lunedì 24 marzo 2025

La Città Proibita

L'urlo di Mainetti terrorizza anche l'occidente


Cina, anni Novanta. Mei è una secondogenita che non potrebbe esistere, vista la rigida politica del figlio unico in vigore nel paese. Vent'anni dopo, Mei si ritrova a Roma alla disperata ricerca della sorella Yun, sparita senza lasciare traccia. La sua caccia la porta a incrociare la sua strada con quella di Marcello, cuoco nel ristorante romano gestito da sua madre e di proprietà di suo padre, appena fuggito con un'altra donna.

Guardando La città proibita è impossibile non pensare al terzo (di quattro e mezzo) film con protagonista Bruce Lee, parafrasato nel titolo della recensione (The Way of the Dragon in inglese): Mainetti lo cita esplicitamente nell'ossatura: artista marziale cinese arriva a Roma e si scontra con la mafia locale a causa di un ristorante. L'omaggio (non l'unico ai kung fu movie presente nel film), tuttavia, rimane tale, e non si riduce a mera scopiazzatura. Mainetti dimostra infatti di aver bene imparato la lezione di Tarantino, e si muove alla perfezione tra citazionismo e originalità, confezionando un omaggio al cinema di genere che però ha una sua anima ben distinta, ottenuta grazie a un'ibridazione con la commedia drammatica italiana e la recente tendenza a esplorare la multietnicità delle città nostrane. 

Il risultato è un film sfaccettato e con molteplici livelli di lettura: La città proibita è un film di arti marziali, certo, ma è anche un film sul multiculturalismo, sul cambiamento - sia personale che sociale - e sulle difficoltà che questo cambiamento comporta; è un film sugli affetti familiari, vero cuore pulsante della trama, e su come possano essere al tempo stesso fondamentali per definire chi siamo e un legaccio che impedisce di crescere; è, infine, una storia d'amore sui generis, fatta dall'incontro di due solitudini che faticano a comunicare a parole e sanno esprimersi molto meglio con altri linguaggi (il combattimento per Mei, la cucina per Marcello).

La sfaccettatura del film non arriva, però, a discapito della coesione: Mainetti miscela gli ingredienti alla perfezione, realizzando una ricetta originale ma al tempo stesso familiare, un piatto esotico che però ricorda la cucina della nonna. Le scene di azione (girate splendidamente, si vede la mano di uno stunt coordinator esperto come Trayan Milenov-Troy) sono perfettamente integrate con quelle comiche e quelle da "dramma da tinello", peraltro rese molto meglio che nel 99% della produzione nostrana che ad esse dedica l'interezza della trama. L'integrazione delle diverse anime del film è un'impresa non da poco, con cui Mainetti dimostra di essere cresciuto come regista (pur mantenendo un curioso penchant per i malavitosi/villain che amano il canto): La città proibita è un film registicamente migliore e più ambizioso di Lo chiamavano Jeeg Robot, anche se forse gli mancano i picchi di genialità di quel film; e meno ambizioso ma più coeso di Freaks Out (che a parere di chi scrive rimane uno dei film migliori e più ingiustamente bistrattati dalla critica italiana degli ultimi anni).

Yaxi Liu, stunt-woman alla prima prova da attrice, porta non solo grande sapienza tecnica, ma anche un'inaspettata forza emotiva che dona energia e vitalità al film, e conferma la capacità di Mainetti di scovare semi-esordienti di talento dopo l'ottimo esordio di Aurora Giovinazzo in Freaks Out. Enrico Borello è la forza gentile del film, a volte forse troppo, ma la sua normalità serve a far risaltare un contorno del tutto delirante, da un boss cinese orgogliosissimo del figlio rapper che però non vuole avere a che fare con lui al piccolo faccendiere criminale/amico di famiglia interpretato da Marco Giallini, palesemente a suo agio nel ruolo del criminale un po' cialtrone incapace di accettare il cambiamento. Nessuna prova resterà memorabile come quelle di Luca Marinelli e di Franz Rogowski, ma tutti sono perfettamente funzionali alla riuscita del film. 

La città proibita è un film molto riuscito, che riesce anche a superare l'orrida etichetta di "kung fu all'amatriciana" e addirittura ad abbracciarla con orgoglio, omaggiando esplicitamente le sue radici ma distaccandosene per trovare la sua strada, esattamente come i suoi protagonisti. Un film in cui Mainetti si libera definitivamente dall'odiosa frase "per essere italiano", realizzando un kung fu movie che funziona, diverte, e ha respiro internazionale. Avercene.

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Pier

lunedì 17 marzo 2025

Captain America: Brave New World

Quando il trailer fa danni


Capitan America è morto, viva Capitan America. Dopo gli eventi narrati nella serie Falcon & The Winter Soldier, Sam Wilson (l'ex Falcon) è diventato Capitan America al posto del Steve Rodgers di Chris Evans. Tuttavia, al cambio di Capitano non corrisponde un cambio di genere: Brave New World è uno spy-thriller come i suoi predecessori (recensioni qui e qui) anche se l'etnia del suo protagonista aggiunge un ulteriore livello di lettura. 

La sfiducia degli afroamericani nei confronti dello Stato, dopo decenni di abusi (ben incarnati dal Capitan America "tradito" Isaiah Bradley) diventa infatti parte integrante della trama, che per il resto si dipana su note conosciute ma ben orchestrate: un complotto contro il Presidente, che ha una storia "tesa" con Capitan America; un intrigo internazionale intorno a una risorsa preziosissima (l'adamantio, che fa il suo ingresso ufficiale nel MCU); e un villain che fa della pianificazione, e non della forza, la sua principale virtù.

Il risultato è un film adrenalinico e ben orchestrato, meno efficace di Winter Soldier (che rimane però uno dei vertici della producione Marvel) ma più riuscito di Civil War, grazie anche a una cucitura con il resto dell'MCU ben fatta e quasi "invisibile" nonostante vada a ripescare due film che per epoca e successo di pubblico (il film su Hulk con Edward Norton e Gli Eterni) non erano facilissimi da reintegrare. Anthony Mackie non è Chris Evans, ma la sceneggiatura sopperisce al suo minor carisma affiancandogli un Harrison Ford che si mangia lo schermo e un villain affascinante e ben utilizzato. 

La capacità del film di intrattenere e generare suspence e stupore viene però azzoppata da un nemico interno: il trailer. Se non lo avete visto, non fatelo: vi godrete un colpo di scena ben scritto e sceneggiato, e verrete colti di sorpresa, come dovrebbe essere. Il trailer, tuttavia, è stato visto da milioni di persone - milioni di potenziali spettatori cui è stato rivelato un elemento di trama che avrebbe potuto elevare il film ai livelli di Winter Soldier, e invece lo condanna a esserne una copia efficace ma sbiadita. Possiamo solo ipotizzare le ragioni dietro a queste decisioni: il film era stato preso di mira dalla parte più tossica del fandom a causa del cambio di etnia di Cap; la Marvel temeva andasse male, e ha deciso di giocarsi la sua carta migliore nel trailer per attirare pubblico. Scelta commercialmente miope, perché sicuramente ha aumentato l'hype intorno al film, ma ha ridotto il potenziale da passaparola che poteva derivare dallo scoprire il colpo di scena in sala.

Captain America: Brave New World è una bella spy story, che ritorna alle radici del personaggio in modo efficace ma rimane vittima di un autosabotaggio, in un twist meta-narrativo che sarebbe quasi da studiare nella sua incredibile stolidezza. Quel che resta è un film che intrattiene, soprattutto nelle scene d'azione, e riesce ad avere qualche risvolto politico-sociale interessante, ma con un decimo della potenza che avrebbe potuto avere se gli studios si fossero fidati del suo potenziale.

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Pier

domenica 2 marzo 2025

Oscar 2025 - I pronostici

Questa notte, come ogni anno, gli occhi del mondo cinematografico si sposteranno sul Dolby Theatre di Los Angeles per la cerimonia di premiazione della novantatreesima edizione degli Academy Awards. 

Il 2024 è stato un altro ottimo anno cinematografico, nonostante l'assenza di "grandi nomi" registici (guardando ai nominati al miglior film, l'unico nome "forte" è quello di Denis Villeneuve). I favoriti sono usciti quasi in toto dai due festival maggiori, Cannes e Venezia, ma hanno anche, per la maggior parte, goduto dei favori del pubblico, portando a casa risultati sostanziosi al box office.

Chi vincerà, quindi? Difficile a dirsi. Salvo qualche premio, la sfida è quantomai incerta, anche a causa del ciclone mediatico che ha investito Emilia Pérezche per lungo tempo è sembrato il favorito, come riflesso anche dalle 13 nominations ottenute: uscito illeso dalle polemiche di messicani e comunità trans (bellamente ignorate dall'Academy in sede di nomination), è stato forse definitivamente affondato dalle dichiarazioni riemerse dal recente passato della sua protagonista Karla Sofia Gascòn, che a quanto pare riteneva giusto e comprensibile l'omicidio di un uomo inerme.

Ma non divaghiamo! Nonostante l'incertezza, di seguito trovate i pronostici, infallibili come sempre: correte in SNAI, e puntate sull'opposto di quanto scrivo. I film recensiti sul blog sono linkati ogni volta che vengono nominati.


Miglior montaggio
Un anno senza film "di montaggio", ovvero film ipercinetici o con montaggio molto visibile e "premiabile" (come ad esempio Mad Max: Fury Road). Possibile quindi che il premio vada a Sean Baker per Anora, più per inerzia che per reali meriti. La mia scelta ricade invece su Juliette Welfling per Emilia Pérez, film che ha mostrato dei virtuosismi di montaggio più interessanti di altri. Appena dietro, Dávid Jancsó per The Brutalist: un montaggio meno appariscente, ma comunque molto efficace e funzionale alla narrazione. 
Pronostico: Sean Baker, Anora

Scelta personale: Juliette Welfling, Emilia Pérez

Miglior fotografia
Un solo nome possibile: Lol Crawley per The Brutalist. Anche Jarin Blaschke meriterebbe per Nosferatu, ma il lavoro di Crawley (con un budget "basso" per la portata monumentale dell'opera) è indimenticabile, e arriva all'interno di un film generalmente più apprezzato dall'Academy. Menzione d'onore per Greig Fraser, sfortunatissimo direttore della fotografia di Dune - Parte 2. In un anno normale, la scena in bianco e nero basterebbe da sola per ritirare la statuetta senza passare dal via: ma questo non è un anno normale. Si rifarà.
Pronostico: Lol Crawley, The Brutalist
Scelta personale: Lol Crawley, The Brutalist

Miglior film d'animazione
Sezione iper competitiva. Flow - Un mondo da salvare, che purtroppo non ho ancora visto, sembra il favorito all'interno di una competizione che negli ultimi anni ha dimostrato di guardare con attenzione a ciò che succede fuori dagli Stati Uniti. La mia scelta personale ricade però su Inside Out 2, il raro sequel in grado di replicare ed espandere il successo artistico dell'originale.
Pronostico: Flow
Scelta personale: Inside Out 2

Miglior attore non protagonista
Una delle sezioni dall'esito più scontato, e non perché non ci siano ottimi candidati: ma Kieran Culkin ha vinto ogni premio possibile, e la sua performance in A Real Pain è caleidoscopica, divertente e straziante allo stesso tempo. Impossibile non premiarlo e impossibile non farsene conquistare.
Pronostico: Kieran Culkin, A Real Pain
Scelta personale:  Kieran Culkin, A Real Pain


Miglior attrice non protagonista
Anche qui sembra non esserci storia, con Zoe Saldana uscita indenne dalle polemiche intorno a Emilia Pérez e pronta a portarsi a casa una meritata statuetta. Per quanto sia un grande fan della sua performance (a mio parere è lei la vera protagonista del film), voglio usare la mia scelta personale per mettere in luce una performance sorprendente e passata molto in sordina, quella di Ariana Grande in Wicked: Parte 1.
Pronostico: Zoe Saldana, Emilia Pérez
Scelta personale: Ariana Grande, Wicked: Parte 1

Miglior sceneggiatura originale
Qui il chiarissimo favorito è Sean Baker per Anora, che però non posso in cuor mio premiare data la presenza di un grosso buco di sceneggiatura e una distonia non pienamente risolta tra le diverse anime del film. La mia scelta personale ricade quindi su Jesse Eisenberg per A Real Pain, bella riflessione sul dolore individuale e collettivo. Menzione speciale per Brady Corbet e Mona Fastvold per The Brutalistun film di cui non rimane impressa la sceneggiatura, ma che riesce a mantenere alte emozioni e attenzione per più di tre ore: non banale.
Pronostico: Sean Baker, Anora
Scelta personale: Jesse Eisenberg, A Real Pain

Miglior sceneggiatura non originale
Sezione molto competitiva, in cui è davvero difficile trovare un chiaro favorito. Avendo vinto i WGA (Writers Guild Awards), il pronostico ricade su RaMell Ross e Joslyn Barnes per I Ragazzi della Nickel, tratto dall'omonimo romanzo premio Pulitzer di Colson Whitehead. La mia scelta personale ricade invece su James Mangold e Jay Cocks per A Complete Unknown, un film classico e mercuriale allo stesso tempo, che continua a scartare di lato come il suo protagonista.
Pronostico: RaMell Ross e Joslyn Barnes, I Ragazzi della Nickel
Scelta personale: James Mangold e Jay Cocks, A Complete Unknown


Miglior attrice protagonista
Qui la favorita sembra essere Demi Moore per The Substance, la classica storia di rinascita di una carriera che a Hollywood piace premiare. La mia scelta personale ricade invece su Fernanda Torres, anima silenziosa ma estremamente eloquente di Io Sono Ancora Qui, forse la più bella sorpresa (non in termini di valore, ma in termini di riconoscimento crescente) di questa stagione dei premi.
Pronostico: Demi Moore, The Substance
Scelta personale: Fernanda Torres, Io Sono Ancora Qui

Miglior attore protagonista
Adrien Brody sembrava il favorito grazie alla sua performance eccezionale in The Brutalist. Sembrava, appunto, perché dal nulla ai SAG (Screen Actors Guild) Awards è comparso Timothée Chalamet che con il suo Bob Dylan di A Complete Unknown ha vinto il premio conferito dai suoi colleghi e ha rimesso tutto in discussione. Penso vincerà Brody, dato che l'Academy raramente premia i giovani. E su Brody ricade anche la mia scelta personale, anche se anche Chalamet meriterebbe la vittoria.
Pronostico: Adrien Brody, The Brutalist
Scelta personale: Adrien Brody, The Brutalist

Miglior regia
Se esistesse giustizia a questo mondo, questo premio sarebbe già assegnato a Brady Corbet fin dal debutto di The Brutalist alla Mostra del Cinema di Venezia. Ma dato che viviamo in un mondo ingiusto, fatto di colleghi invidiosi, questo premio finirà a Sean Baker per l'ottimo ma non memorabile lavoro fatto su Anora.
Pronostico: Sean Baker, Anora
Scelta personale: Brady Corbet, The Brutalist

"Raccontare un intero film con una sola immagine nei primi minuti": olio su tela, Brady Corbet

Miglior film
Qui i pronostici impazzano, e nessuno sa veramente come finirà. Si parla di Anora, ovviamente, ma anche di ConclaveA Complete Unknown e persino Io Sono Ancora Qui. L'incertezza, insomma, regna sovrana, e il sistema di voto dell'Academy per il miglior film (diverso da quello degli altri premi) tende a premiare il film meno polarizzante, quello che non ha necessariamente entusiasmato tutti ma ha scontentato meno persone possibili. Per questo credo che il thriller manicheo ma molto efficace di Conclave possa alla fine prevalere. La mia scelta personale ricade invece su The Brutalist, il miglior film della stagione cinematografica che si conclude questa notte.
Pronostico: Conclave
Scelta personale: The Brutalist

Che aspettate? Correte in sala scommesse!

Pier

A Real Pain

Raccontare il dolore


Ci sono storie apparentemente semplici da raccontare ma che in realtà nascondono complessità infinite, non detti che si sono accumulati per anni, decenni fino a stratificarsi: due cugini molto legati si perdono di vista, e diventano persone molto diverse. Sembra semplice, vero? Questa è la storia al cuore di A Real Pain, ma dentro di essa si nascondo moltitudini, come scriveva Walt Whitman e cantava Bob Dylan. 

C'è il senso di inadeguatezza di entrambi, che però uno nasconde dentro di sé e l'altro esprime in ogni modo possibile, incapace di nasconderlo e anzi, desideroso di condividerlo, perché ritiene disumano nascondere il dolore che pervade il mondo. C'è un passato condiviso fatto di resilienza e sofferenza, quello della diaspora ebraica che i due protagonisti rivivono in un viaggio organizzato nei luoghi della memoria in Polonia, tra momenti divertenti e altri toccanti, compresa una visita al campo di concentramento in cui Eisenberg, alla sua opera seconda da regista, dimostra una sensibilità da autore consumato, riuscendo a filmare l'infilmabile, a raccontare il dolore senza farne spettacolo.

C'è, soprattutto, l'incomunicabilità del dolore, la gabbia di silenzio dentro cui ci rinchiudiamo pensando che il dolore sia e debba essere una cosa privata, da tenere dentro, quasi vergognandocene, quando in realtà è un'esperienza condivisa, universale, che tocca le vite di tutte, ed è proprio parlandone che possiamo esorcizzarlo e cominciare a guarire. In una società in cui condividere il dolore è taboo il personaggio di Benji, perennemente in contatto con le sue emozioni e senza paura di condividerle, è dirompente, nel senso letterale del termine: costringe tutti i partecipanti al viaggio a rompere i propri argini e a condividere, lasciarsi andare, mostrare le proprie vulnerabilità e accettarle.

Eisenberg, tuttavia, rifugge dalle semplificazioni, dimostrando anche qui una maturità insospettabile nel trattare materie complesse. Il finale non è risolutorio, i rapporti umani possono essere costruiti e ricuciti, ma servono tempo e sforzi per riempire un vuoto che continua a scavare e che non accenna a fermarsi. Se è solo nella condivisione che possiamo trovare salvezza, è anche vero che quella stessa condivisione può essere difficile, faticosa, e che è più comodo tornare alle nostre routine, al nostro isolamento emotivo.

La regia di Eisenberg è delicata, attenta ai personaggi e alle loro emozioni, ma si concede anche alcuni momenti di grande forza espressiva a livello visivo (il già citato momento nel campo di concentramento, ma anche le scene di Benji in aeroporto), elevando la sua regia al di sopra di una confezione pulita di una bella storia. Ottima e molto "woodyalleniana" la scelta della colonna sonora, costituita quasi esclusivamente da sonate di Chopin, perfetto contrappunto musicale alla malinconia che pervade il film.

La forza del film risiede però soprattutto nella sceneggiatura, mai banale anche nella scelta dei personaggi che partecipano al tour, e negli attori. Eisenberg stesso offre una bellissima prova: il suo David è un personaggio solo in apparenza "sistemato", ma in realtà estremamente fragile e isolato, nonostante una vita personale e affettiva soddisfacente. A brillare, tuttavia, è Kieran Culkin, un uragano che travolge tutto quello che trova davanti a sé. Il suo Benji fa ridere, piangere, irritare, compatire, e crea una connessione emotiva con lo spettatore che raramente si riesce a trovare al cinema. 

A Real Pain non è un film rivoluzionario ma è un film importante, una dramedy da manuale che è anche molto efficace nel parlare di tematiche sociali attuali e importanti come il crescente analfabetismo emotivo e l'importanza della memoria. Eisenberg riesce a coinvolgere lo spettatore attraverso una storia piccola ma potente che parla anche della Storia, e di come il dolore - individuale e collettivo - non vada soppresso o evitato, ma condiviso, sempre: perché dimenticare è facile, ma dietro la mancanza di memoria si nascondono mostri. 

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Pier

sabato 1 marzo 2025

Conclave

Non c'è nulla di sacro


Il papa è morto, e i cardinali si riuniscono a Roma per eleggere il suo successore. A guidare il conclave il Decano britannico Thomas Lawrence.

Che il conclave - la riunione in cui i cardinali scelgono il nuovo papa - non fosse esattamente la sala dell'amore fraterno è cosa nota a chiunque segua gli affari vaticani. Che fosse materiale per un thriller, però, richiedeva una visione creativa e una grande abilità di gestire la tensione all'interno di quella che, di fatto, è la classica "camera chiusa" dei gialli (conclave deriva da "cum clave", che significa proprio "chiuso a chiave"). 

Robert Harris prima, con il suo romanzo, ed Edward Berger poi, con il suo adattamento, dimostrano che gli intrighi vaticani per l'elezione sono materiale degno di una spy story o di un thriller politico, con tanto di segreti rivelati, spie, informatori, e colpi di scena. La tensione è palpabile fin dal primo minuto, e non ci abbandona fino ai titoli di coda, riflessa negli occhi di Ralph Fiennes (strepitoso) che sa che tutto può andare a rotoli in qualunque momento. 

Se il pericolo più immediato e concreto è l'elezione di Tedesco, cardinale oscurantista interpretato da un Sergio Castellitto adorabilmente gigione, quello più spaventoso è la fine della fede, in Dio e negli uomini. Negli occhi di Fiennes c'è l'esitazione a farsi carico di un fardello spaventoso (tema già trattato con veggenza da Habemus Papam), ma anche una sfiducia generale su un'istituzione e sugli uomini che ne fanno parte: uomini spesso meschini, che mettono il desiderio di potere davanti al bene comune. 

La tensione non è data solo dai continui colpi di scena, ma dal progressivo disvelamento di una speranza di redenzione, sia individuale che collettiva: una speranza forse imperfetta, come l'umanità stessa, ma quantomeno capace di guardare fuori dalle stanze del potere, a un mondo flagellato da povertà e sofferenza, e in cerca di qualcosa in cui credere.

Berger realizza un film perfetto a livello di confezione - sia narrativa che visiva, alcune inquadrature sono dei quadri per perfezione della composizione. Paradossalmente, proprio in questa ricerca della perfezione formale sta anche il suo unico peccato mortale. Conclave è a volte troppo inquadrato, preso dalla sua struttura più che dalle sue vicende. Manca, in sintesi, di cuore e di coraggio nell'affrontare l'ambiguità: se al primo sopperisce un cast eccellente, che riesce a rendere tridimensionali dei personaggi altrimenti fin troppo "definiti", il secondo è il vero punto dolente. 

La narrazione restituisce una visione manichea che a tratti "imbocca" un po' troppo gli spettatori, dicendo loro cosa devono pensare, chi sono i buoni e chi sono i cattivi. Ma è proprio nei rari istanti in cui abbraccia l'ambiguità che Conclave si eleva e offre i suoi spunti migliori, facendo rimpiangere ancora di più la decisione di rifuggirla per la quasi totale durata di un film che risulta comunque efficace e capace di intrattenere.

*** 1/2

Pier

sabato 8 febbraio 2025

Diva Futura (In pillole #33)

Una risata li seppellirà


Qual è l'arma migliore contro un potere grigio, ingessato, e ipocrita? Tutto ciò che lui teme: il colorato, il ridicolo, l'esagerato: in una parola, l'eccesso. La vicenda di Diva Futura, l'agenzia di casting e produzione specializzata in pornografia che lanciò, tra le altre, Cicciolina, Moana Pozzi, ed Eva Henger, è esemplare in questo senso, e Giulia Steigerwalt, alla sua opera seconda, la racconta senza moralismi, con un tono da commedia che sa farsi dramma ma anche satira sociale, mettendo alla berlina un paese che, ieri come oggi, predica bene in pubblico ma razzola malissimo in privato.

Al centro di tutto c'è Riccardo Schicchi. Giulia Steigerwalt lo dipinge come un folletto pieno di idee ed energia, ispirato da una visione pura e libera del corpo femminile che lo spinge ad andare contro il bigottismo e il finto perbenismo dell'epoca per dare al pubblico ciò che voleva e celebrare amore, libertà, ed emancipazione. 

Schicchi è interpretato magistralmente da Pietro Castellitto, forse alla sua prova migliore in carriera, in grado di alternare alla perfezione una comicità irresistible a una dolenza da Buster Keaton, una tristezza di fondo, una paura della solitudine che accompagna Schicchi come un invisibile compagno di viaggio. Accanto a lui brilla tutto il cast femminile, in particolare Barbara Ronchi che interpreta Debora Attanasio, coscienza e colonna portante dell'agenzia nonché autrice del libro di memorie da cui il film è tratto.

Con Diva Futura Steigerwalt firma un'opera briosa, vitale, un inno alla libertà femminile ben girato sia a livello di immagini che di ritmo e direzione degli attori, con un bellissimo finale che rimane in testa a lungo. Una ventata di aria fresca nel panorama stantio del cinema italiano, soprattutto quello festivaliero (il film è stato presentato a Venezia, dove ovviamente è stato snobbato dai critici paludati e paludosi, paladini del Cinema Impegnato che impegna solo la pazienza dello spettatore).

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Pier

mercoledì 5 febbraio 2025

The Brutalist

Il tormento e l'estasi


USA, anni Quaranta: László Tóth, architetto ebreo ungherese della scuola Bauhaus, sbarca a New York in cerca di una nuova vita, in fuga dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Sua moglie Erzsébet, tuttavia, non ha potuto seguirlo. László è costretto dapprima a lavorare come arredatore d’interni, fino a quando non viene notato da un magnate, Harrison Lee Van Buren, che gli commissiona un edificio in memoria della defunta di sua madre.

Partiamo dalla fine: The Brutalist è un film per cui non è fuori luogo l’abusata parola “capolavoro”. Corbet ha realizzato un’opera destinata a fare la storia della settima arte, un film creativo, emotivo, cerebrale, che toglie il fiato per ambizione, portata, complessità a qualunque livello – narrativo, visivo, musicale, sonoro. È uno di quei rari film che, attraverso il racconto di una micro-storia (quella di László, ma anche di Erzsébet e Van Buren), racconta la Storia: quella di un’epoca, ma anche della condizione umana. Corbet si muove a suo agio in un territorio finora battuto solo da mostri sacri come Welles (Quarto Potere), Leone (C’era una Volta in America), Anderson (Il Petroliere), Nolan (Oppenheimer), realizzando un’opera sinfonica, in cui diversi temi emergono durante il film, si intrecciano, si inseguono, scompaiono, ritornano.

Il tema centrale - ricorrente nella ristretta ma ricchissima cinematografia di Brady Corbet - è quello del trauma, e delle sue conseguenze a lungo termine. Nella sua splendida opera prima, Childhood of a leader, vedevamo il processo di creazione del trauma, per poi scoprirne, in pochi, folgoranti secondi finali, le terribili conseguenze per il protagonista e per il mondo; in Vox Lux, come in The Brutalist, il trauma è invece un fatto compiuto, di cui vediamo le conseguenze e scopriamo, a poco a poco, la profondità. Il trauma individuale qui si fa anche trauma collettivo, raccontando l’Olocausto da un’angolazione nuova: non la sua manifestazione, ma le sue conseguenze, le terribili, indelebili ferite che ha lasciato nel corpo e nella psiche delle sue vittime.

Corbet però non si limita a questa tematica. Il suo film parla anche di ambizione creativa – un’ambizione divorante, totalizzante, che porta all’annullamento del sé; di memoria, intesa sia come ricordo del passato, sia come desiderio di lasciare una traccia indelebile nel futuro; del Sogno Americano, e del suo lato oscuro, l'anima nera del capitalismo, che foraggia l'arte ma poi deve possederla, farla sua, annullando e sottomettendo l'artista e rendendo tutto commercio, transazione, in un processo di cannibalismo che si autoalimenta e tutto divora.


Il film parla, infine, d’amore, invidia, avidità, lussuria – tutte le emozioni umane, messe a nudo con un realismo che colpisce, stordisce, travolge. Come le opere di László, anche The Brutalist ha una confezione cerebrale, razionale che nasconde un cuore emotivo potente, che pulsa invisibile ma sempre presente per tutti i trent’anni della vita di László che vediamo sullo schermo. Al suo interno si alternano orrore e poesia, risate e lacrime, tormento ed estasi, i punti più alti dell’uomo e quelli più bassi, vili e meschini.

La fotografia di Lol Crawley, che aveva già lavorato con Corbet nei suoi primi due film, è perfetta nel tradurre in immagini le due anime del film, e regala immagini stordenti e commoventi, riuscendo a essere virtuosa senza risultare mai invasiva. Difficile indicare una sequenza particolarmente memorabile, dato che tutte o quasi evocano il sublime kantiano nell’animo dello spettatore, ma la parte del film che si svolge a Carrara e le sequenze che si tuffano nelle viscere nell’erigenda opera di László sono forse quelle di maggiore impatto.

La riuscita del film è anche merito del cast, capitanato da un Adrien Brody eccezionale, che dona al suo László un’ironia tagliente e smargiassa ma anche una grande fragilità: in alcuni momenti László sembra solido come i suoi edifici di cemento armato, in altri sembra che un soffio di vento potrebbe distruggerlo per sempre. Accanto a lui brillano anche Felicity Jones, che arriva tardi nel film ma offre due dei momenti di più alto impatto emotivo, e Guy Pearce: il suo Van Buren è il perfetto contraltare di László, e il loro complesso rapporto è il centro emotivo e narrativo del film.

Corbet amalgama tutti questi ingredienti con mano saldissima, realizzando un film perfetto, che dura tre ore e mezza (con intervallo “incluso”) ma sembra durarne due per quanto è compatto, teso, senza un momento, una battuta, un’inquadratura di troppo nonostante la sua ricchezza tematica e visiva. Un capolavoro, appunto, che attraverso il particolare ci parla dell’universale, ricordandoci che dall’orrore può anche nascere bellezza, e che la bellezza può nascondere l’orrore.


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Pier

Nota: parte di questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

A Complete Unknown

It Ain't Me, Babe


Cosa significa essere un artista? Questa la domanda al centro di A complete unknown, seconda opera di James Mangold dedicata a un grande cantante del passato, dopo il suo splendido racconto su Johnny Cash. Ma se Quando l'amore brucia l'anima era la classica storia di ascesa-caduta-rinascita, quella di Bob Dylan è una vicenda più complessa e sfuggente: una vicenda che inizia e finisce in medias res, uno sguardo a un periodo della vita di Dylan che al suo interno contiene moltitudini. 

Che Dylan fosse un artista poliedrico e di fatto inafferrabile e incasellabile in una sola identità lo aveva già capito Todd Haynes in quel capolavoro che è Io non sono qui, dove Dylan era stato letteralmente moltiplicato in sei personaggi. Mangold sceglie una strada diversa, creando un film sullo sguardo e fatto di sguardi. Sono sempre gli altri, spettatori compresi, a definire cosa sia Dylan: giovane talento, impostore, poeta di una generazione, opportunista, paladino della musica folk, traditore della musica folk, tutto e niente. Il Dylan di Mangold è un vero "complete unknown", come la strofa di Like a rolling stone perfettamente sfruttata dal titolo: un essere in continuo divenire, multiforme e mutaforma, acqua che prende la forma del recipiente in cui viene versata. Ma l'acqua, si sa, da calma e placida sa farsi tempesta, inondazione, e travolgere senza pietà tutto ciò che trova sul suo cammino.

Dylan nel film ascolta, osserva, sorride sornione, ma parla pochissimo. Quando le fa, le sue parole sono spesso enigmatiche, quelle di una sfinge con chitarra che si muove nel mondo con il solo obiettivo di non fermarsi mai. A parlare è la sua musica, che domina la scena, la riempie, e sconvolge generazioni, generi, persone, in un fiume tracimante di emozioni incontrollabili, della sensazione che quelle parole parlino proprio a te, solo a te, in quel momento, e a nessun altro. Esemplari, in questo senso, sono le scene in cui Dylan canta The times they are-a changing (emozionate a dire poco) e It ain't me babe: ogni personaggio in ascolto sente e vive quelle canzoni in modo diverso, dando loro mille significati diversi, tutti giusti, tutti in parte sbagliati. 

Mangold riesce a catturare perfettamente l'essenza delle composizioni di Dylan: generazionali, eppure private, perfettamente in linea con lo zeitgeist, eppure in grado di anticiparlo, di cambiarlo, di indicare una nuova strade che non sapevi nemmeno esistesse, cancellando e lanciando indietro tutte le strade precedenti. Meravigliose anche le sequenze in cui si cattura la natura mercuriale della creatività, sia in generale (l'attacco di organo di Al Kooper in Like a rolling stone, improvvisato e fondamentale) sia di Dylan in particolare (il ritrovamento del fischietto siren whistle che si sente all'inizio di Highway 61 revisited): in continua evoluzione, in continuo mutamento, con l'unica regola di non ripetersi, mai. 

Dylan nel film incarna il cambiamento al punto da divenirne quasi una divinità in terra: creatore e distruttore, capace di oscurare il talento e rubare la scena a mostri sacri come Pete Seeger e Joan Baez, che lo usano senza rendersi conto che si stanno anche facendo usare. Un dio che tutto divora, ma che apre nuovi mondi, incarnato alla perfezione da un Timothée Chalamet che ha un vero e proprio talento per interpretare personaggi sfuggenti e inafferrabili, che sembrano a tratti onnipotenti, e a tratti tremendamente fragili, sul punto di rompersi inesorabilmente. Sarebbe tempo che si riconoscesse la sua versatilità, anziché fermarsi all'apparente similitudine di alcuni suoi personaggi che è, appunto, data solo dal loro essere indecifrabili, in continuo cambiamento: sfido qualunque detrattore a dire che Paul Atreides ricorda Bob Dylan o Willy Wonka. La sua capacità di imitare le voci di Dylan (a volte nasale, a volte raschiante; a volte melodica, a volte simile a un miagolio; a volte ben scandita, a volte quasi incomprensibile) è impressionante, e chiudendo gli occhi si ha spesso la sensazione di ascoltare l'originale.

Accanto a lui, Edward Norton offre una bellissima prova nel ruolo del (per una volta) "buono" Pete Seeger, e Monica Barbaro dà ottima voce al talento introverso di Joan Baez. Elle Fanning è il cuore emotivo del film, ed è con le sue reazioni e i suoi occhi che il pubblico finisce spesso per vedere Dylan: occhi che accettano che l'unico suo fattore distintivo è il non-essere, non-stare. "It ain't me, babe": non sono io, e questo è tutto ciò che saprai di me.

A complete unknown è un film sul cambiamento, sull'arte, sul trovare il proprio posto del mondo, sul dolore di crescere sulla doppia natura delle relazioni, legami che ci tengono a galla ma a volte impediscono di nuotare al largo. Mangold confeziona un film avvolgente, in cui la musica e le parole sono protagoniste e che, come una melodia, cambia continuamente direzione: culla, tramortisce, esalta, stordisce, è univerale e intimo, parla della vita e della Vita, ponendo tantissime domande senza dare risposte, e lasciandoci con la sensazione di conoscere davvero l'unico cantautore vincitore di un premio Nobel, e al tempo stesso di non conoscerlo affatto. 

**** 1/2

Pier

sabato 1 febbraio 2025

Io Sono Ancora Qui (In Pillole #32)

Il potere della memoria


Il film racconta una storia vera - quella del desaparecido Rubens Paiva, fatto sparire dalla dittatura brasiliana negli anni Settanta - adottando il punto di vista di sua moglie, anche se il romanzo da cui è tratto è stato scritto dal figlio Marcelo, che però proprio a sua madre ha riservato un ruolo da protagonista.

Salles inizia il film con un lungo racconto di quotidianità, vibrante di luci, colore, risate, e amore. Il regista tratteggia uno splendido ritratto di famiglia, che ci fa affezionare ai protagonisti e rende ancora più straziante la seconda parte: il momento del rapimento, ma soprattutto il vuoto, l'assenza, che prende corpo e diventa inesorabilmente presente proprio per contrasto con la prima parte, in cui tutto ciò che ora è vuoto e silenzioso era pieno - di persone, di sogni, di vita. 

Io non sono qui racconta alla perfezione l'incertezza dilaniante di chi aspetta, chi rimane indietro ad attendere un ritorno che potrebbe non arrivare mai. Fernanda Torres è superba nel ruolo della protagonista, cui dona una forza silenziosa e una dignità potente che danno i brividi in numerose scene. La sua nomination agli Oscar, arrivata forse un po' a sorpresa, è pienamente meritata.

Il film risulta forse un po' sfilacciato sul finale, dove l'economia narrativa e la potenza drammatica vengono un po' sacrificate sull'altare del completismo e del voler raccontare tutta la storia fino alla fine, firmacopie del libro di Marcelo Paiva incluso. Resta comunque un ottimo film militante, un documento storico ed emozionale che ci racconta orrori passati ma ancora tristemente attuali per chi si trova a vivere immerso in guerre e stragi.

****

Pier

venerdì 31 gennaio 2025

Babygirl (In Pillole #31)

Cinquanta sfumature di botox


Una donna di potere trova soddisfazione sessuale in un rapporto di sottomissione con un giovane stagista: il tema è potenzialmente interessante e iper attuale. Si parla di potere - implicito ed esplicito - e della legittimità di avere una relazione con chi si trova in posizione di inferiorità dal punto di vista della gerarchia, il tutto condito con il ribaltamento dei ruoli nella camera da letto (d'albergo), un'idea intelligente che potrebbe stimolare riflessioni sui rapporti di genere, sulla libertà sessuale, sulla sessualità nell'età matura, e sulla naturale diversità di gusti e preferenze.

Potrebbe, appunto, se non fosse declinato con desolante banalità e un approccio appena più autoriale (soprattutto grazie a un cast di caratura nettamente superiore) di un Cinquanta sfumature di grigio. A questo si aggiunge il fatto che la superficialità di trattazione fa sì che il film possa facilmente letto come una difesa degli abusi di potere operati dagli uomini in nome di un qualunquista "sono tutti uguali, è il potere a corrompere" - problema, questo, che aveva già parzialmente danneggiato un altro film sulla leadership al femminile, Tàr.

Babygirl risulta quindi pruriginoso ma di scarso impatto emotivo e tematico, nonostante la buona e coraggiosa prova dei protagonisti (Kidman in testa, nonostante il botox che ne limita l'espressività) e una buona dose di autoironia (anche sul botox stesso) che però non evita alcuni momenti davvero imbarazzanti.

** 1/2

Pier

giovedì 23 gennaio 2025

Emilia Pérez

La sindrome di Balto


Manitas del Monte, boss di un potente cartello messicano, ha deciso di cambiare radicalmente vita, e abbracciare il genere cui sente di appartenere: vuole affrontare l'operazione per diventare donna. Per realizzare questo suo desiderio, fa rapire Rita Moro Castro, brillante avvocatessa, affinché organizzi la sua sparizione e la sua nuova vita. Tutto va per il meglio, e Manitas diventa Emilia. Dopo qualche anno, tuttavia, le strade di Emilia e Rita si incrociano nuovamente, e la vicenda, inevitabilmente, si complica.

Emilia Pérez è un film sul cambiamento, sulla trasformazione, sul trovare e ritrovare un'identità - sessuale, ma anche famigliare, professionale, sociale. Audiard abbraccia questa tematica anche a livello metanarrativo, realizzando un film cangiante, multiforme, che si muove tra generi (musical, thriller, romantico) e stili con una libertà invigorente e creativa. 

Per gran parte del film, questa scelta paga: la narrazione muta, si trasforma, sorprende, supportata anche da una regia inventiva e da una fotografia capace di alternare colori saturati a scene buie e cupe, campi larghi che abbracciano coreografie elaborate e primissimi piani che catturano confessioni emozionanti. Lo spettatore non sa mai dove si andrà a parare, e la sua attenzione è dunque completamente catturata dallo spettacolo messo in scena da regista e attrici, con Zoe Saldana alla miglior prova in carriera e Karla Sofía Gascón che mette corpo e anima nella parte, risultando il cuore emotivo del film.

Anche le musiche contribuiscono a questo risultato. Le canzoni, composte dalla cantautrice francese Camille, sembrano aver imparato la lezione di Lil-Manuel Miranda ibridandola con quella di Stephen Sondheim. Le melodie uniscono tonalità da musical tradizionale a rap e hip-hop, e si fondono al parlato. Iniziano, ma non finiscono, integrandosi con la trama e i dialoghi in maniera più "sporca" ma anche più naturale, replicando così a livello sonoro la natura ibrida della narrazione.

Tuttavia, alla lungo il gioco comincia a mostrare la corda, cadendo preda della "sindrome di Balto": a furia di cercare di essere sempre qualcosa di diverso, finisce per sapere solo quello che non è. La trama si sfilaccia, e prende direzioni poco ispirate o veri e propri vicoli ciechi che non aggiungo nulla alla vicenda. L'emozione si perde, e si finisce per guardare ai personaggi come pedine mosse per far avanzare la trama, e non come persone guidate da sentimenti ed emozioni (ne ha ben parlato Richard Brody nella sua recensione per il New Yorker). Lo stesso problema, per fare un esempio recente, lo aveva esibito anche Damien Chazelle con Babylon, altro film ambiziosissimo, che ibrida generi, linguaggi, toni con creatività e coraggio ma finisce per perdersi a livello narrativo ed emotivo.
Questo è vero soprattutto nei momenti che dovrebbero essere più emotivi, e in particolare nel finale, derivativo a livello visivo (Audiard per l'assedio notturno guarda al Villeneuve di Sicario, ma forse avrebbe potuto trovare qualcosa di più originale come fece nel bellissimo duello de I fratelli Sisters) e poco efficace a livello emotivo.

Emilia Pérez resta comunque un film ad alto impatto creativo, capace di divertire e intrattenere senza rinunciare alla sua ambizione artistica, e dimostra ancora una volta come Jacques Audiard sia uno dei cineasti più ispirati e non convenzionali del panorama europeo. Per usare una metafora, è un film che sembra confezionato dal sarto per avere successo nella awards season - più che un sarto, un grande stilista: attento all'estetica, alla forma creativa, al sorprendere il pubblico, ma poco attento alla funzionalità narrativa ed emotiva. 

*** 1/2

Pier


PS: Non entrerò nella polemica sulla rappresentazione stereotipata delle persone transessuali e del Messico, o in quella sugli accenti che, a sentire i messicani, sono l'equivalente di quelli italiani di Lady Gaga & co in Gucci: se vi interessa leggerne, qui trovate un buon riassunto e delle fonti. Personalmente ritengo di non avere gli strumenti e le competenze per affrontare questi argomenti, e posso solo limitarmi a evidenziare che l'accento di Selena Gomez è parso posticcio anche a un orecchio poco allenato come il mio.

sabato 11 gennaio 2025

Better Man

Un film scimmiante


Ci sono film che funzionano anche se non dovrebbero. Film i cui ingredienti, se declinati individualmente, sembrano un pastrocchio senza senso o un'assurdità totale, ma che una volta amalgamati regalano invece una pietanza gustosa. L'esempio più famoso è Alien, concepito e presentato ai produttori come "Lo squalo, ma nello spazio": un'assurdità, che però ci ha regalato uno dei film più iconici della storia del cinema.

Better Man è uno di questi film. Sfido chiunque a sentire "musical biografico su Robbie Williams dove però il protagonista è una scimmia e si parla moltissimo del suo rapporto con il padre" e pensare che questo sarebbe stato un film divertente, commovente, creativo, indimenticabile. Parafrasando la famosa (e falsa) frase sul volo del bombo "La struttura narrativa di Better Man non è adatta a essere un bel film, ma lui non lo sa e funziona lo stesso". Una frase che potrebbe applicarsi anche al protagonista: Robbie Williams non ha particolare talento, o quantomeno nessuno sembra riconoscerglielo. Né la sua famiglia, né il creatore dei Take That, né i suoi compagni della boy band che si fece fenomeno planetario: eppure Williams diventa uno dei cantanti di maggior successo della sua generazione, capace di fare concerti da 125mila persone, innumerevoli dischi di platino e hit al numero uno in diversi paesi. Un successo inframmezzato da numerose cadute, con dipendenze sviluppate in tenerissima età da alcol e droghe, depressione, e altri disturbi.

Fin qui, tutto ci porterebbe nella direzione di tanti classici biopic musicali, da Bohemian Rhapsody a Quando l'amore brucia l'anima. Qui però entra in gioco Michael Gracey, già regista di The Greatest Showman, che ha tre intuizioni - due ottime, e una follemente geniale - che elevano il film oltre la media del genere e lo rendono unico. La prima intuizione è quella di seguire la strada di Rocketman, trasformando il biopic in un vero e proprio musical. Gracey osa ancora di più del suo predecessore, mettendo in scena coreografie ardite (il ballo sfrenato con finto ma efficacissimo piano sequenza su Rock DJ nel bel mezzo di Regent Street - qui una breve preview), visionarie (il combattimento in stile fantasy sulle note di Let me entertain you durante il concerto a Knebworth) e commoventi (la scena sulle note di Feel, in cui sfido anche il cuore più freddo a rimanere insensibile, e la coreografia in perfetto stile Rogers-Astaire su She's the one). 

La seconda intuizione è quella di abbandonare i toni da agiografia che solitamente caratterizzano queste operazioni. Certo, la struttura rimane quella classica di successo-crollo-ritorno dagli inferi - forse l'unico elemento poco originale del film, ma d'altronde la storia di Williams è quella. Tuttavia, il film mette in scena in modo forte, straziante e senza sconti tutti i momenti peggiori di Williams, non indugiando solo su quelli più pruriginosi (droghe, alcol) ma anche sui lati più oscuri della depressione, con l'autosabotaggio e l'allontanamento sistematico di tutte le persone care, che vengono ferite gratuitamente o dimenticate. In questo è fondamentale anche la collaborazione di Williams, che storicamente ha sempre discusso in pubblico in modo molto aperto i suoi problemi, e qui si presta non solo a mettersi a nudo, ma anche a essere la voce narrante.

La terza intuizione - la più folle, la più geniale, la più importante - è quella di far interpretare Robbie Williams, sex symbol planetario all'apice del suo successo, da uno scimpanzé in computer grafica. La scelta è paradossalmente ciò che permette al film di essere più autentico e "grezzo", eliminando dall'equazione il classico gioco delle somiglianze tra interprete ed interpretato e permettendo allo spettatore di concentrarsi sulla vicenda narrata e sull'ottovolante emotivo della vita di Williams e del suo rapporto con il padre. L'espressività dello scimpanzé (dietro cui c'è l'attore Jonno Davies) è impressionante, e vi ritroverete a commuovervi per degli occhi sempre solcati dalla tristezza, e a ridere sguiatamente per le sue espressioni ammiccanti e cialtrone, ricalcate alla perfezione su quelle di Williams.

Better Man è un film "scimmiante", che sprigiona energia, vibrazioni, emozioni di ogni tipo: si ride, si piange, ci si carica come se si fosse presenti ai concerti, al punto di essere più volti tentati dal cantare a squarciagola le canzoni, anche quando non si sanno le parole. È un film anarchico e geniale, che si muove sempre sull'orlo del precipizio del "ma cosa diamine sto guardando" ma ne esce sempre trionfatore, con un occhiolino soddisfatto rivolto allo spettatore che non può far altro che lasciarsi travolgere e trasportare. Una bella sorpresa.

**** 

Pier

venerdì 3 gennaio 2025

Nosferatu

Combattere il Male


Dracula è il personaggio più esplorato dalla cinematografia mondiale. Di tutte le innumerevoli versioni, tuttavia, solo tre hanno finora segnato la storia del cinema: una "ufficiale", quella di Francis Ford Coppola, e due spurie, i Nosferatu di Murnau (1922) e Herzog (1979). Quello di Murnau, con i nomi cambiati per aggirare il diritto d'autore, è diventato talmente iconico da meritarsi prima il remake di Herzog, e oggi quello di Eggers: è una decisione cinefila, ma anche stilistica, molto in linea con la cinematografia del regista newyorkese.

Se il Dracula di Coppola privilegiava infatti l'aspetto romantico dell'opera di Bram Stoker, sia a livello narrativo che estetico, con costumi e fotografia estremamente barocche e teatrali, Eggers sceglie di concentrarsi sull'aspetto più orrorifico, come Murnau ed Herzog prima di lui, esaltando però ulteriormente l'elemento di folklore del mito del vampiro: le sue origini popolari come spiegazioni della pestilenza, e la ritualità est-europea nel cercare di affrontarlo.

Eggers non è interessato alla natura romantica e maledetta del vampiro, ma a quella malefica. Il vampiro è la morte e la sua negazione, un abominio che sovverte le leggi naturali che pensiamo di conoscere e fa a pezzi le fragili certezze della scienza. È il Male incarnato, e Eggers vuole esplorarne le origini o, meglio, come si infiltra nel mondo, nella nostra vita di tutti i giorni. Il film si presta a vari livelli di lettura, dal racconto metaforico della depressione alla rivisitazione del peccato originale. 

Spicca però un messaggio politico-sociale, racchiuso nelle parole di Von Franz/Van Helsing: bisogna conoscere l'oscurità per poterla combattere. Così come la Germania iper-razionalista e scientifica si trova più impreparata dei superstiziosi contadini dei Carpazi nel combattere il vampiro, così le idee più tossiche trovano terreno fertile in società democratiche, che dopo decenni senza guerre si sono illuse che il Male non le toccherà mai più, che le barbarie della guerra e delle dittature siano ricordi lontani e sopiti. È successo negli anni Trenta, e sta succedendo ancora ora: il sonno della ragione genera mostri, ma la fede cieca nella ragione è solo un'altra forma di fanatismo, che ci rende ciechi e imbelli di fronte ai mostri che già esistono. 

Questi mostri vengono evocati da persone fragili, ai margini di una società che li tratta come pazzi o isterici; persone che, per disperazione e solitudine, sono disposte ad accogliere qualunque cosa le faccia sentire meno sole, meno incomprese, meno inutili. Il personaggio di Ellen, interpretato in maniera ipnotica da Lily-Rose Depp, rappresenta la "porta di ingresso" di chi riporta il Male nella società, anche senza volerlo (Eggers è bravissimo a non rendere Ellen una colpevole, ma una vittima che decide di reagire).

La ricchezza tematica del film non è tuttavia supportata da una lettura profonda e nuova degli iconici personaggi e delle loro vicende. Eggers osserva i suoi protagonisti con sguardo da scienzato, da entomologo, freddo e distante, e non dà alcuna lettura sanguigna e creativa del mito del vampiro, come se avesse avuto paura di "contaminare" il suo esperimento portando una sua visione personale. Manca anche qualcosa che trasformi le sofferenze dei personaggi, e in particolare della protagonista Ellen, in un qualcosa di vero, autentico, che crei empatia nello spettatore - quel qualcosa che invece era riuscito benissimo a Eggers in The Northman. A questo contribuisce anche la scelta di dare a Orlok un accento molto marcato, scelta che finisce per "allontanare" ulteriormente lo spettatore. Tenere così lontano lo spettatore a livello emotivo rischia di far percepire il tutto come un esercizio di stile, depotenziando anche il messaggio che il film vorrebbe veicolare.

A livello visivo il film è una gioia per gli occhi. Eggers riprende l'estetica espressionista, fatta di ombre e oscurità, e la accompagna con la sua passione per la fotografia in luce naturale, alternando momenti di oscurità tangibile, viscerale e primordiale (la scena nella locanda) ad altri più alienanti, onirici e allucinati, con colori talmente desaturati da richiamare il bianco e nero dell'opera di Murnau (la scena dell'arrivo nel castello di Orlok. L'orrore è più suggerito che mostrato, e anche le poche scene granguignolesche servono a esaltare l'asetticità dei momenti chiave, in cui l'ombra striscia nelle case e violenta le menti prima ancora che i corpi.

Nosferatu non è il film più riuscito di Eggers, ma è senza dubbio quello più ambizioso a livello stilistico e tematico, un confronto con i grandi del passato da cui Eggers esce, se non vincitore, quantomeno non sconfitto, rileggendo il mito del vampiro per i nostri tempi cupi, in cui il Male è ovunque e l'oscurità incombe e minaccia di spegnere ogni luce. È un film che parla alla testa e, a tratti, alle viscere, ma non al cuore - e il cuore è quel che manca per avvincere davvero lo spettatore e rimanere saldo nel suo immaginario e nei suoi ricordi: per essere, insomma, un vero capolavoro.

*** 1/2

Pier

giovedì 2 gennaio 2025

Piccole Cose Come Queste (In Pillole #30)

Una luce in mezzo alle tenebre


La storia delle "case Magdalene" (per chi non sapesse cosa sono, ecco un agile riassunto) è già stata raccontata al cinema da ottimi film come Magdalene (vincitore del Leone d'Oro nel 2002) e Philomena (qui la nostra recensione). Tuttavia, questi film si concentravano sulla vita nelle case e sulle conseguenze per le vittime, senza indagare il sostrato sociale che aveva permesso la sopravvivenza di queste case di semi-schiavitù e tortura fino ai primi anni 2000.

Piccole cose come queste, trasposizione dell'omonimo romanzo di Claire Keegan, prende la prospettiva di Bill, commerciante di carbone che scopre cosa accade davvero alle ragazze ospitate in quelle case. Il film ruota intorno al dilemma etico che lo attanaglia: fare qualcosa, rischiando così di alienarsi il favore delle potentissime suore, o tacere, e vivere con questo peso sulla coscienza? Il film illustra benissimo le cause sistemiche del proliferare di queste case, con le suore che controllano non solo la vita spirituale del paese, ma anche la sua istruzione e persino la sua prosperità economica.

Il regista Tim Mielants gira la vicenda con un taglio claustrofobico da thriller o da horror, utilizzando inquadrature molto strette (spesso sul viso di Cillian Murphy, semplicemente strepitoso in un ruolo che vive di silenzi e sguardi) e una fotografia cupa, con colori desaturati e ricca di ombre inquietanti che strisciano nella vita del protagonista. La scena in cui Bill incontra Suor Mary ricorda quella nello scantinato di Zodiac per tensione e desiderio di vedere il protagonista fuggire il prima possibile dalla tana del mostro, che pare pronto a divorarlo.

Piccole cose come queste è un film di denuncia sull'omertà sociale, e sul peso etico che chi sapeva si trova a sopportare senza però riuscire a fare la cosa giusta. In questo è un film tremendamente attuale, in quanto racconta l'umana capacità di ignorare gli orrori che avvengono a pochi passi da noi pur di continuare con la nostra vita di sempre: un Male che avviene per omissione, non per azione, ma non per questo meno distruttivo per chi lo subisce. Il finale, potentissimo nella sua semplicità, non dà risposte certe, ma insinua un dubbio: che accendere almeno una piccola luce in mezzo alle tenebre che ci circondano non sia inutile, come spesso pensiamo, ma può essere la scintilla che fa divampare la speranza.

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Pier