sabato 6 settembre 2025

Venezia 2025 - Il Totoleone

Siamo giunti al termine di un'altra Mostra del Cinema, segnata da clima capriccioso, biciclette, spritz, cene rapidissime, e critici buongustai in panama bianco. L'edizione numero 82 della Mostra è stata di altissimo livello, come testimoniato dai giudizi medi dei critici, solitamente avari di lodi, ma che qui hanno bocciato appena cinque dei film in Concorso, e solo uno severamente. Le vette sono state almeno quattro, e i picchi negativi, come detto, si contano sulle dita di una mano, e forse nemmeno quella. Anche quest'anno Alberto Barbera ha confezionato un'ottima selezione, e c'è chi spera che il suo mandato, in scadenza il prossimo anno, possa venire rinnovato ancora (anche per alternative che non invitano all'entusiasmo).

È stata una Mostra di attualità, tra film che parlano del rapporto uomo-natura (Bugonia, Silent Friend), film sul capitalismo e come sta distruggendo il mondo del lavoro (sempre BugoniaÀ Pied d'œuvre - At Work, No Other Choice), film di attualità politica (Il Mago del Cremlino, A House of Dynamite), film su guerre e genocidio (The Voice of Hind Rajab). Ci sono stati anche film che, attraverso vicende personali, han provato a raccontare il passato (Orphan, Duse, The Testament of Ann Lee) e film che raccontano i demoni interiori dell'essere umano (Elisa, Frankenstein, e The Smashing Machine).

Qui trovate un elenco, con voti, dei film visti. Di seguito, invece, trovate i pronostici, come sempre sbagliati, per il Leone d'Oro e gli altri premi, corredati dalle mie preferenze personali.


Premio Mastroianni per il miglior attore emergente
Come lo scorso anno, i candidati per questo premio non sono tantissimi. Puntiamo su Bojtorján Barábas, dato favorito da molti per la sua intensa interpretazione in Orphan. Non avendo, purtroppo, visto il film, la mia scelta personale ricade sui protagonisti del terzo episodio di Father Mother Sister Brother, Indya Moore e Luka Sabbat.
PronosticoBojtorján Barábas, Orphan
Scelta personaleIndya Moore e Luka Sabbat, Father Mother Sister Brother

Coppa Volpi maschile
Sfida molto accesa, con tantissimi pretendenti: dall'ottimo Dwayne Johnson di The Smashing Machine, Paul Dano per Il Mago del Cremlino, Jesse Plemons per Bugonia, Lee Byung-hun per No Other Choice, e, perché no, anche Toni Servillo per La Grazia. Il pronostico, però, ricade su George Clooney, senza la cui prova dolente e malinconica Jay Kelly non avrebbe ragione di esistere. Su di lui ricade il mio pronostico, mentre la mia scelta personale va a Lee Byung-hun, poliedrico padre di famiglia.
PronosticoGeorge Clooney, Jay Kelly
Scelta personaleLee Byung-hun, No Other Choice

Coppa Volpi femminile 
Sfida molto meno accesa di quella per la Coppa maschile, con sole tre attrici davvero in lizza - vuoi per mancanza di alternative, vuoi per alternative (come Emma Stone in Bugonia) non così chiaramente protagoniste. Sarà quindi una lotta a tre tra Barbara Ronchi per Elisa, Valeria Bruni Tedeschi, incredibilmente apprezzata nelle paludi antiche della critica italiana in Duse, e Amanda Seyfried ne Il Testamento di Ann Lee. Non avendo visto quest'ultimo, concentro su Barbara Ronchi e la sua espressione ipnotica pronostico, scelta personale, e speranze di non far rigirare nella tomba la Divina Eleonora Duse.
Pronostico: Barbara Ronchi, Elisa
Scelta personale: Barbara Ronchi, Elisa

Leone d'Argento (Miglior Regia) 
Scelta molto difficile visto l'altissimo livello dei film in concorso. Sembra difficile, considerando anche l'ottima accoglienza avuta dalla critica statunitense, mandare a casa Paolo Sorrentino a mani vuote: il suo film fatto di politica "alta" (talmente alta che alcuni l'hanno definito un fantasy, perché politici del genere non esistono) potrebbe fare breccia anche nei cuori dei giurati d'oltreoceano, e aggiudicarsi uno dei premi più ambiti. La mia scelta personale ricade invece su Park Chan-wook, che dipinge cinema nella sua commedia nera a sfondo lavorativo. Anche Lanthimos meriterebbe con Bugonia, ma ha già vinto il Leone e può accontentarsi di partecipare.
Pronostico: Paolo Sorrentino, La Grazia
Scelta personale: Park Chan-wook, No Other Choice

Gran Premio della Giuria 
Il favorito per il secondo premio più importante sembrerebbe essere Silent Friend: un film poetico ma divertente, introspettivo ma anche univerale, che parla di natura ma anche relazioni umane. Se vincesse ne sarei felice: ci sono (pochi) film migliori, ma questo è uno dei tre film che mi ha toccato il cuore in questa Mostra. Tuttavia, penso che un altro film del cuore, Father Mother Sister Brother, possa aver fatto breccia anche in Alexander Payne, presidente di giuria che da sempre racconta personaggi "rotti" che cercano disperatamente di uscire dalla propria solitudine, spesso senza riuscirci. All'elegia di Jarmush va il mio pronostico, mentre la mia scelta personale va al terzo film del cuore, un film che il cuore me lo ha rotto: The Voice of Hind Rajab.
PronosticoFather Mother Sister Brother
Scelta personaleThe Voice of Hind Rajab

Leone d'Oro 
Se il concorso è di alto livello, la sfida per il Leone si fa incerta e combattutissima. Uno qualunque dei film già citati come "papabili" per i due premi precedenti potrebbe vincere il Leone d'Oro, e non ci sarebbe nulla da dire. Penso però che il Leone se lo aggiudicherà la storia a più alto impatto emotivo della Mostra, sia per il tema, sia per una regia senza fronzoli ma perfetta per il tipo di racconto che aveva in mente: The Voice of Hind Rajab. La mia scelta personale ricade invece sul gioiellino di Jim Jarmush: un film solo apparentemente piccolo, ma grande nella sua capacità di parlare di Vita.
Pronostico: The Voice of Hind Rajab
Scelta personale: Father Mother Sister Brother

È tutto anche per quest'anno. Correte in SNAI a scommettere sull'opposto dei miei pronostici, e noi ci risentiamo per l'edizione 2026.

Pier

Telegrammi da Venezia 2025 - #8: Il Riassunto

Ultimo telegramma da Venezia 2025, con l'elenco di tutti i film visti del concorso e i relativi voti.


Quando il voto era pari, ho messo davanti il film che ho preferito. Cliccando il titolo potete leggere la recensione breve pubblicata nei Telegrammi precedenti.

  1. No Other Choice, voto 9.
  2. The Voice of Hind Rajab, voto 9.
  3. Bugoniavoto 9
  4. Father Mother Sister Brother, voto 8.5
  5. Silent Friend, voto 8.5
  6. Il Mago del Cremlino, voto 8
  7. Frankenstein, voto 7.5
  8. The Smashing Machine, voto 7.5
  9. La Grazia, voto 7.5
  10. A House of Dynamite, voto 7
  11. Elisa, voto 7
  12. Un film fatto per Bene (Bravo Bene!), voto 7.
  13. À pied d'œuvre - At Work, voto 6.5
  14. Sotto le Nuvole, voto 6.5
  15. Jay Kelly, voto 6.5
  16. Lo Straniero, voto 6
  17. Nühai - Girl, voto 6.
  18. Duse, voto 5
Non visti: OrphanThe Testament of Ann Lee, The Sun Rises on Us All.

Per i telegrammi è tutto, a più tardi per i pronostici.

Pier

Telegrammi da Venezia 2025 - #7

Settimo telegramma da Venezia, tra tuffi nella testa di un'assassina, alberi che osservano le nostre vite, film su film che non si sono fatti, festival di grande musica e coesione sociale, favole distopiche, e un Minority Report in salsa francese.


Elisa (Concorso), voto 7. Di Costanzo realizza un film carcerario che è per gran parte efficacissimo, una fredda e impietosa discesa nella mente di un'assassina, sorretto da una fotografia algida e distante e da un cast eccezionale capitanato da Barbara Ronchi. Tuttavia il film perde forza e potenza (e guadagna inutilmente in durata) per inseguire delle pulsioni da televisione nazionalpopolare in cui tutto deve essere spiegato e tutti i personaggi devono piacere al pubblico. Peccato, ma il talento resta. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Silent Friend (Concorso), voto 8.5. Un albero di ginkgo biloba domina il cortile di un'università medioevale tedesca, e osserva silenzioso tre storie che si dipanano su più di un secolo: quella della prima donna ammessa all'università, quella di due ragazzi che cercano di comunicare con un geranio, e quella di un neuroscienziato (Tony Leung) che cerca di tracciare paralleli tra il nostro cervello e il pensiero della pianta. Ildiko Enyedi realizza un film lirico ma anche divertente, una splendida meditazione sul nostro rapporto con la natura, ma soprattutto su cosa significhi comunicare con "l'altro" - l'albero, ma anche le persone - e sul nostro insopprimibile desiderio di farlo. L'albero è quasi un alieno (si pensa spesso a un film diversissimo eppure simile come Arrival, durante la visione) che osserva le nostre vite effimere e i nostri tentativi di creare una connessione - tra noi, e con lui, attraverso i secoli. Alla regista ungherese riesce l'impresa di trovare il delicato equilibrio tra riflessione filosofica e narrazione, e nel farlo ci regala un film evocativo e misterioso, che lascia lo spettatore con una sensazione di pace e compiutezza, ma anche di leopardiana inadeguatezza di fronte all'infinito.

Un film fatto per Bene (Bravo Bene!) (Concorso), voto 7. Maresco realizza una riflessione metacinematografica su arte, cinema e depressione eclettica e folle, in cui reale e finzione si mescolano al punto che diventa impossibile distinguerli. Il film su Carmelo Bene diventa un delirio, una meditazione, un non-film che avrebbe fatto contento il grande artista cui è dedicato. Moresco mette se stesso (o una versione cinematografica di se stesso?) davanti alla telecamere e regala un racconto volutamente sconclusionato ma divertente e ispirato, l'ennesima riflessione sulla Sicilia, sull'Italia, e sull'eredità (tradita o raccolta) di un grande artista come Bene, che ne avrebbe apprezzato il taglio nichilista, misterioso e senza risposte.

Newport and the Great Folk Dream (Fuori Concorso), voto 8.5. Un magnifico documentario fatto di sole immagini d'archivio che racconta gli anni di gloria del festival di musica folk di Newport, che lanciò tra gli altri Bob Dylan e Joan Baez. Il film racconta alla perfezione le radici democratiche e sociali del festival, che pagava tutti alla stessa maniera e dava spazio a tutte le tradizioni musicali degli USA, permettendo un incontro tra generazioni ed etnie diversissime. Si creava così non solo un terreno fertile per la contaminazione artistica e la creatività, ma un punto di incontro dove si superavano tutte le divisioni civili e sociali che allora come oggi laceravano gli Stati Uniti. Un'utopia durata solo pochi anni, prima che il commercio prendesse il sopravvento, che ha però permesso lo sviluppo di idee di pace e solidarietà. Qui la recensione completa scritta da Nonsolocinema.

100 Nights of Hero (Settimana della Critica), voto 7.5 Bizzarro incrocio tra Le mille e una notte The Handmaid's Tale, ma girato con il piglio di Emerald Fennell: Julia Jackman, all'esordio alla regia, crea un'intera mitologia per un mondo che è diverso dal nostro eppure simile, in cui gli dei influenzano la vita degli essere umani e creano la religione come strumento di oppressione femminile. Il risultato è una divertente fiaba distopica sul potere delle storie e della conoscenza come fonte di libertà ed emancipazione, femminile ma non solo, con un bellissimo finale.

Chien 51 (Fuori Concorso), voto 6. In un futuro prossimo, Parigi è divisa in zone, e l'intelligenza artificiale Alma aiuta la polizia a risolvere e prevenire i crimini. L'omicidio del creatore di Alma e la successiva indagine, tuttavia, rivelano che qualcosa è fuori posto. Un noir distopico molto classico realizzato molto bene a livello tecnico, anche se avrebbe beneficiato da una maggiore attenzione alla sceneggiatura, a tratti molto prevedibile. La tematica, tuttavia, è rilevante, e purtroppo non troppo distante dalla realtà.

Pier

giovedì 4 settembre 2025

Telegrammi da Venezia 2025 - #6

Sesto telegramma da Venezia, tra bambine lasciate a se stesse, malavitosi con ambizioni letterarie, regine del cotone, donne che lottano con i debiti, e guerriglie urbane.


Nühai - Girl (Concorso), voto 6. Il racconto dell'infanzia tormentata di una bambina taiwanese, ignorata dai genitori, che trova se stessa nell'amicizia con una coetanea, anche se il dolore dell'abbandono, una volta subito, non scompare, ma scava dentro. L'attrice cinese Shu Qi firma un buon esordio alla regia, che non brilla per originalità ma tocca le corde emotive giuste, con alcuni momenti nella natura molto lirici.

Ammazzare Stanca (Spotlight), voto 6. Una storia di mafia poco convenzionale, ambientata al Nord, con un figlio di boss pentito che vuole cambiare vita diventando uno scrittore. Daniele Vicari racconta la storia con un buon mix di divertimento e tensione. Ottima prova corale del cast.

Cotton Queen (Settimana della Critica), voto 9. Un'adolescente si trova a lottare contro i tentativi stranieri di strappare al suo villaggio il controllo del commercio del cotone. Un film che parla di politica senza essere politico, affrontando la tensione tra tradizione e desiderio di modernità in Sudan attraverso una moltiplicazione delle prospettive che nasconde, fino all'ultimo, quale sia la verità.

Vainilla (Giornate degli Autori), voto 6.5. Racconto corale di una famiglia messicana tutta al femminile che lotta per non soccombere ai debiti, visto dagli occhi della bambina di casa, la cui interpretazione dà luce e vita al film.

Notte a Caracas (Spotlight), voto 7. Caracas, 2017. Una donna si trova intrappolata in casa mentre in strada impazza la guerriglia, il cui suono domina la scena. Un racconto storico efficace e teso, che attraverso una storia personale fa comprendere quale fosse la situazione sociopolitica in Venezuela in quegli anni.

Simone

mercoledì 3 settembre 2025

Telegrammi da Venezia 2025 - #5

Quinto telegramma da Venezia, tra adattamenti sontuosi ma forse evitabili, thriller politici e apocalittici, manoscritti di valore inestimabile, dive annacquate, e la voce di un genocidio.


Lo Straniero (Concorso), voto 6. Ozon realizza un adattamento del romanzo di Camus visivamente sontuoso, con un bianco e nero a contrasti forti che evidenzia lo straniamento del protagonista, la sua mancanza di interessi, di valori, di morale. Ciò che manca, tuttavia, è la capacità di adattamento: il romanzo viene trasposto quasi letteralmente, ma ciò che su carta è efficace e poetico risulta artificioso e retorico su pellicola. Già Luchino Visconti si era cimentato con Lo straniero nel 1967, un adattamento considerato poco riuscito: Morando Morandini accusò il film di aver rincorso "inutilmente una fedeltà illustrativa alla lettera di Camus, impotente a ricrearne lo spirito." Questo commento è ancora più vero per il film di Ozon, che dura quindici minuti in più di quello di Visconti (e si sentono tutti), due ore di durata per un libro di poco più di cento pagine (nell'edizione italiana). Il regista francese si perde in un letteralismo ancora più esasperato, e si salva, come detto, solo grazie al comparto visivo e agli attori, tutti ottimi. 
Non è abitudine di questo blog mettere in discussione la decisione di un regista di trattare un determinato argomento: solitamente ne prendiamo atto e ci limitiamo a valutare se l'obiettivo che il regista si prefiggeva sia stato o meno raggiunto. Viene però da chiedersi se il capolavoro di Camus sia adattabile al cinema, visto il doppio fallimento di due maestri, o se la sua forza risieda in una poesia e filosofia che al cinema sono difficili da trasporre.

A House of Dynamite (Concorso), voto 7. L'inizio del thriller politico di Kathryn Bigelow è fulminante: scene che si interconnettono, funzionari governativi, politici, e militari che realizzano che un missile nucleare di origine sconosciuta sta per colpire gli Stati Uniti, e cercano disperatamente di impedirlo. Esistono protocolli, procedure, ma non sono attrezzati per la realtà, non tengono conto delle reazioni umane, troppo umane, di chi dovrebbe implementarli. Bigelow si muove tra i vari uffici con un ritmo e un piglio degno di The West Wing, e la tensione è altissima, così come la sensazione di ineluttabilità. Poi, però, tutto si resetta, e non per una, ma per ben due volte: i punti di vista si moltiplicano, ma raccontano sempre gli stessi minuti, gli stessi identici eventi, semplicemente da punti di vista diversi. Con la ripetizione, la tensione, inevitabilmente, cala, soprattutto nel secondo atto, quello forse più facilmente eliminabile. Risale un po' nel terzo, anche grazie al focus sul presidente (un ottimo Idris Elba), ma è troppo tardi. Un vero peccato per un thriller apocalittico che sembra avere la forza di una profezia, sperando che Bigelow sia falsa profeta e non Cassandra. Finale sospeso e coraggiosissimo, ma in parte depotenziato da una scelta fatta nel primo atto.

In The Hand of Dante (Fuori Concorso), voto 4. L'unico aggettivo che si può utilizzare per questo film è "inspiegabile": inspiegabile che un maestro come Julian Schnabel abbia deciso di realizzare un lavoro così arzigogolato, con due piani narrativi connessi solo alla lontana e una tensione praticamente assente; ancora più inspiegabile che lo abbia realizzato in modo così retorico e verboso, con scene che sfociano direttamente nel ridicolo involontario, soprattutto nel finale. Peccato perché qualche spunto interessante, soprattutto nella storia ambientata nel presente (i gangster che danno la caccia alla copia autografa della Divina Commedia), c'era: ma il resto è una catabasi che non esce mai a riveder le stelle.

Duse (Concorso), voto 5. Un film su Eleonora Duse, la Divina del teatro italiano, un'attrice carismatica, dal carattere dirompente, nasce e muore con la sua interprete. Se si vuole raccontare la Duse, una donna in anticipo sui tempi, in grado di tenere testa e rubare il cuore a Gabriele D'Annunzio, che non ebbe paura di sfidare e distruggere le convenzioni, non ci si può permettersi di sbagliare il casting dell'attrice principale. Purtroppo questo è ciò che succede nel film del solitamente bravo Pietro Marcello: Valeria Bruni Tedeschi, non sappiamo se per scarsa attitudine, indicazioni registiche, o ambedue, dà vita a una Duse anonima, una vecchietta svampita tutta sorrisi e moine che scompare in scena quando dovrebbe dominarla (emblematiche in tal senso le scene con D'Annunzio e Sarah Bernhardt, epigona francese della Duse, talmente dominate dalle due controparti che ci si dimentica della presenza dell'attrice italiana), e che non restituisce alcunché della grandezza teatrale della Duse, che rivoluzionò il modo di stare sul palco e preparare un personaggio. Anche la sceneggiatura non ingrana, azzoppata da una retorica eccessiva che funziona quando viene messa in bocca a D'Annunzio e ai teatranti, ma risulta stucchevole e fuori posto quando viene ripetuta anche per personaggi "quotidiani" come la figlia e l'assistente della Duse. Fotografia e regia sono ottime, e anche il tentativo di parlare dell'orrore della guerra e della medicina sperata (l'arte, il teatro) da Duse e D'Annunzio, rispetto a quella realmente arrivata (l'olio di ricino del fascismo) è interessante: ma il film è come un'automobile senza ruote.

The Voice of Hind Rajab (Concorso), voto 9. La storia vera di Hind Rajab, bambina palestinese sopravvissuta a un attacco israeliano, e del tentativo di salvarla da parte della Mezzaluna Rossa, viene raccontata con una commisione di audio reali e scene ricostruite. Un film devastante per impatto emotivo, che deve la sua forza alla vicenda narrata ma anche alla sapienza della confezione filmica. Il film è, ovviamente, molto attuale, ma è al tempo stesso universale: perché in ogni guerra, in ogni persecuzione fatta solo per etnia e nazionalità, c'è sempre una bambina che rimane sola e cerca disperatamente aiuto, e c'è sempre chi cercherà di portarglielo nonostante tutte le difficoltà. Qui trovate la recensione estesa scritta per Nonsolocinema.

Pier

martedì 2 settembre 2025

Telegrammi da Venezia 2025 - #4

Quarto telegramma da Venezia, tra eminenze grigie con la passione per il teatro, lottatori in crisi, sequestratori con cui empatizzare, ed esperimenti che meritavano miglior sorte.


Il Mago del Cremlino (Concorso), voto 8. Come si distrugge la verità? La ricetta non è la magia, anche se il titolo sembra suggerirlo, ma una profonda conoscenza della psiche umana e dei trucchi con cui si può ingannarla. A partire dall'omonimo romanzo di Giuliano da Empoli, Assayas confeziona un thriller politico che racconta la caduta del Muro e l'ascesa di Vladimir Putin attraverso un dialogo/confessione tra un giornalista e Vadim Baranov, ispirato a Vladislav Surkov, eminenza grigia di Putin. Baranov ha un passato da teatrante, e sa leggere, comprendere, e manipolare le emozioni: non basta altro. Sceneggiatura stellare (con la collaborazione, e si vede, di Emmanuel Carrère), e cast perfetto, da Jude Law/Putin a Jeffrey Wright nei panni del giornalista, passando per Alicia Vikander. A brillare più di tutti è però Paul Dano, che dopo Il Petroliere torna a essere il volto innocente e seducente del Male, un sorriso disarmante che repelle e conquista allo stesso tempo.

The Smashing Machine (Concorso), voto 7.5. Benny Safdie racconta la storia vera di Mark Kerr, lottatore di arti marziali miste, cui Dwayne Johnson presta volto e corpo, raccontandone la forza fisica e la fragilità emotiva. Un solido film sportivo, fotografato con taglio semi-documentaristico, che ha il pregio di non raccontare una classica parabola di caduta-redenzione-rinascita, pur tratteggiandola di sottofondo (con la centralità data alle vicende di Mark Coleman, amico e collega di Kerr) come elemento di contrasto all'evoluzione meno convenzionale della vita di Kerr. Il risultato è un film che non brilla per originalità, ma funziona a livello narrativo ed emotivo, con una morale non scontata.

Dead Man's Wire (Fuori Concorso), voto 8. Gus Van Sant torna alla regia dopo sette anni e lo fa con una commedia-thriller tratta da una storia vera, in un'operazione che ricorda quella operata da Richard Linklater (regista tematicamente simile a Van Sant, e come lui solitamente lontano da questo genere) con Hitman, presentato due anni fa proprio a Venezia. Il film racconta l'assurda storia vera del sequestro del banchiere Richard Hall da parte di Tony Kiritsis. Raccontato con la giusta dose di humor nero, Dead Man's Wire è un'attenta esplorazione della psiche umana e di quanto poco basti per far "impazzire" un uomo probo e onesto. Van Sant esibisce una chiara e sacrosanta favorevolezza alle posizioni di Kiritsis (un ottimo Bill Skarsgard), perfetto esempio del "piccolo uomo" truffato dalle grandi banche e dal sistema capitalistico in generale, realizzando un film che diverte ma porta anche avanti una forte posizione politica, soprattutto di questi tempi.

Orfeo (Fuori Concorso), voto 5. Un voto di stima, perché questo pastiche di live action e animazione realizzato da Virgilio Villoresi con sguardo e fotografia espressionista ha intuizioni visive notevoli e stimolanti. Tuttavia, la trama è un guazzabuglio senza capo né coda, frutto di un adattamento pedissequo dell'opera omonima di Buzzati, che avrebbe richiesto maggior riflessione per essere resa in modo efficace su un altro medium. Non brilla nemmeno il cast (con l'eccezione di Vinicio Marchioni), che sembra essere stato scelto da un cinofilo, anziché da un cinefilo.

Pier

domenica 31 agosto 2025

Telegrammi da Venezia 2025 - #3

Terzo telegramma da Venezia, tra mostri creatori e umani creati, Napoli e il sottosuolo, manager d'hotel sconnessi, e gocce di poesia famigliare.


Frankenstein (Concorso), voto 7.5. Del Toro adatta la storia di Frankenstein toccando tutte le corde ricorrenti nel suo cinema: dall'umanità del mostro alla mostruosità dell'uomo, passando per la ricerca dell'amore e della connessione. Visivamente sontuoso (il laboratorio di Viktor è splendido, così come le scene nell'Artico), a livello tematico non rivoluziona un mito già esplorato più volte dalla cinematografia, riprendendo toni e situazioni già viste sia in altri adattamenti (il mostro è molto debitore dell'incarnazione vista in Penny Dreadful), sia in altri lavori di Del Toro. Forse era inevitabile, visto che questo mito ha formato la poetica deltoriana, e ha finito quindi per permearne l'opera. Rimane però la sensazione che si potesse fare di più, trovare chiavi nuove che qui sono invece assenti, fatta eccezione per uno spunto tolkieniano su come la morte sia un dono e non una maledizione da cui fuggire (la creatura è qui immortale) e un Viktor che è l'incarnazione della mascolinità tossica, con Elizabeth che diviene da amata desiderio proibito e capriccio di un bambino mai veramente cresciuto (Viktor beve solo latte durante il film). Splendida prova del cast, con Oscar Isaac mostro-creatore, Elordi dolente quanto basta, e Mia Goth ambigua e carismatica, cuore emotivo del film.

Sotto le Nuvole (Concorso), voto 6.5. Gianfranco Rosi torna sulle note di Sacro GRA, il documentario che gli valse il Leone d'oro nel 2013. Questa volta la protagonista è Napoli, e in particolare il suo rapporto con il sottosuolo, dalla Napoli sotterranea ai terremoti causati dai Campi Flegrei e dal Vesuvio. Il suo approccio al documentario come commedia umana mostra però la corda, alternando racconti molto riusciti (il centralino dei pompieri meriterebbe un film dedicato) ad altri meno efficaci (la parte archeologica risulta, alla lunga, ripetitiva), oltre a indugiare troppo in inquadrature "a effetto" che soddisfano la vista ma appesantiscono la narrazione.

The Souffleur (Orizzonti), voto 3. Una storia potenzialmente interessante (il manager di un hotel cerca disperatamente di evitarne la chiusura) viene raccontata in maniera non lineare, per suggestioni: il gioco potrebbe anche funzionare (è la cifra stilistica di Lynch), ma qui deraglia miseramente, risultando del tutto disconnesso. Si salvano solo la breve durata (meno di 90', un miracolo di questi tempi) e un Willem Dafoe piacevolmente gigione.

Father Mother Sister Brother (Concorso), voto 8.5. Il film del cuore del Concorso finora, anche se meno ambizioso di altri visti fin qui. Jarmush realizza un film sull'essere famiglia attraverso tre episodi disconnessi narrativamente ma fortemente interconnessi a livello tematico ed emotivo, come i movimenti di una sonata. Delicato e fragile come un fiore, ma con radici che affondano profonde, scavando nell'anima. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Pier

sabato 30 agosto 2025

Telegrammi da Venezia 2025 - #2

Secondo telegramma da Venezia, tra thriller sociali maldestri, commedie nere attualissime, racconti della precarietà, e criminali che si trovano costretti a far riunire i Beatles.


After the Hunt (Fuori Concorso), voto 5. Guadagnino torna alla Mostra con un film pasticciato, soprattutto a causa della sceneggiatura di Nora Garrett, sfilacciata e inconcludente a livello sia tematico che narrativo. L'idea sarebbe di fare un thriller psicologico, il risultato è una riflessione su un tema etico importante e attuale (quello del consenso) che vorrebbe essere stratificata ma risulta ahinoi inconcludente, pur dando qualche spunto di riflessione. La tensione è quasi del tutto assente, e arriva solo grazie alla buona prova di Julia Roberts e alle musiche (bellissime, anche se spesso fuori posto) di Reznor e Ross. Guadagnino dona al film i suoi momenti più interessanti grazie a una regia claustrofobica e un'ottima direzione degli attori, ma a volte si perde in inquadrature inspiegabili (lunghi momenti fuori fuoco, la fissazione per le mani) che sembrano puro esercizio di stile, l'espressione di un desiderio hitchockiano di restituire lo sguardo dei personaggi che però non ha alcuna connessione con il tessuto narrativo. Il "ricciolo" di Vertigo era collegato alla trama, funzionale al racconto: Guadagnino pare esserselo dimenticato.

No Other Choice (Concorso), voto 9. Park Chan-wook torna tre anni dopo Decision to Leave con una commedia nera, nerissima su come il capitalismo corrompa anche l'animo più nobile, fagocitando i suoi fedeli servitori e spingendoli a una guerra tra poveri svilente e piena di disperazione. La storia di un uomo che perde il lavoro dopo 25 anni si innesta nella tradizione "politica" che sembra aver trovato forte linfa nel cinema coreano (si pensi a Parasite, ma anche a Squid Game), ma con un approccio disincantato e cinico che lo rende sia satira che critica sociale - un taglio che sarebbe piaciuto a Elio Petri. Park dipinge con la macchina da presa (pochi registi usano la luce come la usa lui), alternando momenti poetici ad altri grotteschi con una fluidità di ripresa e montaggio che fa sì che il film risulti omogeneo e coeso nonostante i continui cambi tonali. Due scene "musicali" sono da applausi a scena aperta.

À pied d'œuvre - At Work (Concorso), voto 6.5. Valérie Donzelli racconta il precariato artistico, mettendolo in relazione al fenomeno della gig economy, e a come abbia trasformato i lavoratori nei peggiori nemici di se stessi (e migliori amici delle grandi aziende). Il film non brilla per originalità ma funziona a livello sia "politico" che emotivo, e Donzelli firma una regia "invisibile", capace di virtuosismi ma senza esibiziosmi.

The Last Viking (Fuori Concorso), voto 7.5. Dalla Danimarca arriva una bella commedia drammatica con il gusto dell'assurdo, in cui un criminale appena uscito di prigione ha bisogno del fratello malato di mente per ritrovare il bottino nascosto anni prima. Il fratello, tuttavia, è ora convinto di essere John Lennon, e per aiutarlo a ricordare si troverà a dover riunire i Beatles. Questa traccia leggera si mescola a tematiche pesanti come l'esplorazione di drammi personali, la rimozione del trauma, il concetto di identità, la malattia mentale, nonché alcune esplosioni di violenza ai limti del pulp. Si ride, ci si emoziona, e non ci si annoia mai in un film che unisce molteplici generi (ci sono anche dei begli spezzoni in animazione) e che viene esaltato dall'ottima prova del cast, capitanato da Mads Mikkelsen/John Lennon e Kardo Razzazi, uomo dalle multiple personalità, che si crede sia Paul McCartney che George Harrison.

Pier

giovedì 28 agosto 2025

Telegrammi da Venezia 2025 - #1

Come ogni anno, Film Ora è a Venezia, e vi accompagnerà per tutta la Mostra del Cinema con i suoi telegrammi: brevi recensioni dei film visti nelle varie sezioni. Una Mostra con tantissimi titoli interessanti, che vede il ritorno dietro la macchina da presa di grandi registi (Kathryn Bigelow, Gus Van Sant) che non si vedevano da tempo, oltre che molti graditi abitué (Jim Jarmush, Paolo Sorrentino, Guillermo Del Toro). Una mostra che promette bene, quindi, anche se non mancheranno le inevitabili delusioni.


Ecco i film visti nel primo giorno e mezzo di Mostra:

La Grazia (Concorso), voto 7.5. Dopo averne messo alla berlina gli eccessi e i crimini, Sorrentino torna a raccontare la politica, ma questa volta si occupa della politica "alta", che si occupa con responsabilità di tematiche spinose e pungenti. Questo non significa, tuttavia, che rinunci a raccontare l'umanità e la fallibilità dei personaggi: il Presidente De Santis di Servillo è un uomo dignitoso che vive nella paura di non esserlo, e che per questo sta lentamente perdendo amore per la vita, intrappolato in una rete di sua costruzione. Sorrentino offre non più uno sguardo alla morte incombente che si nasconde in agguato dietro una vitalità esibita ma di facciata, ma la vita che cerca di farsi strada, una pianta che cerca di rifiorire in un terreno arido e bruciato. Non passerà alla storia come il suo film migliore, ma offre molti spunti emotivi ed etici di grande impatto, nonostante qualche sbrodolata evitabile. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Ghost Elephants (Fuori Concorso), voto 8. Werner Herzog si addentra negli inaccessibili altipiani dell'Angola per scoprire gli sfuggenti discendenti del più grande elefante mai catturato. La sua è una storia di resilienza e bellezza, ma anche di come la crudeltà umana abbia spinto sull'orlo dell'estinzione queste nobili creature, e di come popolazioni che amiamo considerare "arretrate" abbiano in realtà un rapporto con la natura da cui potremmo imparare molto.

Il Rapimento di Arabella (Orizzonti), voto 7. Carolina Cavalli realizza un'opera seconda sulle stesse note dell'assurdo di Amanda, la sua opera prima, ma con influenze ulteriori che spaziano da Lynch a Thelma & Louise. La storia di un'adulta che vuole tornare bambina, viaggiare nel tempo per riparare agli errori fatti, convince e conquista, grazie anche all'ottima prova delle protagoniste e alla capacità di Cavalli di creare dei "non-luoghi" narrativi, sospesi tra l'Italia e gli USA.

Bugonia (Concorso), voto 9. Lanthimos trova una perfetta sintesi tra il suo cinema degli esordi e il suo periodo hollywoodiano, realizzando un'opera (remake di un film coreano del 2003) ipnotica, ironica e disperata, che si nutre di opposti: una tragedia in cui si ride, un film senza speranza che mira a risvegliare le coscienze, una storia in cui il villain non è nessuno e, al tempo stesso, siamo tutti noi, con un finale che pietrifica e, al tempo stesso, lascia con un senso di giustizia compiuta. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Jay Kelly (Concorso), voto 6.5. Baumbach firma un film malinconico, in cui un attore si ritrova a fine carriera con una vita personale disastrata e la sensazione di non aver fatto nulla della sua vita. Il film funziona, nonostante la lunghezza eccessiva e alcuni stereotipi culturali (sull'Italia in primis) un po' datati, e farà breccia nel cuore del pubblico. Tuttavia, il merito non è tanto della scrittura di Baumbach, efficace ma molto meno brillante del solito, quanto di un George Clooney che unisce alla perfezione la sua anima gigiona e quella drammatica.

Pier

mercoledì 27 agosto 2025

Weapons

Sgretolare una comunità


Non è un segreto che oggi l'horror sia diventato un genere che ama affrontare tematiche sociali. Forse lo era sempre stato, ma da Get Out! in poi il numero di film dai forti connotati sociologici e, spesso, politici è esploso. Weapons, opera seconda di Zach Cregger, non fa eccezione. La trama sarebbe riassumibile come "qualcosa di malvagio e misterioso si infiltra in una comunità già frammentata e la distrugge definitivamente, usando le persone come armi contro chi cerca di ostacolare i suoi piani": se suona come la realtà in cui ci troviamo a vivere, soprattutto negli USA, non è un caso. 

Weapons è un film sulla manipolazione, che qui avviene per via magica anziché mediatica, e di come questa possa portare intere comunità a uno stato di guerra permanente, tutti contro tutti. Il Male, alla fine, può essere sconfitto, ma la ferita che ha lasciato faticherà a guarire, e forse non guarirà mai. Garner dipana la trama lentamente, senza fretta, cambiando i punti di vista per disvelare gli effetti tossici del Male, che scava, distrugge, corrompe, sfrutta le debolezze e i traumi già esistenti per insinuarsi e mettere radici. Se da un lato questo espediente rende la narrazione troppo spezzettata e, alla lunga, un po' ripetitiva (l'inizio è decisamente più efficace della parte centrale), dall'altro riesce a restituire l'anima frammentata del paese in cui si svolge la vicenda, epitome degli Stati Uniti e del mondo intero: un paese già "rotto", e per questo fragile quando il Male si presenta a bussare alla sua porta. 

La frammentazione narrativa evidenzia alla perfezione come questo avvenga grazie al fatto che i protagonisti sono isolati, non si parlano tra loro, spesso non si conoscono nemmeno, e di sicuro non si fidano. Garner usa uno dei tropoi più pigri dell'horror e del thriller (la non-comunicazione di informazioni fondamentali tra i protagonisti), e lo vira a suo favore, rendendolo parte integrante del messaggio.

Il film è fotografato con maestria, e molti dei momenti migliori sono puramente visivi, a cominciare dall'immagine efficacissima e inquietante che campeggia sui materiali promozionali. Garner ha grande senso dell'inquadratura e dell'atmosfera, e con questo compensa ciò che gli difetta in ritmo e costruzione del crescendo narrativo. Weapons è un film ricco di suggestioni visive che parlano più di mille parole, dalla "zombificazione" di chi cade preda del male alle inquadrature che evidenziano la desolazione e la solitudine dei protagonisti (magistrale, in tal senso, quella in cui vediamo la maestra di Julia Garner rispondere a un misterioso scampanellio notturno).

Weapons non passerà alla storia, ma è un horror solido, teso, e con un messaggio chiaro e forte che non appesantisce la narrazione. Anche se è indubbio che le continue "ripartenze" della storia, con cambio del punto di vista, siano funzionali alle intenzioni del regista, non si può non notare che un cambio di struttura e ritmo (anche non radicale come quello di Parasite o de I Peccatori) avrebbe giovato al film in termini sia di narrazione che di creatività. Resta comunque un'ottima opera seconda, che promette bene per il prosieguo di Cregger all'interno di un genere che è oggi forse il più vitale e innovativo del panorma hollywoodiano.

*** 1/2

Pier

martedì 22 luglio 2025

Superman

Leggere i bisogni


Superman ha fermato l'invasione unilaterale dello stato di Jarhanpur da parte della dittatura di Boravia. Tuttavia, Boravia è un alleato degli USA, e il governo, sobillato da Lex Luthor, comincia a mettere in dubbio quanto si possa fidare di Superman, costringendo Clark Kent/Kal-El a fare i conti con la sua missione e le sue decisioni.

Ci sono prodotti culturali che riescono a cogliere perfettamente lo spirito del tempo, o addirittura ad anticiparlo: è il caso di Joker, per esempio, inquietante nella sua capacità di catturare il livello di rabbia e desiderio di rivolta che ribolliva nella pancia degli USA. Altri prodotti, tuttavia, non leggono lo spirito del tempo, ma ne leggono i bisogni. Bruce Springsteen è un artista particolarmente sensibile in tal senso. Nel 1982 pubblica Nebraska, che racconta il fallimento del sogno americano e le crisi esistenziali di molti lavoratori in un momento in cui negli USA lo spirito dominante era ottimista, entusiasta: erano i primi vagiti della presidenza Reagan, e il futuro sembrava pieno di ricchezza per tutti: ma c'era già chi sapeva - sentiva - che sarebbe stato lasciato indietro, e aveva bisogno di qualcuno che raccogliesse il suo disorientamento. Allo stesso modo, nel 2002 Springsteen pubblica The Rising subito dopo gli attentati dell'11 Settembre 2001: l'umore del paese è nero, cupo, pessimista, ma Springsteen scrive un album carico di speranza e ottimismo - non ciò che il pubblico provava in quel momento, ma ciò di cui aveva bisogno.

Superman, nella sua trasposizione cinematografica, sembra un personaggio capace di catturare i bisogni nascosti della società: cupo e preconizzante sventura nel 2006, gli anni della presidenza Obama, pieno di luce oggi, quando il mondo è in fiamme per guerre, crisi economiche, disuguaglianze sempre crescenti. James Gunn non vuole seguire lo spirito dominante, ma vuole lanciare un segnale di speranza - un messaggio che dovrebbe essere banale, ma che oggi tristemente finisce per non esserlo: essere brave persone è un valore, non qualcosa da prendere in giro. Il Superman di Gunn è umano più che alieno, un immigrato alieno (illegal alien, il termine inglese, rende ancora meglio l'ambiguità della sua situazione) cresciuto con i valori di una famiglia terrestre che gli ha insegnato ad aiutare il suo prossimo, a costruire ponti anziché seminare divisione, a mettere il suo immenso potere al servizio dei più deboli. 

Banalità, appunto, temi classici dei grandi blockbuster USA anni Novanta. Eppure. Eppure oggi non sono più banalità, e Gunn lo evidenzia a ogni passaggio narrativo. L'aggressione unidirezionale di uno stato sovrano del "terzo mondo" da parte di una dittatura, un miliardario del settore tech affetto da egomania che controlla de facto il governo statunitense (indicativo che questo sia uno dei pochissimi film del genere a non far nemmeno vedere il presidente del paese), la pervasività delle fake news (una delle scene dove la metafora si fa più letterale eppure, proprio per questo, diventa tremendamente efficace): questo, togliendo i metaumani, è il nostro mondo, che ci piaccia o meno: un mondo che ha dimenticato cose che una volta avremmo considerato, appunto, banalità, e oggi vengono etichettate con l'orrido neologismo "buoniste". Oggi, essere buono non è banale: è anticonformista, è "punk".


Intorno a questo messaggio politico, semplice ma diretto (ma non lo sono tutte le "grandi" campagne elettorali?) Gunn realizza il cinecomic più strutturalmente e narrativamente simile a un fumetto visto finora al cinema: colorato, ipercinetico, sovraffollato, con continui cambi di prospettiva, nuovi personaggi, pochissimi attimi di respiro. Il risultato è un film a volte narrativamente caotico, ma incredibilmente efficace a livello di intrattenimento e messaggio emotivo: un film che parla alla pancia e al cuore prima che al cervello, ma che fa il suo mestiere con competenza e grande senso per lo spettacolo. La scelta di iniziare in medias res funziona perché ci mostra subito un Superman vulnerabile, che ha nella famiglia e in un animale i suoi riferimenti emotivi ed è ben integrato nella vita terreste: un Superman umano, molto umano, che avvicina anziché allontanare, e con cui si entra subito in relazione.

Superman non è un film perfetto: come molti fumetti è sovraccarico, ha troppe linee narrative, e a volte perde ottime occasioni per approfondire bei momenti. La regia ipercinetica di Gunn e il suo uso dell'humor visivo intrattengono, ma a volte distraggono. Ma è un film che funziona, e lo fa perché azzecca tutti i beat emotivi: il richiamo tra scena di apertura e chiusura è forse scontato, ma tremendamente efficace; il monologo di Superman è scontato nei contenuti, ma perfetto nella forma, così come il dialogo tra Clark e suo padre; e quella bandiera che si alza al cielo mentre un popolo sta per essere sterminato è una delle immagini più potenti viste al cinema negli ultimi tempi, complice anche l'atroce attualità.

Funziona, inoltre, grazie ai suoi personaggi - ben scritti, ma soprattutto ben interpretati. L'ottima caratterizzazione della sceneggiatura di Gunn rischierebbe di finire annegata in battaglie ed effetti speciali se non fosse per un cast senza grandi nomi ma perfettamente in parte. Corenwset è un Superman perfetto: buono, ostinato, ingenuo, generoso, con uno humor terra-terra che funziona grazie alla sua totale mancanza di maliza. È sia Clark Kent che Kal-El, e è impossibile non affezionarsi a lui - non tifare per lui. Rachel Brosnahan è la miglior Lois Lane mai vista su schermo, una sorpresa solo per chi non aveva ammirato la sua irresistibile vena comica in The Marvelous Mrs. Maisel. Acuta, pungente, intelligente, capace di tenere intellettualmente testa a ogni controparte: Gunn e Brosnahan hanno finalmente reso Lois Lane un personaggio a tuttotondo anziché un generico interesse amoroso. Hoult è un Lex Luthor perfetto, che non sfigura di fronte ai grandissimi attori che lo hanno interpretato in passato, e tinge la sua malvagità di una motivazione tanto meschina quanto tremendamente realistica: l'invidia, la vanagloria. Attorno a loro si muovono vari personaggi, metaumani e non, tra cui brilla il Mr Terrific interpretato con meravigliosa indifferenza da Edi Kathegi, e che spesso ruba la scena ai protagonisti.

Rubare la scena

Superman non farà la storia dei cinecomic, ma è un film tremendamente adatto ai nostri tempi. Parafrasando un suo celebre collega, non è il supereroe che ci meritiamo, ma quello di cui abbiamo bisogno in un'epoca in cui è difficile essere ottimisti e sperare in un futuro migliore. Dalla visione di Superman si esce con un sorriso stampato in volto perché i mali del nostro tempo sono stati sconfitti da un eroe che incarna tutti i valori che ci rendono umani: nella realtà spesso non va così, ma la speranza, dopo la visione, divampa. Non è poco.

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Pier

lunedì 30 giugno 2025

Elio

Siamo soli?



Elio Solis perde i genitori molto piccolo, e cresce con la zia, che lavora nell'aviazione USA. Elio è un bambino solitario e introverso, ma di grande intelligenza.La storia del Voyager lo fa appassionare allo spazio, e a undici anni il suo unico obiettivo è comunicare con gli extraterrestri, nella speranza che lo rapiscano e portino con loro. Quando finalmente, dopo un messaggio lanciato nello spazio, il suo desiderio si avvera, si trova ad affrontare una crisi diplomatica di portata cosmica.

Ci risiamo: ultimanente i film Pixar originali sono vittima di uno strano fenomeno alla loro uscita in sala, per cui vengono ignorati senza valide motivazioni. Era già successo con Elemental, partito malissimo per poi diventare un successo grazie al passaparola del pubblico che si era recato a vederlo. Forse c'entra il marketing (scarso) della Disney, o forse c'entrano le decine di pagine online che danno dati sul box office in pasto al pubblico senza avere la minima contezza di cosa significhino, sparando cifre a caso su quanto dovrebbe incassare il film per cominciare a guadagnare e alimentando una "profezia che si autoavvera": leggo che nessuno lo ha visto, mi passa la voglia di andare a vederlo.

Qualunque sia la causa (e scusate lo sfogo/digressione in merito), anche in questo caso, come per Elemental, ha ragione chi è andato a vedere Elio. La Pixar (per mano dei tre registi Adrian Molina, Domee Shi e Madeline Sharafian) realizza un film in cui la sua poetica degli emarginati e delle solitudini che si incontrano (si vedano, per esempio, Ratatouille e Up tra i classici, e Luca e appunto Elemental tra le prove recenti) si fonde con quella di un altro grande fan dei perdenti, lo Steven Spielberg degli anni della Amblin, e della sua passione per lo spazio e per la "connessione" con nuove forme di vita. 

Il risultato è un film poetico e struggente sulla solitudine, il vero villain del film, in cui la grande domanda esistenziale "siamo soli?" viene declinata a livello sia micro- che macrocosmico. Elio cerca una connessione con gli alieni perché si sente solo sulla Terra: la sua ricerca è quella dell'umanità intera, ma anche quella di un ragazzo orfano che pensa che la zia lo ritenga un peso, e che dalla morte dei genitori non ha mai trovato una vera connessione con nessuno. 

Gli echi di E.T. e Incontri ravvicinati del terzo tipo sono evidenti, ma declinati all'interno di una storia che non è solo di amicizia, ma anche famigliare: come in Elemental e in Red (per citare due esempi recenti), le aspettative genitoriali sono il motore della vicenda, con Elio e Glordon che trovano una connessione proprio nella loro capacità di dirsi ciò che non hanno il coraggio di dire a zia e padre. 
Proprio la disconnessione, l'incapacità di creare legami sono al centro del film, ritratto di una società, quella contemporanea, che rende tutti raggiungibili ma ci allontana sempre di più. Elio è il ritratto di un disagio generazionale, in cui "gli alieni" rappresentano un desiderio di relazione che sembra sempre più impossibile.

Il design degli alieni è, finalmente, creativo, con numerose creature che perdono i tratti antropomorfi che tendiamo ad attribuire agli extraterrestri (simmetria, occhi) per esplorare un caleidoscopio di forme di vita che spinge i confini dell'immaginazione in nuovi territori. Glordon e la sua specie sono chiaramente ispirati ai tardigradi, e l'animazione Pixar riesce nel miracolo di rendere espressivo e coccoloso quello che è a tutti gli effetti una sorta di vermone senza occhi.

Anche il design del Comuniverso (rappresentazione cosmica di ciò che, nell'intenzione dei fondatori, avrebbe dovuto essere l'ONU) è immaginifico, una fusione delle visioni di Kubric in 2001: Odissea nello spazio e dei design psichedelici del fumetto, da Jack Kirby a Moebius: un mondo fatto di geometrie fluide e frattali, di nastri di Möbius policromatici che cambiano di continuo forma, in una mutazione continua di stampo quantistico che non ha pochi epigoni nella storia della fantascienza cinematografica.

Elio non è un Pixar "maggiore", uno di quelli che cambiano la storia dell'animazione, portandola in direzioni narrative mai esplorate prima. Tuttavia, è un film di grande inventiva e cuore, che racconta la solitudine e l'importanza di trovare il proprio posto nel mondo (o nei mondi) con delicatezza e creatività, regalandoci una piccola, grande favola spaziale che fa risuonare le corde emotive e intrattiene alla perfezione. Andate a vederlo in sala: non ve ne pentirete.

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Pier

sabato 21 giugno 2025

La Trama Fenicia

Uscire dal capitalismo



A livello superficiale, il cinema di Wes Anderson è conosciuto e riconoscibile per l'aspetto visivo: palette di colori curate al dettaglio, inquadrature simmetriche, scenografie teatrali da casa di bambole (qui il nostro approfondimento sul tema). Tuttavia, Wes Anderson è anche molto altro: è, nella prima fase della carriera, un magnifico creatore di personaggi nevrotici ma vivi, veri, e di cui è quasi impossibile non innamorarsi a prima vista (una dote riconosciutagli, fin dagli esordi, nientemeno che da Martin Scorsese). 

Con il tempo, tuttavia, il suo cinema è diventato sempre più politico, con un forte sostrato di anticapitalismo. Si potrebbe dire che questa tematica è sempre stata presente, vista la sua tendenza a raccontare sognatori che si ribellano a un sistema che pensa solo a numeri, regole e risultati (si pensi a Rushmore o a Le avventure acquatiche di Steve Zissou), però era un tema sotterraneo, strisciante, che passava in secondo piano rispetto alle critiche delle convenzioni borghesi e al suo raccontare solitudini che si incontrano e, almeno per un attimo, trovano un po' di conforto nella compagnia l'uno dell'altro. 

Da Fantastic Mr. Fox il tema emerge con maggiore evidenza, ma è con Grand Budapest Hotel che Anderson passa da una fase del suo cinema all'altra: il film finora più premiato di Anderson rappresenta il punto di passaggio dal primo al secondo Anderson, e ne unisce e sublima ambedue le istanze. Nel secondo Anderson, i personaggi diventano sempre meno persone e sempre più maschere della commedia dell'arte, la cui funzione è far emergere e risaltare una satira sociale ed economica che, nascondendosi dietro un'apparenza patinata, colpisce con la violenza del morso di un cobra. Se il primo Anderson usava la perfezione formale degli ambienti come contrasto all'imperfezione interiore dei suoi protagonisti, il secondo Anderson la sfrutta per sottolineare l'assurdità della realtà, in un impeto beckettiano che mette in luce le storture del sistema economico dominante. Dalla marginalizzazione (L'isola dei cani) alla sete di denaro sfrenata (Grand Budapest), passando per il rapporto tra capitalismo e distruzione dell'ambiente (Mr. Fox), per la morte del giornalismo e la disgregazione del tessuto sociale. (The French Dispatch): il secondo Anderson non risparmia alcun aspetto del sistema socioeconomico in cui viviamo. Dietro la perfezione formale e l'opulenza visiva, si nascondono mostri.

La trama fenicia sublima tutti questi tutti temi nella figura del suo protagonista, Zsa-zsa Korda, un magnate senza scrupoli dotato di una magnifica ironia e capacità di ignorare le atrocità commesse. Korda è il capitalismo (anzi: l'anarcocapitalismo) incarnato: affascinante, seducente senza morale, disinteressato alla propria reputazione e interessato solo alla perpetuazione della propria ricchezza, al punto da mettere a repentaglio la sua stessa sopravvivenza. La violenza, inflitta e subita, è parte intrinseca della sua vita, esattamente come lo è del capitalismo contemporaneo. 


Fin qui sembrerebbe un classico film da "secondo Anderson", ma il regista/sceneggiatore sceglie di ribaltare il tavolo, e tornare a raccontare una storia famigliare: il primo Anderson incontra il secondo, e Zsa-zsa intuisce che qualcosa nel suo stile di vita non funziona, e cerca confusamente di recuperare il rapporto con la figlia Liesl. Inizialmente lei non vuole saperne, ma accetta di seguirlo. E Zsa-zsa, fino a quel momento del tutto impervio al cambiamento (qui Wes Anderson parla proprio di questo tema), inizia a vedere che un'altra vita è possibile.

Così, lentamente ma inesorabilmente, le maschere tornano a essere persone, e nel film fa irruzione il sentimento, con Zsa-zsa che, pur portando avanti le sue macchinazioni finanziarie, mette sempre di più al centro il rapporto con Liesl. Nel finale, fuggiti dalla prigione d'oro del capitalismo, troviamo dei personaggi pienamente da "primo Anderson": strani, buffi, disadattati, ma con il coraggio di seguire le proprie passioni, dall'entomologia alla cucina. Il castello di carte del capitalismo cade, e con esso la perfezione formale: l'ultima scena è asimettrica, caotica, senza una palette di colori pastello: è il mondo reale, in cui Zsa-zsa si trova finalmente a vivere, molto meno ricco ma anche molto più felice.

Il cast è, come sempre, sublime, guidato da un Benicio del Toro stropicciato ma immarcescibile, che offre bombe a mano come fossero caramelle e attraversa la vita con stoico cinismo, fino a quando Liesl (un'ottima Mia Threapleton dal fierissimo cipiglio) non fa breccia nel suo cuore. Attorno a loro, un Michael Cera entomologo con segreti, Tom Hanks e Bryan Cranston improbabili appassionati di pallacanestro, un Cumberbatch che incarna tutti gli stereotipi del villain shakespeariano con stralunata e divertita crudeltà, e Bill Murray che è, semplicemente, Dio.

La trama fenicia è un film divertente e avventuroso, che dietro la patina dell'intrattenimento nasconde però una satira feroce di un sistema economico che è talmente radicato nelle nostre vite che, come Zsa-zsa, pensiamo che sia l'unico sistema possibile. Al tempo stesso è un film profondamente emotivo, in cui la soluzione alla crisi di un sistema che tutto divora è il recupero dei rapporti umani e la capacità di rinunciare al guadagno a tutti i costi per rimettere al centro le passioni e la comunità. Non tutto riesce secondo intenzione (alcune scene sono meno emozionanti di quanto potrebbero essere), ma nel complesso funziona e riesce a toccare mente e (soprattutto sul finale) cuore.

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Pier

venerdì 13 giugno 2025

Mission: Impossible - The Final Reckoning (In pillole #34)

Meditare sulla fine


Dopo gli eventi di Dead Recknoning, Ethan Hunt si trova a dover affrontare un avversario invisibile ma potentissimo: l'algoritmo, l'intelligenza artificiale malvagia. Un classico del cinema, anche d'autore (si pensi ad Hal 9000 in 2001: Odissea nello Spazio), con una lunga tradizione che McQuarrie cita esplicitamente, ma rendendo il nemico ancora più intangibile e sfuggente, come si addice a un film di spie. Su come questo film possa essere letto come una metafora dello stato del cinema come arte nell'era dell'AI hanno già scritto molto bene altri, cui vi rimando. Ma è impossibile anche non vederci una metafora dell'oggi, con alcuni scenari descritti nel film che appaiono come una versione nemmeno troppo estrema e "fantasiosa" di ciò che stiamo già vivendo.

Il film è, in fondo, una celebrazione dell'umanità, incarnata nel personaggio di Hunt. Innegabilmente egocentrico, da parte di Cruise, ma anche innegabilmente efficace. Hunt è un eroe imperfetto, che le prende di continuo, rischia la morte, ma non molla mai, continuando a correre a perdifiato per il mondo, cercando di tenere in piedi affetti e dovere. Il superomismo di Hunt serve a renderlo più "degno" del ruolo, non a elevarlo al di sopra della massa, ed è molto evidente in questo capitolo, che dedica meno spazio all'azione e più alle relazioni, ai ricordi, ai capitoli chiusi e a quelli che si vorrebbero aprire. 

L'azione, quando arriva, è eccellente, ma distillata, nel capitolo più cinefilo e cinematografico della saga: l'inseguimento in aeroplano cita Hitchcock, il tuffo nelle profondità marine cita grandi classici di fantascienza che ci portano nelle profondità dello spazio e del tempo, dal già citato 2001: Odissea nello Spazio a Gravity, passando per Interestellar. Quest'ultima scena è puro cinema, immagine senza dialogo che racconta la sfida uomo-natura, morte e rinascita. 

The Final Reckoning non è il film migliore della saga (a parere di chi scrive in testa ci sono, a pari merito, il primo capitolo e Fallout): ma è indubbiamente quello con più anima, più capacità di autoriflessione e più investimento emotivo, dove l'azione lascia il passo alla narrazione e alla ricerca del significato ultimo di una carriera, di una vita. Autocelebrativo? Certo. Ma in fondo Cruise e la saga se lo sono meritato, dopo anni di avventure mozzafiato in giro per il mondo.

*** 1/2

Pier

mercoledì 23 aprile 2025

I Peccatori

Il silenzio là fuori


1932, Clarksdale, Mississippi. I due gemelli Smoke e Stack tornano a casa dopo essere stati in trincea e aver lavorato per la malavita di Chicago. Vogliono aprire un juke joint, un locale dove anche gli afroamericani liberati ma ancora vittime della segregazione possano divertirsi. Per farlo, assoldano il cugino Sammie, musicista prodigioso, e altri amici della comunità locale. La sera dell'inaugurazione, però, si presentano tre bianchi, ospiti inattesi.

Ryan Coogler ha un senso innato per l'intrattenimento impegnato. Da Black panther alla serie di Creed, Coogler ha dimostrato un'abilità molto rara: quella di creare film divertenti, intrattenenti, di genere, ma in grado anche di parlare di tematiche importanti come giustizia sociale e appropriazione culturale.
Non ci sarebbe dunque da sorprendersi per il fatto che ne I peccatori riesca a replicare questa operazione. Ciononostante, alla fine del film si rimane con la sensazione di aver assistito a un mezzo miracolo.

Perché in I peccatori Coogler non si limita ad amalgamare ingredienti complessi, ricavandone un risultato efficace e armonic: qui mischia mitologie, suggestioni, generi con una creatività impareggiabile, ricavando una miscela cangiante, originale, che sembra sempre sul punto di bruciare e invece inebria, seduce, fino a esplodere trionfalmente.

Il primo atto è uno spaccato sociologico della vita degli afroamericani durante il periodo delle leggi Jim Crow e della segregazione. Siamo nel cuore della terra del blues, ma ai bianchi il blues piace, chi lo suona no, come ricorda uno dei personaggi. Quello che vediamo non è però solo la storia di una discriminazione strisciante, meno esibita ma comunque presente e terribilmente viva, ma quella di una comunità - con i suoi luoghi, i suoi riti, le sue tradizioni. Coogler si prende il suo tempo per presentarcela, ed è una scelta vincente, perché a questi personaggi ci si affeziona, e si capisce cosa hanno da perdere e da guadagnare.

Poi lo scenario, improvvisamente, cambia. Dai campi aperti e le strade ariose passiamo in un interno, il juke joint creato da Smoke e Stack. Non è l'unico cambiamento. Hans Christian Andersen diceva che quando le parole vengono meno, è la musica a parlare. E proprio così accade nel secondo atto de I peccatori: le parole cessano, e comincia la musica. Una musica magica, evocativa, che apre la porta a fantasmi, antenati, e incubi; una musica che risveglia passioni, che non lascia indifferenti; una musica che crea comunità, e - per dirla con Johann Sebastian Bach - aiuta a non sentire il silenzio là fuori, dove quella comunità è discriminata, isolata, perseguitata. 


Fuori, appunto. Per qualche attimo, il fuori cessa di esistere - sia per i protagonisti che per gli spettatori, ma non scompare. Rimane lì, in agguato, una notte oscura e piena di terrore. Siamo al terzo atto, in cui Coogler opera un'inversione a U degna di quella di Parasite o, per rimanere nel genere vampiresco, di Dal tramonto all'alba, trascinandoci all'inferno, e sfruttando la metafora del vampirismo nella sua doppia accezione.

Da una parte il vampirismo come metafora della discriminazione, del rigetto sociale, della marginalizzazione: non è un caso che i popoli la cui musica è in grado di risvegliare anime e demoni siano tre popoli storicamente vittime di oppressione (irlandesi, nativi americani, afroamericani), e che sia vista come uno strumento che permette di mantenere la propria identità, strappata da anni di schiavitù e prevaricazioni. Questa faccia del vampirismo si estrinseca alla perfezione nella scena del sabba celtico, in cui il leader dei vampiri, Remmick, li guida in una danza ipnotica e festosa che invoca la solidarietà, l'uguaglianza, e la fine di ogni oppressione.

Ma è solo un incantesimo, un'illusione, perché dall'altra parte ci attende l'altra accezione del vampirismo, metafora dell'appropriazione (e del capitalismo), di chi succhia l'anima e la vita di altri per sopravvivere. Remmick e i suoi sodali non vogliono solo ascoltare la musica di Sammie; vogliono appropriarsene, farla loro, fagocitarla, in una perfetta rappresentazione di come la musica blues, nata da e con gli schiavi, sia stata assorbita, ingoiata, e reimpacchettata dall'industria, andando ad arricchire i soliti sospetti, e non la comunità da cui si era generata. Remmick è una sanguisuga che condanna all'eterna dannazione, alla stessa eterna insoddisfazione che lo divora. Il fatto che lui stesso sia stato oppresso non fa altro che confermare un vecchio adagio, ovvero che l'oppressione è come un virus, che viene trasmesso e perpetuato: chi è stato oppresso opprimerà qualcun altro, in un'eterna guerra tra poveri, un circolo vizioso che nessuno sembra riuscire a spezzare.


L'anima del film è la musica, un mix tra la colonna sonora originale composta da Ludwig Göransson e rielaborazioni di canzoni tradizionali, magistralmente interpretata dal cast, su tutti un Miles Canton all'esordio cinematografico, la cui voce obnubila i sensi per bellezza, calore e gioia dolente. Su tutte brilla la sua esecuzione di I lied to you, talmente convincente che sembra davvero spezzare le barriere di spazio e tempo, trasportando lo spettatore in un non luogo in cui ogni epoca è qui, ora, viva e danzante. 
Il corpo sono attori e attrici, che sembrano incanalare lo spirito divino come i musicisti e danzatori dell'antica Grecia, dando vita a personaggi di carne, sangue, desiderio. Detto di Canton, Michael B. Jordan fa ovviamente la parte del leone con un doppio ruolo in cui riesce a distinguere alla perfezione i due fratelli Stack e Smoke. Accanto a lui brillano soprattutto Hailee Steinfeld, una femme fatale decisamente sui generis, e Wunmi Mosaku, ex moglie di Smoke e maga Hoodoo, capace di declinare una strega, una madre, una combattente.

Coogler dirige il tutto con una fotografia avvolgente, con un ampio uso di piani sequenza sinuosi (qui una bella analisi di quello di I lied to you), che legano l'azione creando l'illusione di un sogno, soprattutto durante le scene di ballo e canto, e vengono spezzati dalle incursioni esterne, in un perfetto corrispettivo visivo dell'evoluzione narrativa del film. La gestione del ritmo è esemplare, con un crescendo che va a esplodere in un finale pulp che farebbe felice Tarantino, il più liberatorio dai tempi di Django Unchained

I peccatori è un film mercuriale, che cambia forma continuamente, unendo horror, musical, blackspoitation, dramma, commedia, e tanto altro. Parla di dannazione e redenzione, di musica che cura l'anima ma risveglia i sensi, di oppressione e ribellione. è un racconto epico, vibrante, potente, che brucia il cuore dello spettatore e lo trascina con sé in un viaggio pieno di meraviglia e orrore. 

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Pier

venerdì 18 aprile 2025

Love

Parlami d'amore

 

Che cos’è l’amore? Come indicato anche dal titolo è intorno a questa domanda che gira Love, mentre segue le vicende sentimentali di due impiegati dell’ospedali di Oslo – Marianne, un’urologa e Tor, un infermiere – che vivono con estrema naturalezza le proprie relazioni. Amore in tutte le sue forme, inclusa quella sessuale, con cui i due protagonisti hanno a che fare per lavoro: i loro pazienti sono spesso uomini che subiscono interventi per l’asportazione della prostata, con tutto quel che ne consegue.

Haugerud approccia la materia con un taglio lirico e molto umano, fatto di un’alternanza tra primi piani e paesaggi. I silenzi, frequenti, sono riempiti da dialoghi fiume e spesso filosofeggianti, il grande punto debole del film: se da un lato possono essere interessanti in piccole dosi, dall’altro la loro sovrabbondanza finisce per affogare i dialoghi più intimi, personali e significativi. Un pieno apprezzamento di queste discettazioni potrebbe essere possibile per chi avesse visto tutta la "trilogia delle relazioni", di cui Love è solo l'ultimo capitolo (i primi due, Sex e Dreams, sono stati presentati a Berlino, con il secondo che si è aggiudicato l'Orso d'oro nel 2025). Un film, tuttavia, dovrebbe reggersi sulle proprie gambe, e l'appartenenza a un mosaico più complesso non giustifica le mancanze narrative e di ritmo.

Il film soffre inoltre di uno sbilanciamento nell’interesse delle due vicende narrate. La storia di Marianne è già vista, non aggiunge di nuovo a quanto già detto sul tema della transitorietà dell’amore e della possibilità di amare più persone, peraltro anche da film presenti nel concorso veneziano in cui il film è stato originariamente presentato. (Trois Amies). Ancora più inutile la vicenda della terza amica, impegnata a pensare a un evento per celebrare il centenario della città – una vicenda che pare più uno spot della pro loco che parte integrante del film. Molto più interessante ed emozionante la storia di Tor, sia per la natura del personaggio – silenzioso, osservatore, con uno sguardo acuto e penetrante – sia per quella del paziente per il quale sviluppa un interesse sentimentale: un loro dialogo è il momento più bello, vivo e vibrante del film, e in generale loro sono ciò che spinge lo spettatore a continuare la visione. 

Love è un film di buona fattura che, nonostante qualche giro a vuoto, riesce a offrire alcuni momenti di riflessione e lirismo, grazie anche a un ottimo uso della luce, che dipinge momenti, persone, situazioni, stringendoli in un caldo abbraccio che li rende fortemente, irresistibilmente umani.

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Pier

Nota: parte di questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

lunedì 24 marzo 2025

La Città Proibita

L'urlo di Mainetti terrorizza anche l'occidente


Cina, anni Novanta. Mei è una secondogenita che non potrebbe esistere, vista la rigida politica del figlio unico in vigore nel paese. Vent'anni dopo, Mei si ritrova a Roma alla disperata ricerca della sorella Yun, sparita senza lasciare traccia. La sua caccia la porta a incrociare la sua strada con quella di Marcello, cuoco nel ristorante romano gestito da sua madre e di proprietà di suo padre, appena fuggito con un'altra donna.

Guardando La città proibita è impossibile non pensare al terzo (di quattro e mezzo) film con protagonista Bruce Lee, parafrasato nel titolo della recensione (The Way of the Dragon in inglese): Mainetti lo cita esplicitamente nell'ossatura: artista marziale cinese arriva a Roma e si scontra con la mafia locale a causa di un ristorante. L'omaggio (non l'unico ai kung fu movie presente nel film), tuttavia, rimane tale, e non si riduce a mera scopiazzatura. Mainetti dimostra infatti di aver bene imparato la lezione di Tarantino, e si muove alla perfezione tra citazionismo e originalità, confezionando un omaggio al cinema di genere che però ha una sua anima ben distinta, ottenuta grazie a un'ibridazione con la commedia drammatica italiana e la recente tendenza a esplorare la multietnicità delle città nostrane. 

Il risultato è un film sfaccettato e con molteplici livelli di lettura: La città proibita è un film di arti marziali, certo, ma è anche un film sul multiculturalismo, sul cambiamento - sia personale che sociale - e sulle difficoltà che questo cambiamento comporta; è un film sugli affetti familiari, vero cuore pulsante della trama, e su come possano essere al tempo stesso fondamentali per definire chi siamo e un legaccio che impedisce di crescere; è, infine, una storia d'amore sui generis, fatta dall'incontro di due solitudini che faticano a comunicare a parole e sanno esprimersi molto meglio con altri linguaggi (il combattimento per Mei, la cucina per Marcello).

La sfaccettatura del film non arriva, però, a discapito della coesione: Mainetti miscela gli ingredienti alla perfezione, realizzando una ricetta originale ma al tempo stesso familiare, un piatto esotico che però ricorda la cucina della nonna. Le scene di azione (girate splendidamente, si vede la mano di uno stunt coordinator esperto come Trayan Milenov-Troy) sono perfettamente integrate con quelle comiche e quelle da "dramma da tinello", peraltro rese molto meglio che nel 99% della produzione nostrana che ad esse dedica l'interezza della trama. L'integrazione delle diverse anime del film è un'impresa non da poco, con cui Mainetti dimostra di essere cresciuto come regista (pur mantenendo un curioso penchant per i malavitosi/villain che amano il canto): La città proibita è un film registicamente migliore e più ambizioso di Lo chiamavano Jeeg Robot, anche se forse gli mancano i picchi di genialità di quel film; e meno ambizioso ma più coeso di Freaks Out (che a parere di chi scrive rimane uno dei film migliori e più ingiustamente bistrattati dalla critica italiana degli ultimi anni).

Yaxi Liu, stunt-woman alla prima prova da attrice, porta non solo grande sapienza tecnica, ma anche un'inaspettata forza emotiva che dona energia e vitalità al film, e conferma la capacità di Mainetti di scovare semi-esordienti di talento dopo l'ottimo esordio di Aurora Giovinazzo in Freaks Out. Enrico Borello è la forza gentile del film, a volte forse troppo, ma la sua normalità serve a far risaltare un contorno del tutto delirante, da un boss cinese orgogliosissimo del figlio rapper che però non vuole avere a che fare con lui al piccolo faccendiere criminale/amico di famiglia interpretato da Marco Giallini, palesemente a suo agio nel ruolo del criminale un po' cialtrone incapace di accettare il cambiamento. Nessuna prova resterà memorabile come quelle di Luca Marinelli e di Franz Rogowski, ma tutti sono perfettamente funzionali alla riuscita del film. 

La città proibita è un film molto riuscito, che riesce anche a superare l'orrida etichetta di "kung fu all'amatriciana" e addirittura ad abbracciarla con orgoglio, omaggiando esplicitamente le sue radici ma distaccandosene per trovare la sua strada, esattamente come i suoi protagonisti. Un film in cui Mainetti si libera definitivamente dall'odiosa frase "per essere italiano", realizzando un kung fu movie che funziona, diverte, e ha respiro internazionale. Avercene.

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Pier