luis Ortega - va invece la mia preferenza personale.
Pronostico: Queer
Scelta personaleEl Jockey

Leone d'Oro 
Sfida davvero accesa e incerta, con tutti i film già citati per gli altri premi che potrebbero legittimamente ambire anche al trofeo più prestigioso. Come detto, il mio preferito, nonché unico vero capolavoro della Mostra, è The Brutalist, ma temo non vincerà a favore di The Room Next Door. Un film che piace a chi scambia la verbosità per profondità, che può comunque esibire dei meriti oggettivi (tematica rilevante, attrici ottime, uso del colore splendido). Su Almodovar, dunque, ricade il mio pronostico.
Pronostico: The Room Next Door
Scelta personale: The Brutalist

È tutto anche per quest'anno. Correte in SNAI a scommettere sull'opposto dei miei pronostici, e noi ci risentiamo per l'edizione 2025.

Pier

Telegrammi da Venezia 2024 - #8

Ultimo telegramma da Venezia 2024, con l'elenco di tutti i film visti del concorso e i relativi voti. 


Quando il voto era pari, ho messo davanti il film che ho preferito. Cliccando il titolo potete leggere la recensione breve pubblicata nei Telegrammi precedenti.
  1. The Brutalist, voto 10
  2. El Jockey, voto 8.5
  3. Joker: Folie à Deux, voto 8.5
  4. Diva Futura, voto 8.
  5. Ainda Estou Aqui, voto 7.5
  6. The Quiet Son, voto 7.5
  7. The Order, voto 7.5
  8. Trois amies, voto 7
  9. Vermiglio, voto 7
  10. Maria, voto 7
  11. The Room Next Door, voto 6.5
  12. Queer, voto 6.5
  13. Love, voto 6.5
  14. Youth: Homecoming, voto 6
  15. Campo di Battaglia, voto 5.5
  16. Babygirl, voto 5.5
  17. Harvest, voto 5
Non visti: April, Stranger Eyes, Iddu, Leurs Enfants Aprés Eux.

Per i telegrammi è tutto, a più tardi per i pronostici.

Pier

venerdì 6 settembre 2024

Telegrammi da Venezia 2024 - #7

Settimo telegramma da Venezia 2024, tra rivendicazioni sindacali intrise di misticismo, geniali autoparodie, documentari su Cina e Ucraina, storie di immigrazione, e riflessioni sull'amore.


Sugar Island (Giornate degli Autori), voto 7. La rivendicazione dei diritti dei lavoratori delle piantagioni da zucchero in Repubblica Dominicana si intreccia con il misticismo locale, con un culto matriarcale che cerca di comprendere il corso degli eventi. Al centro, la vicenda di una ragazza senza documenti e identità, condannata ai margini dagli errori del passato che continuano ad avere un impatto sul presente. Non tutto funziona, ma la commistione tra tematica socio-sindacale e mistica è originale e ben costruita.

Broken Rage (Fuori Concorso), voto 8. Kitano realizza un film ferocemente dissacrante, con una prima metà che è un thriller serio e teso, e la seconda che è una spledida parodia della prima. Si ride a crepapelle, ma le risate non nascondono la sublime sensibilità di Kitano per la messa in scena: ogni inquadratura è una piccola opera d'arte.

Youth: Homecoming (Concorso), voto 6. Documentario sulla gioventù cinese e il suo rapporto con il mondo del lavoro, che soffre di un'eccessiva lunghezza e di una scarsa attenzione per chi non conosce bene la società cinese, che fatica a comprendere molti passaggi della vicenda narrata.

Love (Concorso), voto 6.5. Love è un film di buona fattura che, nonostante qualche giro a vuoto, riesce a offrire alcuni momenti di riflessione e lirismo, grazie anche a un ottimo uso della luce, che dipinge momenti, persone, situazioni, stringendoli in un caldo abbraccio che li rende fortemente, irresistibilmente umani. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Songs of Slow Burning Earth (Fuori Concorso), voto 6.5. Interessante documentario che racconta come è cambiata la quotidianità degli Ucraini con la guerra. Immagini interessanti, ma il taglio è forse troppo cronachistico, senza una riflessione o un punto di vista "particolare."

Little Jafna (Settimana della Critica), voto 8. Due gang rivali di origine tamil si affrontano per le strade di Parigi. Il loro paese d'origine (Sri Lanka) domina la scena nonostante la distanza geografica, regalando uno spaccato sociale degli espatriati che intrattiene e fa riflettere.

Pier e Simone

mercoledì 4 settembre 2024

Telegrammi da Venezia 2024 - #6

Sesto telegramma da Venezia 2024, tra celebri villain che si danno al musical, la storia del porno italiano, giovani adulti fissati con le morti celebri, guerre da prospettiva domestica, e folk horror in salsa calabrese.


Diva Futura (Concorso), voto 8. Giulia Steigerwalt, alla sua opera seconda, firma quello che è fin qui il film italiano migliore tra quelli in Concorso, la storia di Diva Futura, l'agenzia di casting e produzione specializzata in pornografia che lanciò, tra le altre, Cicciolina, Moana Pozzi, ed Eva Henger. Steigerwalt firma un'opera fresca, vitale, un inno alla libertà femminile ben girato sia a livello di immagini che di ritmo e direzione degli attori, con un bellissimo finale. Al centro di tutto c'è Riccardo Schicchi, folletto pieno di idee ed energia e di una visione pura e libera del corpo femminile, interpretato magistralmente da Pietro Castellitto. Accanto a lui le sue attrici, ma anche la segretaria Debora Attanasio, coscienza e colonna portante dell'agenzia. Ottima prova corale del cast femminile, tra cui spicca Barbara Ronchi nella parte della Attanasio.

Joker: Folie à Deux (Concorso), voto 8.5. Folie à Deux riparte dal finale di Joker (le rivolte), e racconta il momento in cui una persona diventa un simbolo, un'idea, che prende vita propria e si gonfia, si deforma, diventa sempre più mostruosa. Phillips ancora una volta usa il genere - anzi, i generi - per parlare dell'oggi, della realtà, e dei pericoli del futuro: vedremo se lo staremo a sentire, o se affonderemo, cantando e ballando mentre il mondo va in fiamme. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Paul and Paulette Take a Bath (Settimana della Critica), voto 7.5. Due ragazzi fissati con la storia e le morti famose si incontrano per caso a Parigi. Diventano amici, amanti, qualcosa di difficilmente definibile, mentre cercano se stessi e cercano di elaborare i propri traumi. Il film è uno strano pastiche di opere molto diverse come Harold & Maude e The Dreamers: il risultato, seppur con qualche passaggio a vuoto, funziona, e ci regala una storia divertente, malinconica, vera.

Honeymoon (Biennale College), voto 6.5. Una coppia ucraina decide di non lasciare il proprio paesino, convinti che la guerra non arriverà fin lì. Ovviamente si sbagliano. La vicenda è narrata tutta all'interno dell'appartamento, restituendo un'esperienza claustrofobica della guerra che funziona ma non ottiene un particolare impatto emotivo.

Basileia (Giornate degli Autori - Fuori Concorso), voto 6.5. Dopo una partenza alla Indiana Jones, il film cambia direzione e vira verso il folk horror con note ambientaliste.. La buona idea viene parzialmente affossata dallo scarso budget, che lascia una sensazione da "vorrei ma non posso." Però avercene di film italiani così ambiziosi.

Pier e Simone

martedì 3 settembre 2024

Telegrammi da Venezia 2024 - #5

Quinto telegramma da Venezia 2024, tra figli radicalizzati, documentari geniali su iconiche band, futuri distopici, esperimenti inutili, donne tradite, e donne che risolvono tradimenti.


The Quiet Son (Concorso), voto 7.5. Il racconto della crescente disperazione di un padre che assiste, impotente, alla radicalizzazione del figlio, che aderisce a gruppi di estrema destra. Un film che, pur non brillando per originalità della costruzione, è potente, a tratti devastante dal punto di vista emotivo grazie a una sceneggiatura solida e senza fronzoli e alla prova dolente del sempre bravissimo Vincent Lindon.

Pavements (Orizzonti), voto 8.5. Documentario geniale, non convenzionale, meta-filmico e folle. Insomma, perfettamente in linea con i Pavement, la band che racconta in maniera creativa e originale - talmente originale che non riveliamo il "trucco" per lasciare allo spettatore il piacere della scoperta. Un solo indizio: quella "s" nel titolo è, in parte, rivelatoria dell'approccio caleidoscopico alla narrazione. Parla ai fan, e anche a chi volesse scoprire da zero la storia dell'iconica band.

2073 (Fuori Concorso), voto 3. Immagini di repertorio rielaborate a fini narrativi per raccontare un futuro preconizzato senza alcuna originalità né guizzo creativo.

Possibility of Paradise (Giornate degli Autori - Evento Speciale), voto 2. Esperimento visivo poco riuscito, fatto di continui fermi immagine e immagini fuori fuoco, incomprensibile senza un commento esplicativo del regista.

Mistress Dispeller (Orizzonti), voto 6. Il film racconta una professione realmente esistente nella società cinese, quella di "terminatrice" di relazioni extraconiugali. Tra documentario e finzione, il film rivela un mondo di relazioni sull'orlo della distruzione, e dell'atto di equilibrismo richiesto per ricostruirle.

Don't Cry, Butterfly (Settimana della Critica), voto 8. I tormenti di una donna tradita che si sfoga con amiche e vicine, che le danno consigli bellicosi mentre una misteriosa macchia, visibile solo alle donne, si espande sul soffitto. La dramedy a tinte horror mette a nudo delle verità nascoste, raccontando al tempo stesso una cultura patriarcale in cui le donne devono lottare per il proprio spazio anche in assenza dei mariti.

Simone 

Telegrammi da Venezia 2024 - #4

Quarto telegramma da Venezia 2024, tra eutanasia, villaggi alpini e di campagna, perdita della memoria, e grandi registi che cercano di adattare grandi scrittori, con risultati altalenanti.


The Room Next Door (Concorso), voto 6.5. Almodovar realizza un film sull'eutanasia splendidamente recitato da Swinton e Moore (anche se la scelta di far fare due personaggi alla pur ottima Swinton risulta posticcia anziché efficace) e con una fotografia pittorica. Tuttavia, la sceneggiatura è eccessivamente verbosa, con una serie di monologhi simil-teatrali che riducono la credibilità e il coinvolgimento emotivo.

Vermiglio (Concorso), voto 7. Italia, anni Quaranta. Una famiglia che vive in un paesino sulle Alpi trentine vede la sua quotidianità sconvolta dall'arrivo di un fuggiasco dalla guerra e dalla crescita delle figlie. Film di respiro, fatto di quotidianità e atmosfere, che ricorda i lavori di Giorgio Diritti nella sua indagine del rapporto uomo-natura e delle relazioni umane. Tocca le corde giuste, nonostante una lunghezza eccessiva. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Familiar Touch (Orizzonti), voto 8. Una donna ancora autosufficiente ma con gravi problemi di memoria si trasferisce in una clinica. Toccante e commovente, il film affronta il problema del declino cognitivo dal punto di vista del paziente, ma senza indulgere né negli orrori della malattia né in facili pietismi. La protagonista (seria candidata al premio come migliore attrice della sezione Orizzonti) vive la sua quotidianità con leggerezza e sorrisi, cercando di trovare un raggio di luce nell'ombra che le sta calando nel cervello.

Queer (Concorso), voto 6.5. Guadagnino adatta l'omonimo romanzo di Burroughs, e conferma ancora una volta la difficoltà nel portare al cinema i romanzi della beat generation. La storia è infatti di scarso interesse, perché l'innovazione non sta nel "cosa" racconta Burroughs, ma nel "come": una prosa innovativa, che scardina le convenzioni sia a livello stilistico che narrativo. Guadagnino, invece, gira in modo iper-classico, e non bastano alcune scene allucinatorie per restituire lo stile di Burroughs. In generale, è difficile immaginare un regista meno adatto ad adattare l'autore più geniale del gruppo beat: laddove Burroughs è sporco, sudicio, distrutto, Guadagnino è pulito, lucido, patinato. Bellissima la forma (soprattutto l'uso di luce, debitore anche di Storaro nel finale, e colore); ma la sostanza è davvero poca.

Harvest (Concorso), voto 5. Un villaggio vive in pace con se stesso e la natura, vivendo una vera esistenza comunitaria, fino a quando un cambio nel proprietario terriero sconvolge la quotidianità dei protagonisti. Il film sembra indeciso su che strada prendere, flirtando con il folk horror e con il dramma d'epoca senza però mai prendere una decisione. Il risultato è un film confuso, lento, e sconclusionato, che non può essere salvato da alcune scene molto riuscite e dalla buona prova del cast.

Pier e Simone

domenica 1 settembre 2024

Telegrammi da Venezia 2024 - #3

Terzo telegramma da Venezia, tra film che sembrano canzoni di Jannacci, sparizioni illustri sotto la dittatura, maestri giapponesi, una "buddy cop" comedy rovesciata, e la testimonianza di un momento raro: la nascita di un capolavoro.


La Storia del Frank e della Nina (Orizzonti Extra), voto 8. Una fiaba contemporanea che sembra uscita da una canzone di Jannacci, che racconta gli invisibili (per scelta e per la società) e il disagio di una generazione con dolce creatività, immergendoli in una Milano sconosciuta, lirica, e bellissima.

Miyazaki, Spirito della Natura (Classici Doc), voto 6. Buon documentario per chi vuole conoscere la poetica e l'opera di Miyazaki. Per chi è già esperto nell'opera del maestro giapponese c'è poco, ma i materiali d'archivio sono comunque interessanti.

The Brutalist (Concorso), voto 10. The Brutalist è un film per cui non è fuori luogo l'abusata parola "capolavoro". Corbet ha realizzato un'opera destinata a fare la storia della settima arte, un film creativo, emotivo, cerebrale, che toglie il fiato per ambizione, portata, complessità a qualunque livello - narrativo, visivo, musicale, sonoro. Qui la recensione estesa scritta per Nonsolocinema.

Wolfs (Fuori Concorso), voto 7.5. Bell'incrocio tra gangster movie e cop comedy, con Clooney e Pitt che interpretano due "Mr. Wolf" che risolvono problemi e si trovano a dover collaborare quando vengono chiamati per risolverne uno. Watts scrive e dirige un film divertito e divertente, che gioca con gli stilemi del genere senza risultare banale.

Ainda Estou Aqui (Concorso), voto 7.5. La storia vera del desaparecido Rubens Paiva, fatto sparire dalla dittatura brasiliana negli anni Settanta, vista dal punto di vista di sua moglie, che fa di tutto per scoprire cosa gli sia successo. La forza nel film sta nei minuti iniziali, in cui il regista tratteggia uno splendido ritratto di famiglia, che ci fa affezionare ai protagonisti e rende ancora più straziante il momento del rapimento, e il vuoto, l'incertezza dilaniante che ne conseguono. Un po' sfilacciato sul finale, ma offre comunque un ottimo ritratto dell'epoca.

Pier

sabato 31 agosto 2024

Telegrammi da Venezia 2024 - #2

Secondo telegramma da Venezia, tra film adolescenziali inutili, mondi che finiscono mestamente, cinquanta sfumature di Kidman, amicizie con segreti, obiezioni di coscienza, e sette suprematiste.


Ecco i film visti nel primo giorno e mezzo di Mostra:

To Kill a Mongolian Horse (Giornate degli Autori), voto 7.5. Un allevatore della steppa mongola si guadagna da vivere come cavallerizzo negli spettacoli per turisti. Il film è una triste e lirica ode di un mondo che sta scomparendo, e di chi non si rassegna a lasciarlo andare, e offre una bella meditazione sul rapporto uomo-natura e su come la sua crisi sempre più irreversibile stia distruggendo un patrimonio culturale, oltre che faunistico e paesaggistico.

Diciannove (Orizzonti), voto 3. Un Ecce Bombo che non ce l'ha fatta. Inutile.

Babygirl (Concorso), voto 5.5. Una donna di potere cerca un rapporto di sottomissione nella sfera sessuale, e lo trova con un giovane stagista. Tema potenzialmente interessante ma declinato con desolante banalità. Il film risulta quindi di scarso impatto nonostante la buona prova dei protagonisti, Kidman in testa.

Trois Amies (Concorso), voto 7. Tre amiche che non si confessano tutti si trovano a vivere inaspettati sconvolgimenti nelle loro vite sentimentali. Divertente ma anche abbastanza profondo, il film funziona ed esplora la complessità delle relazioni senza essere mai banale.

Campo di Battaglia (Concorso), voto 5.5. Amelio firma un film che, nonostante un solo attore presentabile (Borghi) e dei dialoghi macchinosi, per metà offre un'interessante meditazione sui dilemmi etici della guerra. Poi si perde, correndo dietro all'influenza spagnola e abbandonando il cuore emotivo e morale del film. Peccato.

The Order (Concorso), voto 7.5. Già il fatto che questa sia una storia vera (setta neonazista che ha terrorizzato gli USA per oltre un anno) fa impressione: il fatto che la storia sembri addirittura attuale è preoccupante. Justin Kurzel firma un film teso e ben eseguito, che richiama True Detective, tra indagini ostacolate dall'omertà della comunità e degli agenti dell'FBI che fanno i conti con il proprio passato, tra cui spicca un ottimo Jude Law.

Pier

venerdì 30 agosto 2024

Telegrammi da Venezia 2024 - #1

Come ogni anno, Film Ora è a Venezia, e vi accompagnerà per tutta la Mostra del Cinema con i suoi telegrammi, recensioni brevi dei film visti nelle varie sezioni. Una Mostra con tantissimi titoli interessanti, che promette belle sorprese e anche qualche inevitabile delusione.


Ecco i film visti nel primo giorno e mezzo di Mostra:

Beetlejuice, Beetlejuice (Fuori Concorso), voto 7. Burton torna all'universo (e al genere) che lo ha reso famoso e firma una dark comedy divertente e divertita, meno dissacrante dell'originale ma con una verve visiva finalmente ritrovata - per quanto in parte già vista -  dopo gli innumerevoli passi falsi disneyani. Tematicamente Beetlejuice, Beetlejuice dimostra un'attenzione maggiore al lato emotivo della narrazione: mentre Keaton gigioneggia adorabilmente, Burton trova il tempo di parlare del male nascosto dei sobborghi USA, di lutto, e di relazioni familiari.

Separated (Fuori Concorso), voto 7.5. Morris firma un efficace documentario sulla family separation policy dell'amministrazione Trump. Lo fa con un piglio di denuncia alla Michael Moore ma uno stile più sobrio, secco, espositivo, che colpisce dritto allo stomaco proprio per la pulizia della narrazione, e viene solo parzialmente sporcato dalla scelta di avere delle parti ricostruite che ondeggiano tra il ridondante e l'inutile. Qui la recensione completa fatta per Nonsolocinema.

Nonostante (Orizzonti), voto 5. Uno spunto potenzialmente geniale - un ospedale abitato dalle anime di chi è in coma - elaborato in maniera pasticciata, confusa, senza né capo né coda. Peccato, perché per ambizione e creatività visiva questa opera seconda da regista di Mastandrea poteva essere molto di più.

El Jockey (Concorso), voto 8.5. Si può parlare di identità (di genere, ma non solo) facendo un film sull’ippica? La risposta è sì. El Jockey è un film sulla necessità di rinnovarsi e sul potere catartico di questo atto di riscoperta, in grado di correggere la rotta di una vita lanciata come un cavallo in corsa, riuscendo a evitare che si schianti sulle balaustre e facendolo invece correre, finalmente, libero, verso un futuro non ancora scritto.Qui la recensione completa fatta per Nonsolocinema.

Maria (Concorso), voto 7. Larrain racconta la Callas in modo patinato, attraverso un melodramma perfettamente confezionato ma scontato, che si concentra sulle sue storie d'amore e sulla sua natura di diva tanto quanto sulla sua musica. Peccato, perché il dramma di una donna che non riesce più a fare ciò che l'ha resa immortale meritava più spazio, così come altri capitoli della sua vita artistica (il rapporto con Visconti e Di Stefano e la sua carriera cinematografica in primis) che potevano sostituire molti inutili siparietti domestici (soprattutto) e alcune delle interazioni con Onassis. Il film risulta comunque ben riuscito grazie a una prova strepitosa di Angelina Jolie, che dà corpo e voce alla fragile divinità della Callas.

Pooja, Sir (Orizzonti), voto 6.5. Il film racconta un indagine su un caso di rapimento in Nepal, sullo sfondo di tensioni etniche e discriminazione di genere. Il film funziona, pur senza guizzi significativi e con una lunghezza forse eccessiva: è teso il giusto e la tematica culturale è affrontata con un taglio umano che conquista.

Pier


sabato 24 agosto 2024

Tesori Nascosti - #9

Torna "Tesori nascosti", la rubrica che segnala film meritevoli di recupero passati inosservati o quasi in Italia.
Ogni film è corredato di voto, informazioni su dove reperire il film, e di un breve commento o un link alla nostra recensione.


1. Sicario, voto 9
Generethriller
Anno: 2015
RegistaDenis Villeneuve
DVD: sì, edizione italiana
Streaming: RaiPlay
Commento: Film imperdibile per gli amanti del poliziesco, Sicario è un thriller teso come una corda di violino ambientato nel mondo dello spaccio al confine con il Messico. Una storia oscura, in cui nessuno è come sembra e l'ombra domina la luce, costringendo tutti a compromessi con la propria coscienza. Villeneuve gira con la solita sapienza tra piani sequenza mozzafiato e chiaroscuri in silhouette che meravigliano e terrorizzano.

2. Eighth Grade, voto 8
Generecommedia
Anno: 2018
RegistaBo Burnham
DVD: no
Streaming: Prime Video, AppleTV (noleggio)
Commento: Il debutto alla regia di Bo Burnham, attore e comico statunitense, è un dolce e divertente racconto degli imbarazzi dell'adolescenza al giorno d'oggi, che potrebbe essere la versione più adulta dell'ultimo capitolo di Inside Out. Burnham racconta alla perfezione anche l'arma a doppio taglio dei social, che possono essere strumento di connessione ma anche di isolamento. Intelligente e mai banale, il film è stato un caso negli USA, ma ha misteriosamente trovato scarsa distribuzione qui in Italia.

3. Impiegati...male, voto 7.5
Genere: commedia
Anno: 1999
Regista: Mike Judge
DVD: sì, edizione italiana
Streaming: Disney+
CommentoUn cult della commedia statunitense, che ha avuto meno successo in Italia, forse a causa dell'orrido titolo in traduzione, Office Space è un'eccellente satira del lavoro d'ufficio, sviscerato in tutte le sue nevrosi e fissazioni. Il desiderio di fuga dei protagonisti è quello di un'intera generazione, e anticipa tematiche contemporanee come le "grandi dimissioni" e il quiet quitting. Imperdibile per chi ama The Office, e in parte anche per i fan di Friends (Jennifer Aniston è la protagonista).

4. The First Slam Dunk, voto 9
Genere: drammatico, sportivo
Anno: 2022
Regista: Takehiko Inoue
DVD: in uscita, edizione italiana
Streaming: Prime Video
Commento: Un capolavoro dell'animazione giapponese e del cinema sportivo, The First Slam Dunk è imperdibile per chi ha amato manga e serie anime, ma riesce a parlare anche a chi scopre ora il mondo dello Shohoku, raccontando la scelta di dolore e redenzione del giovane Ryota e, in parallelo, anche quella dei suoi compagni. Sequenze finali da brividi. Qui trovate la recensione estesa.

5. Shiva Baby, voto 8.
Genere: commedia drammatica
Anno: 2021
Regista: Emma Seligman
DVDsì, edizione italiana
Streaming: Mubi
CommentoFulminante esordio alla regia di Emma Seligman, che racconta un momento di disorientamento della giovane ebrea Danielle. Iscritta all'università ma incapace di continuare, Danielle ha costruito un castello di bugie che rischia di crollare quando i genitori la costringono alla seduta di shiva (rituale di lutto ebraico) di un'amica di famiglia. Seligman realizza un film esilarante ma claustrofobico, con una fotografia sincopata e invadente che rappresenta al meglio il crescente disagio di Danielle, intrappolata in una casa (e in delle aspettative, sia professionali che sentimentali) da cui vorrebbe solo fuggire per poter finalmente essere se stessa.

6. Non pensarci, voto 9.
Genere: commedia drammatica
Anno: 2007
Regista: Gianni Zanasi
DVDsì, edizione italiana
Streaming: RaiPlay
Commento: Un musicista è costretto a tornare a casa dalla famiglia, titolare di una ditta che produce marmellate, dopo averli accuratamente evitati tutta la vita. Gianni Zanasi firma una commedia drammatica da manuale che racconta alla perfezione e con piglio quasi sociologico la provincia italiana in tutti i suoi pregi e difetti. I personaggi sono imperfetti ma ci si affeziona inesorabilmente, portandoci a tifare per il loro successo a dispetto di tutti i loro errori. Cast stellare, con Mastandrea a una delle sue prove migliori in carriera.

Pier

sabato 27 luglio 2024

Deadpool & Wolverine

Il finto stupido


Wade Wilson ha smesso di essere Deadpool, ma la sua vita non ha preso una bella piega. Vanessa lo ha lasciato, e il suo lavoro come venditore di auto arranca. Un giorno viene però rapito dalla TVA, che gli comunica che la sua linea temporale sta per morire. Ma Deadpool non ha intenzione di lasciare che accada. Per salvare coloro che ama ha però bisogno dell'aiuto del compagno più improbabile che ci sia: Wolverine.

C'è un archetipo letterario che è particolarmente amato dal cinema e dalla televisione, quello del finto stupido: il personaggio che sembra ingenuo e idiota, un bonaccione incapace di alcuna furbizia o sottigliezza, e che si rivela invece un passo avanti agli altri, dotato di una profondità impossibile da intuire alla vista. Da Kaiser Soze ad Hanamichi Sakuragi, gli esempi si sprecano. Deadpool è un finto stupido da manuale, e una delle grandi intuizioni di Ryan Reynolds è stata quella di tradurre questa caratteristica a livello metanarrativo, costruendo due film che all'apparenza erano solo degli ottovolanti colorati, fracassoni, e politicamente scorretti, ma in realtà raccontavano (soprattutto il primo) traumi, perdite, senso di inadeguatezza molto meglio di film molto più celebrati e "seri."

In Deadpool & Wolverine questa operazione viene portata alle sue estreme conseguenze: Shawn Levy firma un film iperstratificato che a tratti arriva a essere meta-metanarrativo - un meta al quadrato in cui si racconta non solo l'atto del narrare, ma il contesto che circonda il narratore, la macchina produttiva in cui si trova immerso. Deadpool è Ryan Reynolds, e viceversa, e questa identità non viene nascosta ma diviene parte del punto di vista del mercenario più loquace di sempre, il narratore che ci porta a spasso per il Multiverso, e in particolare nella sua parte ormai morta: l'universo Fox.

Finto stupido, olio su tela

Deadpool & Wolverine è infatti, prima di tutto, una lettera d'amore a un genere e a un'epoca, quella Fox, che è stata superata dal nuovo corso dei cinecomic, fatti di universi condivisi, crossover, e storie che compongono un puzzle più grande. Nel celebrare queste storie, il "finto stupido" tira stilettate non indifferenti a chi le ha fatte finire del Vuoto, pronte a essere divorate dal MCU Disney, qui impersonato da Alioth, mostro che condanna all'oblio. Se questo riferimento non fosse abbastanza, la villain, Cassandra Nova (interpretata da un'eccellente Emma Corrin) è una telepate che mette le mani nei ricordi ed è in grado di alterarli, modificarli, riplasmarli a suo piacimento: anche qui, il riferimento a Disney e alla sua operazione di ri-costruzione di un universo, con conseguente accantonamento di tutto ciò che non può essere integrato, è abbastanza palese. 
L'amore di Reynolds e Levy per il materiale si vede anche nella scelta dei cameo, mai scontati né dettati dalla popolarità, ma solo da un genuino amore per ciò che è stato e ciò che poteva essere, errori e passi falsi compresi. 

Al centro della narrazione c'è il simbolo di questo universo morente, nonché sua unica speranza di salvezza: quel Wolverine/Logan che avevamo salutato in una sua incarnazione nello splendido Logan (qui omaggiato in modo irriverente e, dunque, paradossalmente rispettoso) e che torna in quella che forse è la sua apparizione più vicina alla sua controparte fumettistica. La venerazione di Reynolds per Hugh Jackman è quella dei fan, che lo amano per aver sempre dato tutto se stesso al personaggio, anche nei film peggiori, anche quando era ormai un attore affermato. Ma è anche quella di Deadpool stesso, in un gioco di incroci meta che non stanca ma rafforza ogni suo elemento, rendendolo godibile e facendo esultare spettatori e personaggi all'unisono in momenti di fan service mai gratuiti, ma sempre integrali alla trama. Jackman risponde regalando una prestazione stellare, divertente, dolente, rabbiosa, accettando di prendersi in giro e, al tempo stesso, prendendo tutto tremendamente sul serio.


È in questo bilanciamento tra scanzonatura e serietà, parodia e omaggio, fan service e attenzione alle esigenze narrative che sta la forza di Deadpool & Wolverine: dietro una patina di volgarità, violenza, e battute demenziali si nasconde un film pieno di cuore e amore per i personaggi, nonché il film che ha saputo utilizzare meglio il concetto di Multiverso a fini narrativi, superando anche altri tentativi ben riusciti come No Way Home (dove però il Multiverso era solo un "pericolo incombente") e il secondo Doctor Strange (dove il Multiverso era solo un'ambientazione, per quanto ben sfruttata). Non tutto funziona alla perfezione, con qualche lungaggine evitabile e alcuni punti di trama (il rapporto tra Deadpool e Vanessa) affrontati troppo rapidamente, ma il risultato è comunque eccellente - un piatto che soddisfa nonostante la molteplicità di ingredienti buttati nella pentola, solo apparentemente a casaccio. 

Deadpool & Wolverine è divertente, fracassone, e lascerà i fan a bocca aperta con le sue invenzioni, i suoi combattimenti (quello sulle note di Like a Prayer è già da antologia) e le sue battute. Tuttavia, è anche qualcosa di più: un omaggio a un'epoca e a dei personaggi che hanno suscitato emozioni e raccontato storie che rimarranno con gli appassionati; un inno al potere della memoria e dei legami personali, unica costante in un universo in continuo cambiamento. Un finto stupido, appunto, che tocca le corde emotive dello spettatore molto più in profondità di quanto faccia intendere.

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Pier

venerdì 26 luglio 2024

Fuga in Normandia (In pillole #28)

Fare i conti con il passato


La storia (vera) della rocambolesca fuga in Normandia di un veterano inglese del D-day residente in casa di riposo è in realtà un pretesto per parlare di uno dei temi più presenti e, evidentemente, pressanti del cinema contemporaneo: la memoria. Il racconto del viaggio si interseca infatti con i ricordi di Bernard, che in Normandia ci andò ben due volte, e di Rene, che ricorda il loro incontro, il dolore nel vederlo partire, e la loro vita insieme. Ma si interseca anche con la memoria di interi popoli e nazioni, rappresentati dalle persone che Bernard incontra durante il suo viaggio: altri reduci, tormentati da ricordi indelebili, da colpe irrimediabili per cui l'unica speranza sono l'assoluzione e il dolce balsamo dell'oblio.

Fuga in Normandia è anche un film che parla di pace, di dialogo, dell'orrore della guerra che travolge persone che si trovano per puro caso dalle due parti opposte della barricata, e che in tempi normali potrebbero condividere una birra, e che sono unite da un dolore immenso, che può però divenire occasione di riconciliazione, come suggerito in una delle scene più riuscite del film.

Il grande merito di William Ivory (sceneggiatore) e Oliver Parker (regista) è quello di riuscire ad affrontare questi temi senza retorica e senza indulgere nello sdolcinato, ma alternando sapientemente momenti divertenti a momenti di grande potenza emotiva. A sostenerli ci sono le superbe prove di Michael Caine e Glenda Jackson, che si offrono alla macchina da presa senza aver paura di mostrare i segni della vecchiaia, regalandoci una coppia memorabile per complicità e realismo, e mostrando al pubblico il vero significato della parola "amore." 

Questo film, che sarà per entrambi il loro ultimo lavoro, (Caine ha annunciato il ritiro dalle scene, mentre Jackson è morta poco dopo la fine delle riprese) è un testamento perfetto a due carriere esemplari, e a una storia finora sconosciuta ma che invece ha tanto da insegnarci sui lati più oscuri e più brillanti della natura umana.

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Pier

sabato 20 luglio 2024

Fremont

Poesia della solitudine


Costretta a lasciare l'Afghanistan, dove lavorava come interprete per l'esercito USA, dopo il ritorno al potere dei Talebani, Donya ora vive a Fremont e lavora a San Francisco in un'azienda che produce biscotti della fortuna. La ragazza cerca di ricostruirsi una vita, facendosi strada tra i traumi del passato che le impediscono di dormire e personaggi bizzarri ma ricchi di cuore.

Ci sono film che ti fanno uscire dal cinema con il cuore pieno di bellezza e poesia, un sorriso stampato sul volto. Fremont è uno di quei film: un film all'apparenza semplice, senza pretese, che però entra sotto pelle per la sua capacità di trattare temi complessi senza pietismo né retorica, ma semplicemente attraverso immagini, dialoghi, e personaggi cui è impossibile non affezionarsi. 

Babak Jalali, coadiuvato alla scrittura dalla milanese Carolina Cavalli, firma un'opera che ricorda il Jarmush delle origini, sia per lo splendido bianco e nero con cui viene fotografata, sia per una storia i cui ingredienti sono una spolverata di humor dell'assurdo e tante solitudini che si incontrano quasi per caso e si riconoscono, rispettando i dolori e i non detti l'uno dell'altra e trovando una connessione umana ed emotiva.

Donya è straniata, fa parte di più mondi senza appartenere davvero a nessuno: alcuni afghani della sua comunità la respingono perché ha collaborato con il nemico, la moglie del suo capo non si fida di lei perché non è cinese, e non riesce (e forse non vuole) a integrarsi nella società statunitense. Il suo passato è fatto di traumi, e solo nelle sedute psicologiche con l'eccentrico dottor Anthony riesce a far emergere ciò che ha a lungo sopito, i mostri che intuiamo dai suoi lunghi ma eloquentissimi silenzi. Jalali tuttavia non indulge nel dramma, ma si focalizza sulle relazioni, sui legami sottili e poi sempre più spessi che portano Donya a uscire dal suo isolamento, a ritrovare la sua socialità, come lo Zanna Bianca spesso citato dal dottor Anthony durante le sedute. 

Oltre al dottore, ad aiutarla ci sono un capo cinese dallo humor particolare che vede la produzione di biscotti della fortuna come un'arte che va affinata e coltivata, e ha imparato nel tempo a leggere il cuore delle persone; una collega in cerca di amore e dalla voce d'angelo; un conterraneo generoso; e un meccanico intrappolato in una solitudine malinconica, ancora più inesorabile di quella di Donya. Quest'ultimo, interpretato magistralmente da Jeremy Allen White (il Carmy Berzatto di The Bear), con poche scene ci fa intuire un mondo fatto di isolamento, lavoro, e disperato desiderio di una connessione umana.

Fremont è una piccola perla poetica, dolce, esistenzialista, che racconta con efficacia la solitudine e la battaglia invisibile che molti affrontano per sconfiggerla: parla di temi drammatici senza essere un dramma e, anzi, flirtando a tratti con la commedia. È un film pieno di silenzi, ma parla con forza al cuore. È un film fatto di niente, ma racconta tutto. Non perdetelo. 

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Pier