sabato 25 ottobre 2025

Bugonia

La morte dell'umanità


In Matrix, uscito nel 1999, l’agente Smith definiva gli esseri umani dei parassiti, una specie capace solo di sfruttare il proprio ospite fino a portarlo alla morte. Se questo punto di vista sembrava allora eccessivamente cinico, oggi ci ritroviamo di fronte alla sua inconfutabile verità. Consumiamo più risorse di quante la Terra possa produrne, specie animali si estinguono a causa nostra, e guerre pretestuose mirano ad annichilire interi popoli. Il pianeta è in fiamme, e i piromani siamo noi.

Su questa premessa si fonda anche Bugonia, il nuovo film di Yorgos Lanthimos, remake di un film coreano del 2003, Save the Green Planet!. Bugonia è un film cinico, in cui anche le corse in bici di spielberghiana memoria perdono ogni fascino e divengono lame taglienti e disperate. Un film che unisce il Lanthimos degli esordi a quello “hollywoodiano”, trovando una sintesi cupa e disperata ma anche deliziosamente grottesca, che riesce a fondere sperimentazione e linearità narrativa. Lanthimos sviscera la stupidità umana in tutte le sue forme: dall’incapacità di non cedere ai propri impulsi primari alla totale mancanza di spirito critico; dalla bellicosità alla totale noncuranza per le altre creature che abitano il pianeta con noi, passando per il progressivo asservimento alla logica del profitto a tutti i costi.

La genialità di Lanthimos sta nel fatto che, a differenza di altre film con tematiche simili, non c’è un paladino del bene che si batte contro un’umanità cieca e corrotta. Tutti i protagonisti sono portatori sia di idee positive, sia di deliri autodistruttivi che spaziano da quello di onnipotenza a una credulità e irresponsabilità bambinesca. Tutti i protagonisti, tuttavia, credono di essere i paladini del bene. La totale incapacità di accettare le proprie colpe, la certezza incrollabile di essere nel giusto anche di fronte all’evidenza del contrario, la necessità di dover trovare un nemico, un colpevole per le proprie sofferenze guidano sia Teddy che Michelle, per quanto siano animati da motivazioni diametralmente opposte.

In Bugonia non c’è nemmeno la catarsi tipica della tragedia greca (una delle grandi ispirazioni del cinema di Lanthimos), quantomeno per i suoi protagonisti: la cecità li porta all’autodistruzione senza nemmeno rendersene conto, e solo un deus ex machina può evitare che questa distruzione si estenda anche al pianeta. Non c’è pentimento, non c’è redenzione: solo una spirale di follia. Il reale e il fantastico si inseguono per tutto il film, in un gioco di disvelazioni che, alla fine, non ha vincitori, e che mette in dubbio il concetto stesso di reale.

Questo aspetto si riflette anche nell’aspetto visivo, dove Lanthimos sceglie una fotografia realistica costellata di momenti surreali e alieni, creando un senso di straniamento che rispecchia e rinforza la tensione narrativa. Ad aiutarlo contribuiscono anche le prove eccezionali di Jesse Plemons, concentrato di fragilità, effetto Dunning-Kruger, e sadismo, e Emma Stone, affascinante e respingente al tempo stesso, e manipolatrice come solo un’aliena o un’amministratice delegata di Big Pharma potrebbero essere.

Bugonia è un film ipnotico, che si nutre di opposti: una tragedia in cui si ride, un film senza speranza che mira a risvegliare le coscienze, una storia in cui il villain non è nessuno e, al tempo stesso, siamo tutti noi, con un finale che pietrifica e, al tempo stesso, lascia con un senso di giustizia compiuta. Lanthimos realizza un’opera che entra dentro il cuore e l’anima e li diliania lentamente, lasciando dietro di sé solo silenzio – un silenzio che, forse, rappresenta un nuovo inizio.

**** 1/2

Pier

Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

giovedì 23 ottobre 2025

After the Hunt

Bulimia autoriale


Alma Himoff insegna Filosofia a Yale, dove sta per ottenere la tanto attesa cattedra. È stimata da tutti, ma ha dei segreti: un problema di salute di cui non parla con nessuno, e un passato che sembra infestare i suoi ricordi. Una notte, la sua dottoranda, Maggie, si presenta a casa sua raccontandole di essere stata molestata da Hank, un altro docente. A questo punto, Alma si trova in preda a un dilemma etico: credere alla sua studentessa, o concedere il beneficio del dubbio al suo collega. 

Esiste un problema di bulimia artistica? Può un regista finire per divorare se stesso? Possono troppi film in poco tempo danneggiare l'ispirazione? La risposta varia varia da regista a regista (Woody Allen ha fatto un film all'anno per molti anni la varianza era tra "gradevole" e "grandissimo film"), ma è evidente che, per la maggior parte, la risposta è "sì": Terrence Malick, per dirne uno, ha pagato il suo unico periodo di iperprolificità con i suoi film peggiori o comunque meno ispirati. 

Nella trappola sembra essere ora finito anche Luca Guadagnino, al suo terzo film negli ultimi tre anni, quarto negli ultimi quattro: e non è un caso che quello che è di gran lunga il migliore sia il primo di questo tour de force autoimposto, Bones and all; e che quello meno salvabile sia proprio questo After the Hunt, in cui il regista ha poche idee e pure confuse.

Per correttezza va evidenziato che il problema principale risiede nella sceneggiatura di Nora Garrett, che vuol fare The social network ma senza avere il senso della narrazione e la brillantezza dei dialoghi di Aaron Sorkin. L'idea sarebbe di fare un thriller psicologico del quotidiano, un racconto sulla banalità e ambiguità del male sulla cifra di quello perfettamente realizzato dal connubio Fincher-Sorkin. Il risultato è una storia sfilacciata e inconcludente a livello sia tematico che narrativo, con dialoghi pomposi e verbosi. In The social network la tensione si tagliava con il coltello, la freddezza entrava nelle ossa: qui la tensione è inesistente, la freddezza è solo forma senza sostanza, e il coltello vorrebbero averlo gli spettatori.

Quella che dovrebbe essere una riflessione su un tema etico importante e attualissimo (quello della tensione tra credere alle vittime e il principio giuridico della presunzione di innocenza) risulta solo un esercizio retorico poco stratificato, che offre solo pochi spunti di riflessione. La tensione è quasi del tutto assente, e arriva solo grazie alla buona prova di Julia Roberts e alle musiche (bellissime, anche se spesso fuori posto) di Reznor e Ross. 

Guadagnino dona al film i suoi momenti più interessanti grazie a una regia claustrofobica e un'ottima direzione degli attori, ma a volte aggiunge problemi, anziché risolverne, soprattutto quando si perde in inquadrature inspiegabili (lunghi momenti fuori fuoco, la camera a mano, la fissazione per le mani). Questi momenti sembrano puro esercizio di stile, l'espressione di un desiderio hitchockiano di restituire lo sguardo dei personaggi che però non ha alcuna connessione con il tessuto narrativo. Il "ricciolo" di Vertigo era collegato alla trama, funzionale al racconto: Guadagnino qui pare esserselo dimenticato, perso in un vortice di mani e mal di mare (dello spettatore).

After the Hunt è un film democristiano nel senso più deteriore del termine, che sembra guidato da un desiderio furbetto di essere anti-anticonformista più che dall'avere un messaggio da comunicare. Il film si fa paladino del "non si può più dire niente" e critica i giovani mollaccioni, ma poi scivola spesso e volentieri in quella che sembra una parodia dei boomer degna di quelle che si trovano sui social media. 

In breve si può dire che After the Hunt è un film pavido, sfiatato, che non ha il coraggio di prendere posizione nè riesce a far passare l'ambiguità tematica di cui vorrebbe, forse, farsi portatore, e anzi finisce per divorarla, come Crono con i propri figli. Al paziente-regista il medico prescrive un rewatch del lavoro di Sorkin e riposo, tanto riposo.

** 1/2

Pier

lunedì 29 settembre 2025

Una Battaglia Dopo l'Altra

L'urlo e il furore

It is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing.
William Shakespare, Macbeth


In un presente distopico, Bob Ferguson, entra a far parte dell'organizzazione rivoluzionaria French 75. Dopo essersi ritirato, Bob si occupa a tempo pieno di Willa, figlia sua e di Perfidia, sua compagna di rivoluzione. Il passato, tuttavia, si presenta a chiedere il conto nella forma del colonnello Lockjaw, già sua nemesi in passato, deciso a eliminare Willa per motivi oscuri a Bob.

Realizzare un film come Una battaglia dopo l'altra subito dopo Licorice pizza sembra l'ennesima testimonianza dell'eclettismo di Paul Thomas Anderson, che passa da un coming of age a un film sulla rivoluzione armata, quasi tarantiniano per gusto espressivo, di personaggi, e umoristico. Tuttavia, i due film sono più simili di quanto sembri: sono due film cinetici, sempre in movimento, in cui si corre a perdifiato da una parte all'altra, con al centro una relazione, due persone che vogliono solo stare insieme ma che agenti esterni si ostinano a voler separare. Sullo sfondo, una crisi inesorabile - quella petrolifera in Licorice pizza, quella dell'immigrazione in Una battaglia dopo l'altra - che è specchio di una crisi più ampia, quella della società statunitense (e non solo).

Anche il ritmo dei due film è identico, una sonata jazz fatta di continui cambi di ritmo, imprevedibile nella sua capacità di cambiare pelle, scartare di lato, cambiare prospettiva. Laddove Licorice pizza era un film solare, tuttavia, Una battaglia dopo l'altra è una sonata cupa, dove la speranza è ridotta al lumicino e il Male divora principi e valori e mettendo tutti contro tutti, in una guerra fratricida dove "il più forte dovrà infine tra tutti trionfar". Il Male, incarnato dal colonnello Lockjaw, da ICE, e da un movimento suprematista devoto al Natale e a San Nicola, non dà tregua, come il T-1000 di Terminator 2 (una saga che Anderson sembra voler esplicitamente citare), e ai combattenti non restano che due scelte: arrendersi e tradire i propri ideali, oppure una fuga per continuare la battaglia in tempi migliori.

Il primo atto è un inno alla ribellione, un inno fatto di urla, bombe e furore, ma anche di amore, passione carnale, solidarietà e valori. Il furore, tuttavia, si spegne sotto una pioggia malsana che si fa inondazione, e che vuole stroncare ogni ideale rivoluzionario, renderlo senza significato, la "storia raccontata da un idiota" del Macbeth: alcuni cedono, alcuni scompaiono, ma alcuni continuano a combattere, per scelta o mancanza di alternative. 

L'urlo continua, sopito ma non soffocato, e ci porta nel secondo atto, quello più indebitato a Tarantino ma anche a David Lynch, una fuga continua e allucinata fatta di ninja che sfrecciano in skateboard, parole d'ordine dimenticate, e sensei latini che salvano immigrati irregolari. Surreale e reale si sovrappongono e divengono tutt'uno, ciò che accade supera in inverosimilità ciò che immaginiamo o alluciniamo, la battaglia infuria dentro e fuori di noi.
Il terzo atto è quello leggermente meno riuscito, causa alcune lungaggini forse evitabili, ma ci regala una sequenza di inseguimento da antologia, un mix tra il primo Mad Max e un western crepuscolare alla Sam Peckinpah, in cui ogni onore viene abbandonato e l'unica cosa che conta è sopravvivere, continuare a correre.

Anderson dipinge il film con pennellate rabbiose, pastose, lunghi piani sequenza insistenti, asfissianti, che si inseguono senza soluzioni di continuità: ogni stacco di montaggio è un respiro profondo prima di immergersi nuovamente nell'azione, in apnea, incalzati e inseguiti dal passato che vuole chiudere i conti, dal presente che vuole riaprirli, e da un futuro che si preannuncia pieno di urla, furore e sangue. Jonny Greenwood, chitarrista dei Radiohead, già compositore della colonna sonora de Il filo nascostocostruisce un perfetto riflesso musicale della storia narrata, una serie di melodie rapsodiche, sincopate, che accompagnano ogni scena con un'insistenza quasi sfinente.

Il cast è perfetto, da un Di Caprio travolto dalla vita ma deciso a sopravvivere a un Benicio Del Toro sornione e imperturbabile, che ricorda il personaggio di Brad Pitt in C'era una volta a Hollywood per coolness esibita al minuto. A brillare, tuttavia, sono soprattutto le protagoniste femminili: Teyana Taylor, che esprime un desiderio di vita e giustizia quasi animale con la sua perfidia, e la giovane Chase Infiniti, una forza della natura che non accetta di scomparire e di essere messa a tacere: scalcia, combatte, sopravvive, incarnazione vivente della battaglia del titolo, della lotta che continua. E poi, c'è lui, il Male, il colonnello Lockjaw di Sean Penn: un villain da antologia, fragile e violento, magnetico e buffo, incarnazione perfetta della banalità del Male, della crudeltà profonda di chi si crede protagonista ma dentro di sé sa di essere destinato a rimanere sullo sfondo, e dà così sfogo a una rabbia nichilista che tutto travolge, tutto divora.

Una battaglia dopo l'altra è un ritratto spietato dell'umanità, tratteggiata nei suoi tratti più ridicoli e più spaventosi, più nobili e più perversi, una melodia cangiante che si fa ora cacofonica, ora armonica, con due temi che si inseguono e non possono esistere l'uno senza l'altro: da un lato l'incedere devastante e inesorabile del Male, dall'altro chi prova a resistere, fuggendo, nascondendosi, ma tenendo sempre viva la fiamma di un fuoco ribelle che non accenna a spegnersi e continua a far divampare la speranza. E la battaglia continua.

**** 1/2

Pier

Life of Chuck

Ogni vita è meravigliosa


L'apocalisse sembra arrivata. Mentre tutto crolla, qualcuno celebra la vita di un certo Chuck Krantz, contabile. Da qui inizia un percorso a ritroso in cui scopriamo chi è Chuck e perché sia giusto celebrarlo.

Cosa contiene una vita? Questa la domanda che sembra muovere il racconto di Stephen King da cui è tratto il film: una lettura quasi letterale della famosa poesia di Walt Whitman Contengo moltitudini; un racconto lirico, meditativo, ben lontano dalle atmosfere da "maestro del brivido" per cui è famoso. Ma tutti gli appassionati di cinema sanno che, con la notevole eccezione di Shining, i migliori adattamenti kinghiani sono spesso poco horror - da Le ali della libertà passando per Stand by me e Il miglio verde. 

Life of Chuck si iscrive a questi precedenti illustri grazie all'adattamento sapiente di Mike Flanagan, anch'egli noto per il genere horror (sue sono alcune delle migliori serie TV nel genere degli ultimi anni, dalle due Haunting a Midnight Mass, passando per La caduta della casa degli Husher e Midnight Club: chi le ha viste riconoscerà numerosi attori e attrici di queste serie nel film). Flanagan, come King, prova di saper trascendere il genere che lo ha reso famoso, mostrandosi pienamente a suo agio nel raccontare un inno alla vita (qualcuno potrebbe evidenziare come l'orrore sia un modo di celebrare, per contrasto la bellezza della quotiadinità). È difficile raccontare Life of Chuck senza spoiler, ma ci proveremo: è diviso in tre atti raccontati in ordine cronologico inverso, e si focalizza sulla vita di un uomo di nome Chuck. 

Inizia come un film distopico, e prosegue come una celebrazione della gioia di vivere, della bellezza delle piccole gioie del quotidiano, del piacere del riscoprire una passione sopita. Il secondo atto è fatto di musica e danza, mentre nel terzo le tematiche del film si incontrano e tutte le fila si tirano: c'è ancora il ballo, certo, ma ci sono anche le vite che, intrecciandosi, costituiscono quel macrocosmo che è ciascuna esistenza; c'è il lutto, il dolore della perdita, ma anche la gioia di trovare e ritrovare passioni; c'è, infine, il desiderio di vivere la propria vita a fondo, superando gli ostacoli che società e destino vogliono metterci davanti.

Flanagan dirige con mano invisibile, senza i virtuosismi che altri registi esibirebbero in alcuni momenti, ma riesce comunque a confezionare alcuni momenti memorabili. Tra questi spicca la danza del secondo atto, un'esplosione di gioia e vitalità magistralmente disegnata da Mandy Moore, probabilmente la miglior coreografa su piazza quando si tratta di creare danze ambientate nel tessuto urbano (sue anche le coreografie di La La Land). L'esibizione spontanea di Tom Hiddleston e Annalise Basso è ipnotica, sensuale, un'esplosione di gioia e al tempo stesso un enigma, una finestra sull'anima di due persone ferite e in cerca di redenzione. Se la danza del secondo atto è senza dubbio la scena migliore dal punto di vista cinematografico, quella del terzo atto eseguita da un giovane Chuck e dalla sua compagna di ballo Cat è quella che più tocca al cuore, soprattutto grazie alla purezza e all'entusiasmo contagioso dei due attori-ballerini, Benjamin Pajak (eccezionale, il cuore pulsante del film) e Trinity Jo-Li Bliss.

Tutto il cast è diretto magistralmente. Flanagan dimostra un amore per i suoi attori e le sue attrici che esalta l'umanità e il realismo di tutte le loro performance: dai due ex coniugi travolti dalla fine del mondo nel primo atto (Chiwetel Ejiofor e Karen Gillan) al nonno di Chuck, uno struggente Mark Hamill, forse alla miglior prova in carriera, passando per la voce narrante affidata al sempre meraviglioso Nick Offerman, che potrebbe rendere appassionante anche la lettura dell'elenco telefonico.

Life of Chuck è una poesia per immagini, un inno alla bellezza e alla capacità di superare le proprie paure. È una celebrazione dell'eccezionalità e dell'unicità della vita, di ogni singola vita, anche quella all'apparenza più banale: un messaggio che può sembrare scontato, ma decisamente non lo è di questi tempi, in cui le morti sono freddi numeri senza passato, senza storia, e la deumanizzazione della vita è all'ordine del giorno

Flanagan realizza un piccolo miracolo, un film fuori dal suo tempo (impossibile non pensare a La vita è una cosa meravigliosa) eppure perfetto per i nostri tempi, che scalda il cuore e restituisce la speranza senza essere mai sdolcinato. Life of Chuck racconta la vita nella sua complessità, nella sua capacità generativa e immaginativa, di cambiare altre vite, tante altre, con piccoli gesti, all'apparenza insignificanti, ma in grado di creare e cambiare mondi: un sorriso, una parola gentile, una musica ballata di fronte all'apocalisse, con il sorriso, mentre le stelle si spengono. 

**** 

Pier

mercoledì 24 settembre 2025

La Voce di Hind Rajab

La voce di un genocidio


In seguito a un attacco dell’esercito israeliano all’auto in cui viaggiava, Hind Rajab, una bambina, rimane intrappolata, circondata dai cadaveri dei suoi parenti. I membri della Mezzaluna Rossa, in contatto telefonico con la bambina, combattono contro il tempo per provare a portarla in salvo.

Anche conoscendo già la vicenda di cronaca narrata, è impossibile rimanere indifferenti di fronte a La Voce di Hind Rajab, confezionato con grandissima efficacia narrativa ed emotiva da Kaouther Ben Hania. La scelta di usare le registrazioni originali della chiamata di Hind Rajab, e di giustapporle con le prove degli attori, non è solo vincente: è necessaria per capire fino in fondo l’orrore, la disperazione e il terrore di una bambina intrappolata e sola. Quella di Hind Rajab diventa la voce di un genocidio, di centinaia di migliaia di innocenti uccisi, umiliati, affamati, lasciati senza nemmeno il conforto dei propri cari negli ultimi attimi.

La lenta evoluzione dei centralinisti che le parlano – dapprima rassicuranti, poi sempre più disperati – è specchio di quella degli spettatori, colpiti con sempre più violenza allo stomaco man mano che il film prosegue. Si finisce tremanti, impotenti di fronte a quanto appena visto, il dolore dei protagonisti che si è fatto strada nel cuore, nella testa, nel corpo degli spettatori.

Kaouther Ben Hania non inventa nulla di eccezionale, ma ha un grande senso del racconto e realizza un film senza fronzoli, dritto al punto, che scivola nel pietismo e nel ricatto emotivo solo in un breve momento sul finale, ma per il resto riesce a essere asciutto e giornalistico pur raccontando una vicenda straziante. La macchina da presa si concentra sui volti, sui suoni, e il montaggio video e audio (qui fondamentale) cuce, alterna, giustapponendo reale e ricostruzione in modo efficacissimo, che ci fa capire che quell’orrore non è frutto (solo) della bravura degli attori, ma della realtà. 

La regista tunisina ci trascina nella frenesia di quei momenti, nelle emozioni dei protagonisti, nella follia bellica e burocratica che rende impossibile salvare una bambina. Il cast è eccezionale, ma a brillare è soprattutto Saja Kilani, che riesce nel difficile compito di comunicare una calma carica di tenerezza con la voce, per tranquillizzare la bambina, mentre il suo volto è colmo di disperazione.

La Voce di Hind Rajab è un film devastante per impatto emotivo, che deve la sua forza alla vicenda narrata ma anche alla sapienza della confezione filmica. Il film è, ovviamente, molto attuale, ma è al tempo stesso universale: perché in ogni guerra, in ogni persecuzione fatta solo per etnia e nazionalità, c’è sempre una bambina che rimane sola e cerca disperatamente aiuto, e c’è sempre chi cercherà di portarglielo nonostante tutte le difficoltà. Ben Hania confeziona un imperdibile j’accuse che parla alle coscienze, e che rimarrà nelle menti e nei cuori dello spettatori molto a lungo dopo la visione.

**** 1/2

Pier

Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

martedì 23 settembre 2025

Duse

Errori fatali


Il film racconta gli ultimi anni di vita di Eleonora Duse: il suo ritorno sulle scene dopo la guerra, il rapporto con D'Annunzio, le crisi finanziarie. Sullo sfondo, l'ascesa del fascismo.

Un film su Eleonora Duse, la Divina del teatro italiano, un'attrice carismatica, dal carattere dirompente, nasce e muore con la sua interprete. Se si vuole raccontare la Duse, una donna in anticipo sui tempi, in grado di tenere testa e rubare il cuore a Gabriele D'Annunzio, una donna che non ebbe paura di sfidare e distruggere le convenzioni, non ci si può permettersi di sbagliare il casting dell'attrice principale. 

Purtroppo questo è ciò che succede nel film del solitamente bravo Pietro Marcello: Valeria Bruni Tedeschi, non sappiamo se per scarsa attitudine, indicazioni registiche, o ambedue, dà vita a una Duse anonima, una vecchietta svampita tutta sorrisi e moine che scompare in scena quando dovrebbe dominarla. Sono emblematiche, in tal senso le scene con D'Annunzio e Sarah Bernhardt, epigona francese della Duse:  momenti talmenti talmente dominati dalle due controparti che ci si dimentica della presenza dell'attrice italiana, relegata a decorazione sullo sfondo. Paradossale che, nella scena con la Bernhardt, le rubi la scena anche l'attrice alle prime armi: una metafora del problema che attanaglia il film. 

Bruni Tedeschi non restituisce alcunché della grandezza teatrale della Duse, che rivoluzionò il modo di stare sul palco e preparare un personaggio. Non la aiuta una sceneggiatura inceppata, zoppa, appensantita da una retorica eccessiva che funziona quando viene messa in bocca a D'Annunzio e ai teatranti, ma risulta stucchevole e fuori posto quando viene ripetuta anche per personaggi "quotidiani" come la figlia e l'assistente della Duse. Le due attrici fanno intuire un potenziale migliore, ma vengono relegate ad anonime arpie tutte fieri cipigli, personaggi monotematici e inevitabilmente odiosi quando, forse, avrebbero potuto essere qualcosa di più.

La fotografia e l'integrazione tra recitato e materiali d'archivio sono ottimi, come sempre nei film di Marcello, e funziona anche il tentativo di parlare dell'orrore della guerra e della medicina sperata (l'arte, il teatro) da Duse e D'Annunzio, rispetto a quella realmente arrivata (l'olio di ricino del fascismo). Ma è poco, troppo poco, per salvare il film: la magia di Martin Eden è qui del tutto assente, ed è difficile non pensare a quanto invece fosse stata azzeccata la scelta di Marinelli in quel caso.

Duse è, a conti fatti, come una bella automobile senza motore: la carrozzeria può essere perfetta e ben disegnata, gli interni pregiati, ma l'auto rimarrà immobile, destinata alla polvere e all'oblio.

**

Pier

sabato 6 settembre 2025

Venezia 2025 - Il Totoleone

Siamo giunti al termine di un'altra Mostra del Cinema, segnata da clima capriccioso, biciclette, spritz, cene rapidissime, e critici buongustai in panama bianco. L'edizione numero 82 della Mostra è stata di altissimo livello, come testimoniato dai giudizi medi dei critici, solitamente avari di lodi, ma che qui hanno bocciato appena cinque dei film in Concorso, e solo uno severamente. Le vette sono state almeno quattro, e i picchi negativi, come detto, si contano sulle dita di una mano, e forse nemmeno quella. Anche quest'anno Alberto Barbera ha confezionato un'ottima selezione, e c'è chi spera che il suo mandato, in scadenza il prossimo anno, possa venire rinnovato ancora (anche per alternative che non invitano all'entusiasmo).

È stata una Mostra di attualità, tra film che parlano del rapporto uomo-natura (Bugonia, Silent Friend), film sul capitalismo e come sta distruggendo il mondo del lavoro (sempre BugoniaÀ Pied d'œuvre - At Work, No Other Choice), film di attualità politica (Il Mago del Cremlino, A House of Dynamite), film su guerre e genocidio (The Voice of Hind Rajab). Ci sono stati anche film che, attraverso vicende personali, han provato a raccontare il passato (Orphan, Duse, The Testament of Ann Lee) e film che raccontano i demoni interiori dell'essere umano (Elisa, Frankenstein, e The Smashing Machine).

Qui trovate un elenco, con voti, dei film visti. Di seguito, invece, trovate i pronostici, come sempre sbagliati, per il Leone d'Oro e gli altri premi, corredati dalle mie preferenze personali.


Premio Mastroianni per il miglior attore emergente
Come lo scorso anno, i candidati per questo premio non sono tantissimi. Puntiamo su Bojtorján Barábas, dato favorito da molti per la sua intensa interpretazione in Orphan. Non avendo, purtroppo, visto il film, la mia scelta personale ricade sui protagonisti del terzo episodio di Father Mother Sister Brother, Indya Moore e Luka Sabbat.
PronosticoBojtorján Barábas, Orphan
Scelta personaleIndya Moore e Luka Sabbat, Father Mother Sister Brother

Coppa Volpi maschile
Sfida molto accesa, con tantissimi pretendenti: dall'ottimo Dwayne Johnson di The Smashing Machine, Paul Dano per Il Mago del Cremlino, Jesse Plemons per Bugonia, Lee Byung-hun per No Other Choice, e, perché no, anche Toni Servillo per La Grazia. Il pronostico, però, ricade su George Clooney, senza la cui prova dolente e malinconica Jay Kelly non avrebbe ragione di esistere. Su di lui ricade il mio pronostico, mentre la mia scelta personale va a Lee Byung-hun, poliedrico padre di famiglia.
PronosticoGeorge Clooney, Jay Kelly
Scelta personaleLee Byung-hun, No Other Choice

Coppa Volpi femminile 
Sfida molto meno accesa di quella per la Coppa maschile, con sole tre attrici davvero in lizza - vuoi per mancanza di alternative, vuoi per alternative (come Emma Stone in Bugonia) non così chiaramente protagoniste. Sarà quindi una lotta a tre tra Barbara Ronchi per Elisa, Valeria Bruni Tedeschi, incredibilmente apprezzata nelle paludi antiche della critica italiana in Duse, e Amanda Seyfried ne Il Testamento di Ann Lee. Non avendo visto quest'ultimo, concentro su Barbara Ronchi e la sua espressione ipnotica pronostico, scelta personale, e speranze di non far rigirare nella tomba la Divina Eleonora Duse.
Pronostico: Barbara Ronchi, Elisa
Scelta personale: Barbara Ronchi, Elisa

Leone d'Argento (Miglior Regia) 
Scelta molto difficile visto l'altissimo livello dei film in concorso. Sembra difficile, considerando anche l'ottima accoglienza avuta dalla critica statunitense, mandare a casa Paolo Sorrentino a mani vuote: il suo film fatto di politica "alta" (talmente alta che alcuni l'hanno definito un fantasy, perché politici del genere non esistono) potrebbe fare breccia anche nei cuori dei giurati d'oltreoceano, e aggiudicarsi uno dei premi più ambiti. La mia scelta personale ricade invece su Park Chan-wook, che dipinge cinema nella sua commedia nera a sfondo lavorativo. Anche Lanthimos meriterebbe con Bugonia, ma ha già vinto il Leone e può accontentarsi di partecipare.
Pronostico: Paolo Sorrentino, La Grazia
Scelta personale: Park Chan-wook, No Other Choice

Gran Premio della Giuria 
Il favorito per il secondo premio più importante sembrerebbe essere Silent Friend: un film poetico ma divertente, introspettivo ma anche univerale, che parla di natura ma anche relazioni umane. Se vincesse ne sarei felice: ci sono (pochi) film migliori, ma questo è uno dei tre film che mi ha toccato il cuore in questa Mostra. Tuttavia, penso che un altro film del cuore, Father Mother Sister Brother, possa aver fatto breccia anche in Alexander Payne, presidente di giuria che da sempre racconta personaggi "rotti" che cercano disperatamente di uscire dalla propria solitudine, spesso senza riuscirci. All'elegia di Jarmush va il mio pronostico, mentre la mia scelta personale va al terzo film del cuore, un film che il cuore me lo ha rotto: The Voice of Hind Rajab.
PronosticoFather Mother Sister Brother
Scelta personaleThe Voice of Hind Rajab

Leone d'Oro 
Se il concorso è di alto livello, la sfida per il Leone si fa incerta e combattutissima. Uno qualunque dei film già citati come "papabili" per i due premi precedenti potrebbe vincere il Leone d'Oro, e non ci sarebbe nulla da dire. Penso però che il Leone se lo aggiudicherà la storia a più alto impatto emotivo della Mostra, sia per il tema, sia per una regia senza fronzoli ma perfetta per il tipo di racconto che aveva in mente: The Voice of Hind Rajab. La mia scelta personale ricade invece sul gioiellino di Jim Jarmush: un film solo apparentemente piccolo, ma grande nella sua capacità di parlare di Vita.
Pronostico: The Voice of Hind Rajab
Scelta personale: Father Mother Sister Brother

È tutto anche per quest'anno. Correte in SNAI a scommettere sull'opposto dei miei pronostici, e noi ci risentiamo per l'edizione 2026.

Pier

Telegrammi da Venezia 2025 - #8: Il Riassunto

Ultimo telegramma da Venezia 2025, con l'elenco di tutti i film visti del concorso e i relativi voti.


Quando il voto era pari, ho messo davanti il film che ho preferito. Cliccando il titolo potete leggere la recensione breve pubblicata nei Telegrammi precedenti.

  1. No Other Choice, voto 9.
  2. The Voice of Hind Rajab, voto 9.
  3. Bugoniavoto 9
  4. Father Mother Sister Brother, voto 8.5
  5. Silent Friend, voto 8.5
  6. Il Mago del Cremlino, voto 8
  7. Frankenstein, voto 7.5
  8. The Smashing Machine, voto 7.5
  9. La Grazia, voto 7.5
  10. A House of Dynamite, voto 7
  11. Elisa, voto 7
  12. Un film fatto per Bene (Bravo Bene!), voto 7.
  13. À pied d'œuvre - At Work, voto 6.5
  14. Sotto le Nuvole, voto 6.5
  15. Jay Kelly, voto 6.5
  16. Lo Straniero, voto 6
  17. Nühai - Girl, voto 6.
  18. Duse, voto 5
Non visti: OrphanThe Testament of Ann Lee, The Sun Rises on Us All.

Per i telegrammi è tutto, a più tardi per i pronostici.

Pier

Telegrammi da Venezia 2025 - #7

Settimo telegramma da Venezia, tra tuffi nella testa di un'assassina, alberi che osservano le nostre vite, film su film che non si sono fatti, festival di grande musica e coesione sociale, favole distopiche, e un Minority Report in salsa francese.


Elisa (Concorso), voto 7. Di Costanzo realizza un film carcerario che è per gran parte efficacissimo, una fredda e impietosa discesa nella mente di un'assassina, sorretto da una fotografia algida e distante e da un cast eccezionale capitanato da Barbara Ronchi. Tuttavia il film perde forza e potenza (e guadagna inutilmente in durata) per inseguire delle pulsioni da televisione nazionalpopolare in cui tutto deve essere spiegato e tutti i personaggi devono piacere al pubblico. Peccato, ma il talento resta. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Silent Friend (Concorso), voto 8.5. Un albero di ginkgo biloba domina il cortile di un'università medioevale tedesca, e osserva silenzioso tre storie che si dipanano su più di un secolo: quella della prima donna ammessa all'università, quella di due ragazzi che cercano di comunicare con un geranio, e quella di un neuroscienziato (Tony Leung) che cerca di tracciare paralleli tra il nostro cervello e il pensiero della pianta. Ildiko Enyedi realizza un film lirico ma anche divertente, una splendida meditazione sul nostro rapporto con la natura, ma soprattutto su cosa significhi comunicare con "l'altro" - l'albero, ma anche le persone - e sul nostro insopprimibile desiderio di farlo. L'albero è quasi un alieno (si pensa spesso a un film diversissimo eppure simile come Arrival, durante la visione) che osserva le nostre vite effimere e i nostri tentativi di creare una connessione - tra noi, e con lui, attraverso i secoli. Alla regista ungherese riesce l'impresa di trovare il delicato equilibrio tra riflessione filosofica e narrazione, e nel farlo ci regala un film evocativo e misterioso, che lascia lo spettatore con una sensazione di pace e compiutezza, ma anche di leopardiana inadeguatezza di fronte all'infinito.

Un film fatto per Bene (Bravo Bene!) (Concorso), voto 7. Maresco realizza una riflessione metacinematografica su arte, cinema e depressione eclettica e folle, in cui reale e finzione si mescolano al punto che diventa impossibile distinguerli. Il film su Carmelo Bene diventa un delirio, una meditazione, un non-film che avrebbe fatto contento il grande artista cui è dedicato. Moresco mette se stesso (o una versione cinematografica di se stesso?) davanti alla telecamere e regala un racconto volutamente sconclusionato ma divertente e ispirato, l'ennesima riflessione sulla Sicilia, sull'Italia, e sull'eredità (tradita o raccolta) di un grande artista come Bene, che ne avrebbe apprezzato il taglio nichilista, misterioso e senza risposte.

Newport and the Great Folk Dream (Fuori Concorso), voto 8.5. Un magnifico documentario fatto di sole immagini d'archivio che racconta gli anni di gloria del festival di musica folk di Newport, che lanciò tra gli altri Bob Dylan e Joan Baez. Il film racconta alla perfezione le radici democratiche e sociali del festival, che pagava tutti alla stessa maniera e dava spazio a tutte le tradizioni musicali degli USA, permettendo un incontro tra generazioni ed etnie diversissime. Si creava così non solo un terreno fertile per la contaminazione artistica e la creatività, ma un punto di incontro dove si superavano tutte le divisioni civili e sociali che allora come oggi laceravano gli Stati Uniti. Un'utopia durata solo pochi anni, prima che il commercio prendesse il sopravvento, che ha però permesso lo sviluppo di idee di pace e solidarietà. Qui la recensione completa scritta da Nonsolocinema.

100 Nights of Hero (Settimana della Critica), voto 7.5 Bizzarro incrocio tra Le mille e una notte The Handmaid's Tale, ma girato con il piglio di Emerald Fennell: Julia Jackman, all'esordio alla regia, crea un'intera mitologia per un mondo che è diverso dal nostro eppure simile, in cui gli dei influenzano la vita degli essere umani e creano la religione come strumento di oppressione femminile. Il risultato è una divertente fiaba distopica sul potere delle storie e della conoscenza come fonte di libertà ed emancipazione, femminile ma non solo, con un bellissimo finale.

Chien 51 (Fuori Concorso), voto 6. In un futuro prossimo, Parigi è divisa in zone, e l'intelligenza artificiale Alma aiuta la polizia a risolvere e prevenire i crimini. L'omicidio del creatore di Alma e la successiva indagine, tuttavia, rivelano che qualcosa è fuori posto. Un noir distopico molto classico realizzato molto bene a livello tecnico, anche se avrebbe beneficiato da una maggiore attenzione alla sceneggiatura, a tratti molto prevedibile. La tematica, tuttavia, è rilevante, e purtroppo non troppo distante dalla realtà.

Pier

giovedì 4 settembre 2025

Telegrammi da Venezia 2025 - #6

Sesto telegramma da Venezia, tra bambine lasciate a se stesse, malavitosi con ambizioni letterarie, regine del cotone, donne che lottano con i debiti, e guerriglie urbane.


Nühai - Girl (Concorso), voto 6. Il racconto dell'infanzia tormentata di una bambina taiwanese, ignorata dai genitori, che trova se stessa nell'amicizia con una coetanea, anche se il dolore dell'abbandono, una volta subito, non scompare, ma scava dentro. L'attrice cinese Shu Qi firma un buon esordio alla regia, che non brilla per originalità ma tocca le corde emotive giuste, con alcuni momenti nella natura molto lirici.

Ammazzare Stanca (Spotlight), voto 6. Una storia di mafia poco convenzionale, ambientata al Nord, con un figlio di boss pentito che vuole cambiare vita diventando uno scrittore. Daniele Vicari racconta la storia con un buon mix di divertimento e tensione. Ottima prova corale del cast.

Cotton Queen (Settimana della Critica), voto 9. Un'adolescente si trova a lottare contro i tentativi stranieri di strappare al suo villaggio il controllo del commercio del cotone. Un film che parla di politica senza essere politico, affrontando la tensione tra tradizione e desiderio di modernità in Sudan attraverso una moltiplicazione delle prospettive che nasconde, fino all'ultimo, quale sia la verità.

Vainilla (Giornate degli Autori), voto 6.5. Racconto corale di una famiglia messicana tutta al femminile che lotta per non soccombere ai debiti, visto dagli occhi della bambina di casa, la cui interpretazione dà luce e vita al film.

Notte a Caracas (Spotlight), voto 7. Caracas, 2017. Una donna si trova intrappolata in casa mentre in strada impazza la guerriglia, il cui suono domina la scena. Un racconto storico efficace e teso, che attraverso una storia personale fa comprendere quale fosse la situazione sociopolitica in Venezuela in quegli anni.

Simone

mercoledì 3 settembre 2025

Telegrammi da Venezia 2025 - #5

Quinto telegramma da Venezia, tra adattamenti sontuosi ma forse evitabili, thriller politici e apocalittici, manoscritti di valore inestimabile, dive annacquate, e la voce di un genocidio.


Lo Straniero (Concorso), voto 6. Ozon realizza un adattamento del romanzo di Camus visivamente sontuoso, con un bianco e nero a contrasti forti che evidenzia lo straniamento del protagonista, la sua mancanza di interessi, di valori, di morale. Ciò che manca, tuttavia, è la capacità di adattamento: il romanzo viene trasposto quasi letteralmente, ma ciò che su carta è efficace e poetico risulta artificioso e retorico su pellicola. Già Luchino Visconti si era cimentato con Lo straniero nel 1967, un adattamento considerato poco riuscito: Morando Morandini accusò il film di aver rincorso "inutilmente una fedeltà illustrativa alla lettera di Camus, impotente a ricrearne lo spirito." Questo commento è ancora più vero per il film di Ozon, che dura quindici minuti in più di quello di Visconti (e si sentono tutti), due ore di durata per un libro di poco più di cento pagine (nell'edizione italiana). Il regista francese si perde in un letteralismo ancora più esasperato, e si salva, come detto, solo grazie al comparto visivo e agli attori, tutti ottimi. 
Non è abitudine di questo blog mettere in discussione la decisione di un regista di trattare un determinato argomento: solitamente ne prendiamo atto e ci limitiamo a valutare se l'obiettivo che il regista si prefiggeva sia stato o meno raggiunto. Viene però da chiedersi se il capolavoro di Camus sia adattabile al cinema, visto il doppio fallimento di due maestri, o se la sua forza risieda in una poesia e filosofia che al cinema sono difficili da trasporre.

A House of Dynamite (Concorso), voto 7. L'inizio del thriller politico di Kathryn Bigelow è fulminante: scene che si interconnettono, funzionari governativi, politici, e militari che realizzano che un missile nucleare di origine sconosciuta sta per colpire gli Stati Uniti, e cercano disperatamente di impedirlo. Esistono protocolli, procedure, ma non sono attrezzati per la realtà, non tengono conto delle reazioni umane, troppo umane, di chi dovrebbe implementarli. Bigelow si muove tra i vari uffici con un ritmo e un piglio degno di The West Wing, e la tensione è altissima, così come la sensazione di ineluttabilità. Poi, però, tutto si resetta, e non per una, ma per ben due volte: i punti di vista si moltiplicano, ma raccontano sempre gli stessi minuti, gli stessi identici eventi, semplicemente da punti di vista diversi. Con la ripetizione, la tensione, inevitabilmente, cala, soprattutto nel secondo atto, quello forse più facilmente eliminabile. Risale un po' nel terzo, anche grazie al focus sul presidente (un ottimo Idris Elba), ma è troppo tardi. Un vero peccato per un thriller apocalittico che sembra avere la forza di una profezia, sperando che Bigelow sia falsa profeta e non Cassandra. Finale sospeso e coraggiosissimo, ma in parte depotenziato da una scelta fatta nel primo atto.

In The Hand of Dante (Fuori Concorso), voto 4. L'unico aggettivo che si può utilizzare per questo film è "inspiegabile": inspiegabile che un maestro come Julian Schnabel abbia deciso di realizzare un lavoro così arzigogolato, con due piani narrativi connessi solo alla lontana e una tensione praticamente assente; ancora più inspiegabile che lo abbia realizzato in modo così retorico e verboso, con scene che sfociano direttamente nel ridicolo involontario, soprattutto nel finale. Peccato perché qualche spunto interessante, soprattutto nella storia ambientata nel presente (i gangster che danno la caccia alla copia autografa della Divina Commedia), c'era: ma il resto è una catabasi che non esce mai a riveder le stelle.

Duse (Concorso), voto 5. Un film su Eleonora Duse, la Divina del teatro italiano, un'attrice carismatica, dal carattere dirompente, nasce e muore con la sua interprete. Se si vuole raccontare la Duse, una donna in anticipo sui tempi, in grado di tenere testa e rubare il cuore a Gabriele D'Annunzio, che non ebbe paura di sfidare e distruggere le convenzioni, non ci si può permettersi di sbagliare il casting dell'attrice principale. Purtroppo questo è ciò che succede nel film del solitamente bravo Pietro Marcello: Valeria Bruni Tedeschi, non sappiamo se per scarsa attitudine, indicazioni registiche, o ambedue, dà vita a una Duse anonima, una vecchietta svampita tutta sorrisi e moine che scompare in scena quando dovrebbe dominarla (emblematiche in tal senso le scene con D'Annunzio e Sarah Bernhardt, epigona francese della Duse, talmente dominate dalle due controparti che ci si dimentica della presenza dell'attrice italiana), e che non restituisce alcunché della grandezza teatrale della Duse, che rivoluzionò il modo di stare sul palco e preparare un personaggio. Anche la sceneggiatura non ingrana, azzoppata da una retorica eccessiva che funziona quando viene messa in bocca a D'Annunzio e ai teatranti, ma risulta stucchevole e fuori posto quando viene ripetuta anche per personaggi "quotidiani" come la figlia e l'assistente della Duse. Fotografia e regia sono ottime, e anche il tentativo di parlare dell'orrore della guerra e della medicina sperata (l'arte, il teatro) da Duse e D'Annunzio, rispetto a quella realmente arrivata (l'olio di ricino del fascismo) è interessante: ma il film è come un'automobile senza ruote.

The Voice of Hind Rajab (Concorso), voto 9. La storia vera di Hind Rajab, bambina palestinese sopravvissuta a un attacco israeliano, e del tentativo di salvarla da parte della Mezzaluna Rossa, viene raccontata con una commisione di audio reali e scene ricostruite. Un film devastante per impatto emotivo, che deve la sua forza alla vicenda narrata ma anche alla sapienza della confezione filmica. Il film è, ovviamente, molto attuale, ma è al tempo stesso universale: perché in ogni guerra, in ogni persecuzione fatta solo per etnia e nazionalità, c'è sempre una bambina che rimane sola e cerca disperatamente aiuto, e c'è sempre chi cercherà di portarglielo nonostante tutte le difficoltà. Qui trovate la recensione estesa scritta per Nonsolocinema.

Pier

martedì 2 settembre 2025

Telegrammi da Venezia 2025 - #4

Quarto telegramma da Venezia, tra eminenze grigie con la passione per il teatro, lottatori in crisi, sequestratori con cui empatizzare, ed esperimenti che meritavano miglior sorte.


Il Mago del Cremlino (Concorso), voto 8. Come si distrugge la verità? La ricetta non è la magia, anche se il titolo sembra suggerirlo, ma una profonda conoscenza della psiche umana e dei trucchi con cui si può ingannarla. A partire dall'omonimo romanzo di Giuliano da Empoli, Assayas confeziona un thriller politico che racconta la caduta del Muro e l'ascesa di Vladimir Putin attraverso un dialogo/confessione tra un giornalista e Vadim Baranov, ispirato a Vladislav Surkov, eminenza grigia di Putin. Baranov ha un passato da teatrante, e sa leggere, comprendere, e manipolare le emozioni: non basta altro. Sceneggiatura stellare (con la collaborazione, e si vede, di Emmanuel Carrère), e cast perfetto, da Jude Law/Putin a Jeffrey Wright nei panni del giornalista, passando per Alicia Vikander. A brillare più di tutti è però Paul Dano, che dopo Il Petroliere torna a essere il volto innocente e seducente del Male, un sorriso disarmante che repelle e conquista allo stesso tempo.

The Smashing Machine (Concorso), voto 7.5. Benny Safdie racconta la storia vera di Mark Kerr, lottatore di arti marziali miste, cui Dwayne Johnson presta volto e corpo, raccontandone la forza fisica e la fragilità emotiva. Un solido film sportivo, fotografato con taglio semi-documentaristico, che ha il pregio di non raccontare una classica parabola di caduta-redenzione-rinascita, pur tratteggiandola di sottofondo (con la centralità data alle vicende di Mark Coleman, amico e collega di Kerr) come elemento di contrasto all'evoluzione meno convenzionale della vita di Kerr. Il risultato è un film che non brilla per originalità, ma funziona a livello narrativo ed emotivo, con una morale non scontata.

Dead Man's Wire (Fuori Concorso), voto 8. Gus Van Sant torna alla regia dopo sette anni e lo fa con una commedia-thriller tratta da una storia vera, in un'operazione che ricorda quella operata da Richard Linklater (regista tematicamente simile a Van Sant, e come lui solitamente lontano da questo genere) con Hitman, presentato due anni fa proprio a Venezia. Il film racconta l'assurda storia vera del sequestro del banchiere Richard Hall da parte di Tony Kiritsis. Raccontato con la giusta dose di humor nero, Dead Man's Wire è un'attenta esplorazione della psiche umana e di quanto poco basti per far "impazzire" un uomo probo e onesto. Van Sant esibisce una chiara e sacrosanta favorevolezza alle posizioni di Kiritsis (un ottimo Bill Skarsgard), perfetto esempio del "piccolo uomo" truffato dalle grandi banche e dal sistema capitalistico in generale, realizzando un film che diverte ma porta anche avanti una forte posizione politica, soprattutto di questi tempi.

Orfeo (Fuori Concorso), voto 5. Un voto di stima, perché questo pastiche di live action e animazione realizzato da Virgilio Villoresi con sguardo e fotografia espressionista ha intuizioni visive notevoli e stimolanti. Tuttavia, la trama è un guazzabuglio senza capo né coda, frutto di un adattamento pedissequo dell'opera omonima di Buzzati, che avrebbe richiesto maggior riflessione per essere resa in modo efficace su un altro medium. Non brilla nemmeno il cast (con l'eccezione di Vinicio Marchioni), che sembra essere stato scelto da un cinofilo, anziché da un cinefilo.

Pier

domenica 31 agosto 2025

Telegrammi da Venezia 2025 - #3

Terzo telegramma da Venezia, tra mostri creatori e umani creati, Napoli e il sottosuolo, manager d'hotel sconnessi, e gocce di poesia famigliare.


Frankenstein (Concorso), voto 7.5. Del Toro adatta la storia di Frankenstein toccando tutte le corde ricorrenti nel suo cinema: dall'umanità del mostro alla mostruosità dell'uomo, passando per la ricerca dell'amore e della connessione. Visivamente sontuoso (il laboratorio di Viktor è splendido, così come le scene nell'Artico), a livello tematico non rivoluziona un mito già esplorato più volte dalla cinematografia, riprendendo toni e situazioni già viste sia in altri adattamenti (il mostro è molto debitore dell'incarnazione vista in Penny Dreadful), sia in altri lavori di Del Toro. Forse era inevitabile, visto che questo mito ha formato la poetica deltoriana, e ha finito quindi per permearne l'opera. Rimane però la sensazione che si potesse fare di più, trovare chiavi nuove che qui sono invece assenti, fatta eccezione per uno spunto tolkieniano su come la morte sia un dono e non una maledizione da cui fuggire (la creatura è qui immortale) e un Viktor che è l'incarnazione della mascolinità tossica, con Elizabeth che diviene da amata desiderio proibito e capriccio di un bambino mai veramente cresciuto (Viktor beve solo latte durante il film). Splendida prova del cast, con Oscar Isaac mostro-creatore, Elordi dolente quanto basta, e Mia Goth ambigua e carismatica, cuore emotivo del film.

Sotto le Nuvole (Concorso), voto 6.5. Gianfranco Rosi torna sulle note di Sacro GRA, il documentario che gli valse il Leone d'oro nel 2013. Questa volta la protagonista è Napoli, e in particolare il suo rapporto con il sottosuolo, dalla Napoli sotterranea ai terremoti causati dai Campi Flegrei e dal Vesuvio. Il suo approccio al documentario come commedia umana mostra però la corda, alternando racconti molto riusciti (il centralino dei pompieri meriterebbe un film dedicato) ad altri meno efficaci (la parte archeologica risulta, alla lunga, ripetitiva), oltre a indugiare troppo in inquadrature "a effetto" che soddisfano la vista ma appesantiscono la narrazione.

The Souffleur (Orizzonti), voto 3. Una storia potenzialmente interessante (il manager di un hotel cerca disperatamente di evitarne la chiusura) viene raccontata in maniera non lineare, per suggestioni: il gioco potrebbe anche funzionare (è la cifra stilistica di Lynch), ma qui deraglia miseramente, risultando del tutto disconnesso. Si salvano solo la breve durata (meno di 90', un miracolo di questi tempi) e un Willem Dafoe piacevolmente gigione.

Father Mother Sister Brother (Concorso), voto 8.5. Il film del cuore del Concorso finora, anche se meno ambizioso di altri visti fin qui. Jarmush realizza un film sull'essere famiglia attraverso tre episodi disconnessi narrativamente ma fortemente interconnessi a livello tematico ed emotivo, come i movimenti di una sonata. Delicato e fragile come un fiore, ma con radici che affondano profonde, scavando nell'anima. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Pier

sabato 30 agosto 2025

Telegrammi da Venezia 2025 - #2

Secondo telegramma da Venezia, tra thriller sociali maldestri, commedie nere attualissime, racconti della precarietà, e criminali che si trovano costretti a far riunire i Beatles.


After the Hunt (Fuori Concorso), voto 5. Guadagnino torna alla Mostra con un film pasticciato, soprattutto a causa della sceneggiatura di Nora Garrett, sfilacciata e inconcludente a livello sia tematico che narrativo. L'idea sarebbe di fare un thriller psicologico, il risultato è una riflessione su un tema etico importante e attuale (quello del consenso) che vorrebbe essere stratificata ma risulta ahinoi inconcludente, pur dando qualche spunto di riflessione. La tensione è quasi del tutto assente, e arriva solo grazie alla buona prova di Julia Roberts e alle musiche (bellissime, anche se spesso fuori posto) di Reznor e Ross. Guadagnino dona al film i suoi momenti più interessanti grazie a una regia claustrofobica e un'ottima direzione degli attori, ma a volte si perde in inquadrature inspiegabili (lunghi momenti fuori fuoco, la fissazione per le mani) che sembrano puro esercizio di stile, l'espressione di un desiderio hitchockiano di restituire lo sguardo dei personaggi che però non ha alcuna connessione con il tessuto narrativo. Il "ricciolo" di Vertigo era collegato alla trama, funzionale al racconto: Guadagnino pare esserselo dimenticato.

No Other Choice (Concorso), voto 9. Park Chan-wook torna tre anni dopo Decision to Leave con una commedia nera, nerissima su come il capitalismo corrompa anche l'animo più nobile, fagocitando i suoi fedeli servitori e spingendoli a una guerra tra poveri svilente e piena di disperazione. La storia di un uomo che perde il lavoro dopo 25 anni si innesta nella tradizione "politica" che sembra aver trovato forte linfa nel cinema coreano (si pensi a Parasite, ma anche a Squid Game), ma con un approccio disincantato e cinico che lo rende sia satira che critica sociale - un taglio che sarebbe piaciuto a Elio Petri. Park dipinge con la macchina da presa (pochi registi usano la luce come la usa lui), alternando momenti poetici ad altri grotteschi con una fluidità di ripresa e montaggio che fa sì che il film risulti omogeneo e coeso nonostante i continui cambi tonali. Due scene "musicali" sono da applausi a scena aperta.

À pied d'œuvre - At Work (Concorso), voto 6.5. Valérie Donzelli racconta il precariato artistico, mettendolo in relazione al fenomeno della gig economy, e a come abbia trasformato i lavoratori nei peggiori nemici di se stessi (e migliori amici delle grandi aziende). Il film non brilla per originalità ma funziona a livello sia "politico" che emotivo, e Donzelli firma una regia "invisibile", capace di virtuosismi ma senza esibiziosmi.

The Last Viking (Fuori Concorso), voto 7.5. Dalla Danimarca arriva una bella commedia drammatica con il gusto dell'assurdo, in cui un criminale appena uscito di prigione ha bisogno del fratello malato di mente per ritrovare il bottino nascosto anni prima. Il fratello, tuttavia, è ora convinto di essere John Lennon, e per aiutarlo a ricordare si troverà a dover riunire i Beatles. Questa traccia leggera si mescola a tematiche pesanti come l'esplorazione di drammi personali, la rimozione del trauma, il concetto di identità, la malattia mentale, nonché alcune esplosioni di violenza ai limti del pulp. Si ride, ci si emoziona, e non ci si annoia mai in un film che unisce molteplici generi (ci sono anche dei begli spezzoni in animazione) e che viene esaltato dall'ottima prova del cast, capitanato da Mads Mikkelsen/John Lennon e Kardo Razzazi, uomo dalle multiple personalità, che si crede sia Paul McCartney che George Harrison.

Pier

giovedì 28 agosto 2025

Telegrammi da Venezia 2025 - #1

Come ogni anno, Film Ora è a Venezia, e vi accompagnerà per tutta la Mostra del Cinema con i suoi telegrammi: brevi recensioni dei film visti nelle varie sezioni. Una Mostra con tantissimi titoli interessanti, che vede il ritorno dietro la macchina da presa di grandi registi (Kathryn Bigelow, Gus Van Sant) che non si vedevano da tempo, oltre che molti graditi abitué (Jim Jarmush, Paolo Sorrentino, Guillermo Del Toro). Una mostra che promette bene, quindi, anche se non mancheranno le inevitabili delusioni.


Ecco i film visti nel primo giorno e mezzo di Mostra:

La Grazia (Concorso), voto 7.5. Dopo averne messo alla berlina gli eccessi e i crimini, Sorrentino torna a raccontare la politica, ma questa volta si occupa della politica "alta", che si occupa con responsabilità di tematiche spinose e pungenti. Questo non significa, tuttavia, che rinunci a raccontare l'umanità e la fallibilità dei personaggi: il Presidente De Santis di Servillo è un uomo dignitoso che vive nella paura di non esserlo, e che per questo sta lentamente perdendo amore per la vita, intrappolato in una rete di sua costruzione. Sorrentino offre non più uno sguardo alla morte incombente che si nasconde in agguato dietro una vitalità esibita ma di facciata, ma la vita che cerca di farsi strada, una pianta che cerca di rifiorire in un terreno arido e bruciato. Non passerà alla storia come il suo film migliore, ma offre molti spunti emotivi ed etici di grande impatto, nonostante qualche sbrodolata evitabile. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Ghost Elephants (Fuori Concorso), voto 8. Werner Herzog si addentra negli inaccessibili altipiani dell'Angola per scoprire gli sfuggenti discendenti del più grande elefante mai catturato. La sua è una storia di resilienza e bellezza, ma anche di come la crudeltà umana abbia spinto sull'orlo dell'estinzione queste nobili creature, e di come popolazioni che amiamo considerare "arretrate" abbiano in realtà un rapporto con la natura da cui potremmo imparare molto.

Il Rapimento di Arabella (Orizzonti), voto 7. Carolina Cavalli realizza un'opera seconda sulle stesse note dell'assurdo di Amanda, la sua opera prima, ma con influenze ulteriori che spaziano da Lynch a Thelma & Louise. La storia di un'adulta che vuole tornare bambina, viaggiare nel tempo per riparare agli errori fatti, convince e conquista, grazie anche all'ottima prova delle protagoniste e alla capacità di Cavalli di creare dei "non-luoghi" narrativi, sospesi tra l'Italia e gli USA.

Bugonia (Concorso), voto 9. Lanthimos trova una perfetta sintesi tra il suo cinema degli esordi e il suo periodo hollywoodiano, realizzando un'opera (remake di un film coreano del 2003) ipnotica, ironica e disperata, che si nutre di opposti: una tragedia in cui si ride, un film senza speranza che mira a risvegliare le coscienze, una storia in cui il villain non è nessuno e, al tempo stesso, siamo tutti noi, con un finale che pietrifica e, al tempo stesso, lascia con un senso di giustizia compiuta. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Jay Kelly (Concorso), voto 6.5. Baumbach firma un film malinconico, in cui un attore si ritrova a fine carriera con una vita personale disastrata e la sensazione di non aver fatto nulla della sua vita. Il film funziona, nonostante la lunghezza eccessiva e alcuni stereotipi culturali (sull'Italia in primis) un po' datati, e farà breccia nel cuore del pubblico. Tuttavia, il merito non è tanto della scrittura di Baumbach, efficace ma molto meno brillante del solito, quanto di un George Clooney che unisce alla perfezione la sua anima gigiona e quella drammatica.

Pier

mercoledì 27 agosto 2025

Weapons

Sgretolare una comunità


Non è un segreto che oggi l'horror sia diventato un genere che ama affrontare tematiche sociali. Forse lo era sempre stato, ma da Get Out! in poi il numero di film dai forti connotati sociologici e, spesso, politici è esploso. Weapons, opera seconda di Zach Cregger, non fa eccezione. La trama sarebbe riassumibile come "qualcosa di malvagio e misterioso si infiltra in una comunità già frammentata e la distrugge definitivamente, usando le persone come armi contro chi cerca di ostacolare i suoi piani": se suona come la realtà in cui ci troviamo a vivere, soprattutto negli USA, non è un caso. 

Weapons è un film sulla manipolazione, che qui avviene per via magica anziché mediatica, e di come questa possa portare intere comunità a uno stato di guerra permanente, tutti contro tutti. Il Male, alla fine, può essere sconfitto, ma la ferita che ha lasciato faticherà a guarire, e forse non guarirà mai. Garner dipana la trama lentamente, senza fretta, cambiando i punti di vista per disvelare gli effetti tossici del Male, che scava, distrugge, corrompe, sfrutta le debolezze e i traumi già esistenti per insinuarsi e mettere radici. Se da un lato questo espediente rende la narrazione troppo spezzettata e, alla lunga, un po' ripetitiva (l'inizio è decisamente più efficace della parte centrale), dall'altro riesce a restituire l'anima frammentata del paese in cui si svolge la vicenda, epitome degli Stati Uniti e del mondo intero: un paese già "rotto", e per questo fragile quando il Male si presenta a bussare alla sua porta. 

La frammentazione narrativa evidenzia alla perfezione come questo avvenga grazie al fatto che i protagonisti sono isolati, non si parlano tra loro, spesso non si conoscono nemmeno, e di sicuro non si fidano. Garner usa uno dei tropoi più pigri dell'horror e del thriller (la non-comunicazione di informazioni fondamentali tra i protagonisti), e lo vira a suo favore, rendendolo parte integrante del messaggio.

Il film è fotografato con maestria, e molti dei momenti migliori sono puramente visivi, a cominciare dall'immagine efficacissima e inquietante che campeggia sui materiali promozionali. Garner ha grande senso dell'inquadratura e dell'atmosfera, e con questo compensa ciò che gli difetta in ritmo e costruzione del crescendo narrativo. Weapons è un film ricco di suggestioni visive che parlano più di mille parole, dalla "zombificazione" di chi cade preda del male alle inquadrature che evidenziano la desolazione e la solitudine dei protagonisti (magistrale, in tal senso, quella in cui vediamo la maestra di Julia Garner rispondere a un misterioso scampanellio notturno).

Weapons non passerà alla storia, ma è un horror solido, teso, e con un messaggio chiaro e forte che non appesantisce la narrazione. Anche se è indubbio che le continue "ripartenze" della storia, con cambio del punto di vista, siano funzionali alle intenzioni del regista, non si può non notare che un cambio di struttura e ritmo (anche non radicale come quello di Parasite o de I Peccatori) avrebbe giovato al film in termini sia di narrazione che di creatività. Resta comunque un'ottima opera seconda, che promette bene per il prosieguo di Cregger all'interno di un genere che è oggi forse il più vitale e innovativo del panorma hollywoodiano.

*** 1/2

Pier

martedì 22 luglio 2025

Superman

Leggere i bisogni


Superman ha fermato l'invasione unilaterale dello stato di Jarhanpur da parte della dittatura di Boravia. Tuttavia, Boravia è un alleato degli USA, e il governo, sobillato da Lex Luthor, comincia a mettere in dubbio quanto si possa fidare di Superman, costringendo Clark Kent/Kal-El a fare i conti con la sua missione e le sue decisioni.

Ci sono prodotti culturali che riescono a cogliere perfettamente lo spirito del tempo, o addirittura ad anticiparlo: è il caso di Joker, per esempio, inquietante nella sua capacità di catturare il livello di rabbia e desiderio di rivolta che ribolliva nella pancia degli USA. Altri prodotti, tuttavia, non leggono lo spirito del tempo, ma ne leggono i bisogni. Bruce Springsteen è un artista particolarmente sensibile in tal senso. Nel 1982 pubblica Nebraska, che racconta il fallimento del sogno americano e le crisi esistenziali di molti lavoratori in un momento in cui negli USA lo spirito dominante era ottimista, entusiasta: erano i primi vagiti della presidenza Reagan, e il futuro sembrava pieno di ricchezza per tutti: ma c'era già chi sapeva - sentiva - che sarebbe stato lasciato indietro, e aveva bisogno di qualcuno che raccogliesse il suo disorientamento. Allo stesso modo, nel 2002 Springsteen pubblica The Rising subito dopo gli attentati dell'11 Settembre 2001: l'umore del paese è nero, cupo, pessimista, ma Springsteen scrive un album carico di speranza e ottimismo - non ciò che il pubblico provava in quel momento, ma ciò di cui aveva bisogno.

Superman, nella sua trasposizione cinematografica, sembra un personaggio capace di catturare i bisogni nascosti della società: cupo e preconizzante sventura nel 2006, gli anni della presidenza Obama, pieno di luce oggi, quando il mondo è in fiamme per guerre, crisi economiche, disuguaglianze sempre crescenti. James Gunn non vuole seguire lo spirito dominante, ma vuole lanciare un segnale di speranza - un messaggio che dovrebbe essere banale, ma che oggi tristemente finisce per non esserlo: essere brave persone è un valore, non qualcosa da prendere in giro. Il Superman di Gunn è umano più che alieno, un immigrato alieno (illegal alien, il termine inglese, rende ancora meglio l'ambiguità della sua situazione) cresciuto con i valori di una famiglia terrestre che gli ha insegnato ad aiutare il suo prossimo, a costruire ponti anziché seminare divisione, a mettere il suo immenso potere al servizio dei più deboli. 

Banalità, appunto, temi classici dei grandi blockbuster USA anni Novanta. Eppure. Eppure oggi non sono più banalità, e Gunn lo evidenzia a ogni passaggio narrativo. L'aggressione unidirezionale di uno stato sovrano del "terzo mondo" da parte di una dittatura, un miliardario del settore tech affetto da egomania che controlla de facto il governo statunitense (indicativo che questo sia uno dei pochissimi film del genere a non far nemmeno vedere il presidente del paese), la pervasività delle fake news (una delle scene dove la metafora si fa più letterale eppure, proprio per questo, diventa tremendamente efficace): questo, togliendo i metaumani, è il nostro mondo, che ci piaccia o meno: un mondo che ha dimenticato cose che una volta avremmo considerato, appunto, banalità, e oggi vengono etichettate con l'orrido neologismo "buoniste". Oggi, essere buono non è banale: è anticonformista, è "punk".


Intorno a questo messaggio politico, semplice ma diretto (ma non lo sono tutte le "grandi" campagne elettorali?) Gunn realizza il cinecomic più strutturalmente e narrativamente simile a un fumetto visto finora al cinema: colorato, ipercinetico, sovraffollato, con continui cambi di prospettiva, nuovi personaggi, pochissimi attimi di respiro. Il risultato è un film a volte narrativamente caotico, ma incredibilmente efficace a livello di intrattenimento e messaggio emotivo: un film che parla alla pancia e al cuore prima che al cervello, ma che fa il suo mestiere con competenza e grande senso per lo spettacolo. La scelta di iniziare in medias res funziona perché ci mostra subito un Superman vulnerabile, che ha nella famiglia e in un animale i suoi riferimenti emotivi ed è ben integrato nella vita terreste: un Superman umano, molto umano, che avvicina anziché allontanare, e con cui si entra subito in relazione.

Superman non è un film perfetto: come molti fumetti è sovraccarico, ha troppe linee narrative, e a volte perde ottime occasioni per approfondire bei momenti. La regia ipercinetica di Gunn e il suo uso dell'humor visivo intrattengono, ma a volte distraggono. Ma è un film che funziona, e lo fa perché azzecca tutti i beat emotivi: il richiamo tra scena di apertura e chiusura è forse scontato, ma tremendamente efficace; il monologo di Superman è scontato nei contenuti, ma perfetto nella forma, così come il dialogo tra Clark e suo padre; e quella bandiera che si alza al cielo mentre un popolo sta per essere sterminato è una delle immagini più potenti viste al cinema negli ultimi tempi, complice anche l'atroce attualità.

Funziona, inoltre, grazie ai suoi personaggi - ben scritti, ma soprattutto ben interpretati. L'ottima caratterizzazione della sceneggiatura di Gunn rischierebbe di finire annegata in battaglie ed effetti speciali se non fosse per un cast senza grandi nomi ma perfettamente in parte. Corenwset è un Superman perfetto: buono, ostinato, ingenuo, generoso, con uno humor terra-terra che funziona grazie alla sua totale mancanza di maliza. È sia Clark Kent che Kal-El, e è impossibile non affezionarsi a lui - non tifare per lui. Rachel Brosnahan è la miglior Lois Lane mai vista su schermo, una sorpresa solo per chi non aveva ammirato la sua irresistibile vena comica in The Marvelous Mrs. Maisel. Acuta, pungente, intelligente, capace di tenere intellettualmente testa a ogni controparte: Gunn e Brosnahan hanno finalmente reso Lois Lane un personaggio a tuttotondo anziché un generico interesse amoroso. Hoult è un Lex Luthor perfetto, che non sfigura di fronte ai grandissimi attori che lo hanno interpretato in passato, e tinge la sua malvagità di una motivazione tanto meschina quanto tremendamente realistica: l'invidia, la vanagloria. Attorno a loro si muovono vari personaggi, metaumani e non, tra cui brilla il Mr Terrific interpretato con meravigliosa indifferenza da Edi Kathegi, e che spesso ruba la scena ai protagonisti.

Rubare la scena

Superman non farà la storia dei cinecomic, ma è un film tremendamente adatto ai nostri tempi. Parafrasando un suo celebre collega, non è il supereroe che ci meritiamo, ma quello di cui abbiamo bisogno in un'epoca in cui è difficile essere ottimisti e sperare in un futuro migliore. Dalla visione di Superman si esce con un sorriso stampato in volto perché i mali del nostro tempo sono stati sconfitti da un eroe che incarna tutti i valori che ci rendono umani: nella realtà spesso non va così, ma la speranza, dopo la visione, divampa. Non è poco.

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Pier

lunedì 30 giugno 2025

Elio

Siamo soli?



Elio Solis perde i genitori molto piccolo, e cresce con la zia, che lavora nell'aviazione USA. Elio è un bambino solitario e introverso, ma di grande intelligenza.La storia del Voyager lo fa appassionare allo spazio, e a undici anni il suo unico obiettivo è comunicare con gli extraterrestri, nella speranza che lo rapiscano e portino con loro. Quando finalmente, dopo un messaggio lanciato nello spazio, il suo desiderio si avvera, si trova ad affrontare una crisi diplomatica di portata cosmica.

Ci risiamo: ultimanente i film Pixar originali sono vittima di uno strano fenomeno alla loro uscita in sala, per cui vengono ignorati senza valide motivazioni. Era già successo con Elemental, partito malissimo per poi diventare un successo grazie al passaparola del pubblico che si era recato a vederlo. Forse c'entra il marketing (scarso) della Disney, o forse c'entrano le decine di pagine online che danno dati sul box office in pasto al pubblico senza avere la minima contezza di cosa significhino, sparando cifre a caso su quanto dovrebbe incassare il film per cominciare a guadagnare e alimentando una "profezia che si autoavvera": leggo che nessuno lo ha visto, mi passa la voglia di andare a vederlo.

Qualunque sia la causa (e scusate lo sfogo/digressione in merito), anche in questo caso, come per Elemental, ha ragione chi è andato a vedere Elio. La Pixar (per mano dei tre registi Adrian Molina, Domee Shi e Madeline Sharafian) realizza un film in cui la sua poetica degli emarginati e delle solitudini che si incontrano (si vedano, per esempio, Ratatouille e Up tra i classici, e Luca e appunto Elemental tra le prove recenti) si fonde con quella di un altro grande fan dei perdenti, lo Steven Spielberg degli anni della Amblin, e della sua passione per lo spazio e per la "connessione" con nuove forme di vita. 

Il risultato è un film poetico e struggente sulla solitudine, il vero villain del film, in cui la grande domanda esistenziale "siamo soli?" viene declinata a livello sia micro- che macrocosmico. Elio cerca una connessione con gli alieni perché si sente solo sulla Terra: la sua ricerca è quella dell'umanità intera, ma anche quella di un ragazzo orfano che pensa che la zia lo ritenga un peso, e che dalla morte dei genitori non ha mai trovato una vera connessione con nessuno. 

Gli echi di E.T. e Incontri ravvicinati del terzo tipo sono evidenti, ma declinati all'interno di una storia che non è solo di amicizia, ma anche famigliare: come in Elemental e in Red (per citare due esempi recenti), le aspettative genitoriali sono il motore della vicenda, con Elio e Glordon che trovano una connessione proprio nella loro capacità di dirsi ciò che non hanno il coraggio di dire a zia e padre. 
Proprio la disconnessione, l'incapacità di creare legami sono al centro del film, ritratto di una società, quella contemporanea, che rende tutti raggiungibili ma ci allontana sempre di più. Elio è il ritratto di un disagio generazionale, in cui "gli alieni" rappresentano un desiderio di relazione che sembra sempre più impossibile.

Il design degli alieni è, finalmente, creativo, con numerose creature che perdono i tratti antropomorfi che tendiamo ad attribuire agli extraterrestri (simmetria, occhi) per esplorare un caleidoscopio di forme di vita che spinge i confini dell'immaginazione in nuovi territori. Glordon e la sua specie sono chiaramente ispirati ai tardigradi, e l'animazione Pixar riesce nel miracolo di rendere espressivo e coccoloso quello che è a tutti gli effetti una sorta di vermone senza occhi.

Anche il design del Comuniverso (rappresentazione cosmica di ciò che, nell'intenzione dei fondatori, avrebbe dovuto essere l'ONU) è immaginifico, una fusione delle visioni di Kubric in 2001: Odissea nello spazio e dei design psichedelici del fumetto, da Jack Kirby a Moebius: un mondo fatto di geometrie fluide e frattali, di nastri di Möbius policromatici che cambiano di continuo forma, in una mutazione continua di stampo quantistico che non ha pochi epigoni nella storia della fantascienza cinematografica.

Elio non è un Pixar "maggiore", uno di quelli che cambiano la storia dell'animazione, portandola in direzioni narrative mai esplorate prima. Tuttavia, è un film di grande inventiva e cuore, che racconta la solitudine e l'importanza di trovare il proprio posto nel mondo (o nei mondi) con delicatezza e creatività, regalandoci una piccola, grande favola spaziale che fa risuonare le corde emotive e intrattiene alla perfezione. Andate a vederlo in sala: non ve ne pentirete.

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Pier