lunedì 29 settembre 2025

Una Battaglia Dopo l'Altra

L'urlo e il furore

It is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing.
William Shakespare, Macbeth


In un presente distopico, Bob Ferguson, entra a far parte dell'organizzazione rivoluzionaria French 75. Dopo essersi ritirato, Bob si occupa a tempo pieno di Willa, figlia sua e di Perfidia, sua compagna di rivoluzione. Il passato, tuttavia, si presenta a chiedere il conto nella forma del colonnello Lockjaw, già sua nemesi in passato, deciso a eliminare Willa per motivi oscuri a Bob.

Realizzare un film come Una battaglia dopo l'altra subito dopo Licorice pizza sembra l'ennesima testimonianza dell'eclettismo di Paul Thomas Anderson, che passa da un coming of age a un film sulla rivoluzione armata, quasi tarantiniano per gusto espressivo, di personaggi, e umoristico. Tuttavia, i due film sono più simili di quanto sembri: sono due film cinetici, sempre in movimento, in cui si corre a perdifiato da una parte all'altra, con al centro una relazione, due persone che vogliono solo stare insieme ma che agenti esterni si ostinano a voler separare. Sullo sfondo, una crisi inesorabile - quella petrolifera in Licorice pizza, quella dell'immigrazione in Una battaglia dopo l'altra - che è specchio di una crisi più ampia, quella della società statunitense (e non solo).

Anche il ritmo dei due film è identico, una sonata jazz fatta di continui cambi di ritmo, imprevedibile nella sua capacità di cambiare pelle, scartare di lato, cambiare prospettiva. Laddove Licorice pizza era un film solare, tuttavia, Una battaglia dopo l'altra è una sonata cupa, dove la speranza è ridotta al lumicino e il Male divora principi e valori e mettendo tutti contro tutti, in una guerra fratricida dove "il più forte dovrà infine tra tutti trionfar". Il Male, incarnato dal colonnello Lockjaw, da ICE, e da un movimento suprematista devoto al Natale e a San Nicola, non dà tregua, come il T-1000 di Terminator 2 (una saga che Anderson sembra voler esplicitamente citare), e ai combattenti non restano che due scelte: arrendersi e tradire i propri ideali, oppure una fuga per continuare la battaglia in tempi migliori.

Il primo atto è un inno alla ribellione, un inno fatto di urla, bombe e furore, ma anche di amore, passione carnale, solidarietà e valori. Il furore, tuttavia, si spegne sotto una pioggia malsana che si fa inondazione, e che vuole stroncare ogni ideale rivoluzionario, renderlo senza significato, la "storia raccontata da un idiota" del Macbeth: alcuni cedono, alcuni scompaiono, ma alcuni continuano a combattere, per scelta o mancanza di alternative. 

L'urlo continua, sopito ma non soffocato, e ci porta nel secondo atto, quello più indebitato a Tarantino ma anche a David Lynch, una fuga continua e allucinata fatta di ninja che sfrecciano in skateboard, parole d'ordine dimenticate, e sensei latini che salvano immigrati irregolari. Surreale e reale si sovrappongono e divengono tutt'uno, ciò che accade supera in inverosimilità ciò che immaginiamo o alluciniamo, la battaglia infuria dentro e fuori di noi.
Il terzo atto è quello leggermente meno riuscito, causa alcune lungaggini forse evitabili, ma ci regala una sequenza di inseguimento da antologia, un mix tra il primo Mad Max e un western crepuscolare alla Sam Peckinpah, in cui ogni onore viene abbandonato e l'unica cosa che conta è sopravvivere, continuare a correre.

Anderson dipinge il film con pennellate rabbiose, pastose, lunghi piani sequenza insistenti, asfissianti, che si inseguono senza soluzioni di continuità: ogni stacco di montaggio è un respiro profondo prima di immergersi nuovamente nell'azione, in apnea, incalzati e inseguiti dal passato che vuole chiudere i conti, dal presente che vuole riaprirli, e da un futuro che si preannuncia pieno di urla, furore e sangue. Jonny Greenwood, chitarrista dei Radiohead, già compositore della colonna sonora de Il filo nascostocostruisce un perfetto riflesso musicale della storia narrata, una serie di melodie rapsodiche, sincopate, che accompagnano ogni scena con un'insistenza quasi sfinente.

Il cast è perfetto, da un Di Caprio travolto dalla vita ma deciso a sopravvivere a un Benicio Del Toro sornione e imperturbabile, che ricorda il personaggio di Brad Pitt in C'era una volta a Hollywood per coolness esibita al minuto. A brillare, tuttavia, sono soprattutto le protagoniste femminili: Teyana Taylor, che esprime un desiderio di vita e giustizia quasi animale con la sua perfidia, e la giovane Chase Infiniti, una forza della natura che non accetta di scomparire e di essere messa a tacere: scalcia, combatte, sopravvive, incarnazione vivente della battaglia del titolo, della lotta che continua. E poi, c'è lui, il Male, il colonnello Lockjaw di Sean Penn: un villain da antologia, fragile e violento, magnetico e buffo, incarnazione perfetta della banalità del Male, della crudeltà profonda di chi si crede protagonista ma dentro di sé sa di essere destinato a rimanere sullo sfondo, e dà così sfogo a una rabbia nichilista che tutto travolge, tutto divora.

Una battaglia dopo l'altra è un ritratto spietato dell'umanità, tratteggiata nei suoi tratti più ridicoli e più spaventosi, più nobili e più perversi, una melodia cangiante che si fa ora cacofonica, ora armonica, con due temi che si inseguono e non possono esistere l'uno senza l'altro: da un lato l'incedere devastante e inesorabile del Male, dall'altro chi prova a resistere, fuggendo, nascondendosi, ma tenendo sempre viva la fiamma di un fuoco ribelle che non accenna a spegnersi e continua a far divampare la speranza. E la battaglia continua.

**** 1/2

Pier

Life of Chuck

Ogni vita è meravigliosa


L'apocalisse sembra arrivata. Mentre tutto crolla, qualcuno celebra la vita di un certo Chuck Krantz, contabile. Da qui inizia un percorso a ritroso in cui scopriamo chi è Chuck e perché sia giusto celebrarlo.

Cosa contiene una vita? Questa la domanda che sembra muovere il racconto di Stephen King da cui è tratto il film: una lettura quasi letterale della famosa poesia di Walt Whitman Contengo moltitudini; un racconto lirico, meditativo, ben lontano dalle atmosfere da "maestro del brivido" per cui è famoso. Ma tutti gli appassionati di cinema sanno che, con la notevole eccezione di Shining, i migliori adattamenti kinghiani sono spesso poco horror - da Le ali della libertà passando per Stand by me e Il miglio verde. 

Life of Chuck si iscrive a questi precedenti illustri grazie all'adattamento sapiente di Mike Flanagan, anch'egli noto per il genere horror (sue sono alcune delle migliori serie TV nel genere degli ultimi anni, dalle due Haunting a Midnight Mass, passando per La caduta della casa degli Husher e Midnight Club: chi le ha viste riconoscerà numerosi attori e attrici di queste serie nel film). Flanagan, come King, prova di saper trascendere il genere che lo ha reso famoso, mostrandosi pienamente a suo agio nel raccontare un inno alla vita (qualcuno potrebbe evidenziare come l'orrore sia un modo di celebrare, per contrasto la bellezza della quotiadinità). È difficile raccontare Life of Chuck senza spoiler, ma ci proveremo: è diviso in tre atti raccontati in ordine cronologico inverso, e si focalizza sulla vita di un uomo di nome Chuck. 

Inizia come un film distopico, e prosegue come una celebrazione della gioia di vivere, della bellezza delle piccole gioie del quotidiano, del piacere del riscoprire una passione sopita. Il secondo atto è fatto di musica e danza, mentre nel terzo le tematiche del film si incontrano e tutte le fila si tirano: c'è ancora il ballo, certo, ma ci sono anche le vite che, intrecciandosi, costituiscono quel macrocosmo che è ciascuna esistenza; c'è il lutto, il dolore della perdita, ma anche la gioia di trovare e ritrovare passioni; c'è, infine, il desiderio di vivere la propria vita a fondo, superando gli ostacoli che società e destino vogliono metterci davanti.

Flanagan dirige con mano invisibile, senza i virtuosismi che altri registi esibirebbero in alcuni momenti, ma riesce comunque a confezionare alcuni momenti memorabili. Tra questi spicca la danza del secondo atto, un'esplosione di gioia e vitalità magistralmente disegnata da Mandy Moore, probabilmente la miglior coreografa su piazza quando si tratta di creare danze ambientate nel tessuto urbano (sue anche le coreografie di La La Land). L'esibizione spontanea di Tom Hiddleston e Annalise Basso è ipnotica, sensuale, un'esplosione di gioia e al tempo stesso un enigma, una finestra sull'anima di due persone ferite e in cerca di redenzione. Se la danza del secondo atto è senza dubbio la scena migliore dal punto di vista cinematografico, quella del terzo atto eseguita da un giovane Chuck e dalla sua compagna di ballo Cat è quella che più tocca al cuore, soprattutto grazie alla purezza e all'entusiasmo contagioso dei due attori-ballerini, Benjamin Pajak (eccezionale, il cuore pulsante del film) e Trinity Jo-Li Bliss.

Tutto il cast è diretto magistralmente. Flanagan dimostra un amore per i suoi attori e le sue attrici che esalta l'umanità e il realismo di tutte le loro performance: dai due ex coniugi travolti dalla fine del mondo nel primo atto (Chiwetel Ejiofor e Karen Gillan) al nonno di Chuck, uno struggente Mark Hamill, forse alla miglior prova in carriera, passando per la voce narrante affidata al sempre meraviglioso Nick Offerman, che potrebbe rendere appassionante anche la lettura dell'elenco telefonico.

Life of Chuck è una poesia per immagini, un inno alla bellezza e alla capacità di superare le proprie paure. È una celebrazione dell'eccezionalità e dell'unicità della vita, di ogni singola vita, anche quella all'apparenza più banale: un messaggio che può sembrare scontato, ma decisamente non lo è di questi tempi, in cui le morti sono freddi numeri senza passato, senza storia, e la deumanizzazione della vita è all'ordine del giorno

Flanagan realizza un piccolo miracolo, un film fuori dal suo tempo (impossibile non pensare a La vita è una cosa meravigliosa) eppure perfetto per i nostri tempi, che scalda il cuore e restituisce la speranza senza essere mai sdolcinato. Life of Chuck racconta la vita nella sua complessità, nella sua capacità generativa e immaginativa, di cambiare altre vite, tante altre, con piccoli gesti, all'apparenza insignificanti, ma in grado di creare e cambiare mondi: un sorriso, una parola gentile, una musica ballata di fronte all'apocalisse, con il sorriso, mentre le stelle si spengono. 

**** 

Pier

mercoledì 24 settembre 2025

La Voce di Hind Rajab

La voce di un genocidio


In seguito a un attacco dell’esercito israeliano all’auto in cui viaggiava, Hind Rajab, una bambina, rimane intrappolata, circondata dai cadaveri dei suoi parenti. I membri della Mezzaluna Rossa, in contatto telefonico con la bambina, combattono contro il tempo per provare a portarla in salvo.

Anche conoscendo già la vicenda di cronaca narrata, è impossibile rimanere indifferenti di fronte a La Voce di Hind Rajab, confezionato con grandissima efficacia narrativa ed emotiva da Kaouther Ben Hania. La scelta di usare le registrazioni originali della chiamata di Hind Rajab, e di giustapporle con le prove degli attori, non è solo vincente: è necessaria per capire fino in fondo l’orrore, la disperazione e il terrore di una bambina intrappolata e sola. Quella di Hind Rajab diventa la voce di un genocidio, di centinaia di migliaia di innocenti uccisi, umiliati, affamati, lasciati senza nemmeno il conforto dei propri cari negli ultimi attimi.

La lenta evoluzione dei centralinisti che le parlano – dapprima rassicuranti, poi sempre più disperati – è specchio di quella degli spettatori, colpiti con sempre più violenza allo stomaco man mano che il film prosegue. Si finisce tremanti, impotenti di fronte a quanto appena visto, il dolore dei protagonisti che si è fatto strada nel cuore, nella testa, nel corpo degli spettatori.

Kaouther Ben Hania non inventa nulla di eccezionale, ma ha un grande senso del racconto e realizza un film senza fronzoli, dritto al punto, che scivola nel pietismo e nel ricatto emotivo solo in un breve momento sul finale, ma per il resto riesce a essere asciutto e giornalistico pur raccontando una vicenda straziante. La macchina da presa si concentra sui volti, sui suoni, e il montaggio video e audio (qui fondamentale) cuce, alterna, giustapponendo reale e ricostruzione in modo efficacissimo, che ci fa capire che quell’orrore non è frutto (solo) della bravura degli attori, ma della realtà. 

La regista tunisina ci trascina nella frenesia di quei momenti, nelle emozioni dei protagonisti, nella follia bellica e burocratica che rende impossibile salvare una bambina. Il cast è eccezionale, ma a brillare è soprattutto Saja Kilani, che riesce nel difficile compito di comunicare una calma carica di tenerezza con la voce, per tranquillizzare la bambina, mentre il suo volto è colmo di disperazione.

La Voce di Hind Rajab è un film devastante per impatto emotivo, che deve la sua forza alla vicenda narrata ma anche alla sapienza della confezione filmica. Il film è, ovviamente, molto attuale, ma è al tempo stesso universale: perché in ogni guerra, in ogni persecuzione fatta solo per etnia e nazionalità, c’è sempre una bambina che rimane sola e cerca disperatamente aiuto, e c’è sempre chi cercherà di portarglielo nonostante tutte le difficoltà. Ben Hania confeziona un imperdibile j’accuse che parla alle coscienze, e che rimarrà nelle menti e nei cuori dello spettatori molto a lungo dopo la visione.

**** 1/2

Pier

Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

martedì 23 settembre 2025

Duse

Errori fatali


Il film racconta gli ultimi anni di vita di Eleonora Duse: il suo ritorno sulle scene dopo la guerra, il rapporto con D'Annunzio, le crisi finanziarie. Sullo sfondo, l'ascesa del fascismo.

Un film su Eleonora Duse, la Divina del teatro italiano, un'attrice carismatica, dal carattere dirompente, nasce e muore con la sua interprete. Se si vuole raccontare la Duse, una donna in anticipo sui tempi, in grado di tenere testa e rubare il cuore a Gabriele D'Annunzio, una donna che non ebbe paura di sfidare e distruggere le convenzioni, non ci si può permettersi di sbagliare il casting dell'attrice principale. 

Purtroppo questo è ciò che succede nel film del solitamente bravo Pietro Marcello: Valeria Bruni Tedeschi, non sappiamo se per scarsa attitudine, indicazioni registiche, o ambedue, dà vita a una Duse anonima, una vecchietta svampita tutta sorrisi e moine che scompare in scena quando dovrebbe dominarla. Sono emblematiche, in tal senso le scene con D'Annunzio e Sarah Bernhardt, epigona francese della Duse:  momenti talmenti talmente dominati dalle due controparti che ci si dimentica della presenza dell'attrice italiana, relegata a decorazione sullo sfondo. Paradossale che, nella scena con la Bernhardt, le rubi la scena anche l'attrice alle prime armi: una metafora del problema che attanaglia il film. 

Bruni Tedeschi non restituisce alcunché della grandezza teatrale della Duse, che rivoluzionò il modo di stare sul palco e preparare un personaggio. Non la aiuta una sceneggiatura inceppata, zoppa, appensantita da una retorica eccessiva che funziona quando viene messa in bocca a D'Annunzio e ai teatranti, ma risulta stucchevole e fuori posto quando viene ripetuta anche per personaggi "quotidiani" come la figlia e l'assistente della Duse. Le due attrici fanno intuire un potenziale migliore, ma vengono relegate ad anonime arpie tutte fieri cipigli, personaggi monotematici e inevitabilmente odiosi quando, forse, avrebbero potuto essere qualcosa di più.

La fotografia e l'integrazione tra recitato e materiali d'archivio sono ottimi, come sempre nei film di Marcello, e funziona anche il tentativo di parlare dell'orrore della guerra e della medicina sperata (l'arte, il teatro) da Duse e D'Annunzio, rispetto a quella realmente arrivata (l'olio di ricino del fascismo). Ma è poco, troppo poco, per salvare il film: la magia di Martin Eden è qui del tutto assente, ed è difficile non pensare a quanto invece fosse stata azzeccata la scelta di Marinelli in quel caso.

Duse è, a conti fatti, come una bella automobile senza motore: la carrozzeria può essere perfetta e ben disegnata, gli interni pregiati, ma l'auto rimarrà immobile, destinata alla polvere e all'oblio.

**

Pier

sabato 6 settembre 2025

Venezia 2025 - Il Totoleone

Siamo giunti al termine di un'altra Mostra del Cinema, segnata da clima capriccioso, biciclette, spritz, cene rapidissime, e critici buongustai in panama bianco. L'edizione numero 82 della Mostra è stata di altissimo livello, come testimoniato dai giudizi medi dei critici, solitamente avari di lodi, ma che qui hanno bocciato appena cinque dei film in Concorso, e solo uno severamente. Le vette sono state almeno quattro, e i picchi negativi, come detto, si contano sulle dita di una mano, e forse nemmeno quella. Anche quest'anno Alberto Barbera ha confezionato un'ottima selezione, e c'è chi spera che il suo mandato, in scadenza il prossimo anno, possa venire rinnovato ancora (anche per alternative che non invitano all'entusiasmo).

È stata una Mostra di attualità, tra film che parlano del rapporto uomo-natura (Bugonia, Silent Friend), film sul capitalismo e come sta distruggendo il mondo del lavoro (sempre BugoniaÀ Pied d'œuvre - At Work, No Other Choice), film di attualità politica (Il Mago del Cremlino, A House of Dynamite), film su guerre e genocidio (The Voice of Hind Rajab). Ci sono stati anche film che, attraverso vicende personali, han provato a raccontare il passato (Orphan, Duse, The Testament of Ann Lee) e film che raccontano i demoni interiori dell'essere umano (Elisa, Frankenstein, e The Smashing Machine).

Qui trovate un elenco, con voti, dei film visti. Di seguito, invece, trovate i pronostici, come sempre sbagliati, per il Leone d'Oro e gli altri premi, corredati dalle mie preferenze personali.


Premio Mastroianni per il miglior attore emergente
Come lo scorso anno, i candidati per questo premio non sono tantissimi. Puntiamo su Bojtorján Barábas, dato favorito da molti per la sua intensa interpretazione in Orphan. Non avendo, purtroppo, visto il film, la mia scelta personale ricade sui protagonisti del terzo episodio di Father Mother Sister Brother, Indya Moore e Luka Sabbat.
PronosticoBojtorján Barábas, Orphan
Scelta personaleIndya Moore e Luka Sabbat, Father Mother Sister Brother

Coppa Volpi maschile
Sfida molto accesa, con tantissimi pretendenti: dall'ottimo Dwayne Johnson di The Smashing Machine, Paul Dano per Il Mago del Cremlino, Jesse Plemons per Bugonia, Lee Byung-hun per No Other Choice, e, perché no, anche Toni Servillo per La Grazia. Il pronostico, però, ricade su George Clooney, senza la cui prova dolente e malinconica Jay Kelly non avrebbe ragione di esistere. Su di lui ricade il mio pronostico, mentre la mia scelta personale va a Lee Byung-hun, poliedrico padre di famiglia.
PronosticoGeorge Clooney, Jay Kelly
Scelta personaleLee Byung-hun, No Other Choice

Coppa Volpi femminile 
Sfida molto meno accesa di quella per la Coppa maschile, con sole tre attrici davvero in lizza - vuoi per mancanza di alternative, vuoi per alternative (come Emma Stone in Bugonia) non così chiaramente protagoniste. Sarà quindi una lotta a tre tra Barbara Ronchi per Elisa, Valeria Bruni Tedeschi, incredibilmente apprezzata nelle paludi antiche della critica italiana in Duse, e Amanda Seyfried ne Il Testamento di Ann Lee. Non avendo visto quest'ultimo, concentro su Barbara Ronchi e la sua espressione ipnotica pronostico, scelta personale, e speranze di non far rigirare nella tomba la Divina Eleonora Duse.
Pronostico: Barbara Ronchi, Elisa
Scelta personale: Barbara Ronchi, Elisa

Leone d'Argento (Miglior Regia) 
Scelta molto difficile visto l'altissimo livello dei film in concorso. Sembra difficile, considerando anche l'ottima accoglienza avuta dalla critica statunitense, mandare a casa Paolo Sorrentino a mani vuote: il suo film fatto di politica "alta" (talmente alta che alcuni l'hanno definito un fantasy, perché politici del genere non esistono) potrebbe fare breccia anche nei cuori dei giurati d'oltreoceano, e aggiudicarsi uno dei premi più ambiti. La mia scelta personale ricade invece su Park Chan-wook, che dipinge cinema nella sua commedia nera a sfondo lavorativo. Anche Lanthimos meriterebbe con Bugonia, ma ha già vinto il Leone e può accontentarsi di partecipare.
Pronostico: Paolo Sorrentino, La Grazia
Scelta personale: Park Chan-wook, No Other Choice

Gran Premio della Giuria 
Il favorito per il secondo premio più importante sembrerebbe essere Silent Friend: un film poetico ma divertente, introspettivo ma anche univerale, che parla di natura ma anche relazioni umane. Se vincesse ne sarei felice: ci sono (pochi) film migliori, ma questo è uno dei tre film che mi ha toccato il cuore in questa Mostra. Tuttavia, penso che un altro film del cuore, Father Mother Sister Brother, possa aver fatto breccia anche in Alexander Payne, presidente di giuria che da sempre racconta personaggi "rotti" che cercano disperatamente di uscire dalla propria solitudine, spesso senza riuscirci. All'elegia di Jarmush va il mio pronostico, mentre la mia scelta personale va al terzo film del cuore, un film che il cuore me lo ha rotto: The Voice of Hind Rajab.
PronosticoFather Mother Sister Brother
Scelta personaleThe Voice of Hind Rajab

Leone d'Oro 
Se il concorso è di alto livello, la sfida per il Leone si fa incerta e combattutissima. Uno qualunque dei film già citati come "papabili" per i due premi precedenti potrebbe vincere il Leone d'Oro, e non ci sarebbe nulla da dire. Penso però che il Leone se lo aggiudicherà la storia a più alto impatto emotivo della Mostra, sia per il tema, sia per una regia senza fronzoli ma perfetta per il tipo di racconto che aveva in mente: The Voice of Hind Rajab. La mia scelta personale ricade invece sul gioiellino di Jim Jarmush: un film solo apparentemente piccolo, ma grande nella sua capacità di parlare di Vita.
Pronostico: The Voice of Hind Rajab
Scelta personale: Father Mother Sister Brother

È tutto anche per quest'anno. Correte in SNAI a scommettere sull'opposto dei miei pronostici, e noi ci risentiamo per l'edizione 2026.

Pier

Telegrammi da Venezia 2025 - #8: Il Riassunto

Ultimo telegramma da Venezia 2025, con l'elenco di tutti i film visti del concorso e i relativi voti.


Quando il voto era pari, ho messo davanti il film che ho preferito. Cliccando il titolo potete leggere la recensione breve pubblicata nei Telegrammi precedenti.

  1. No Other Choice, voto 9.
  2. The Voice of Hind Rajab, voto 9.
  3. Bugoniavoto 9
  4. Father Mother Sister Brother, voto 8.5
  5. Silent Friend, voto 8.5
  6. Il Mago del Cremlino, voto 8
  7. Frankenstein, voto 7.5
  8. The Smashing Machine, voto 7.5
  9. La Grazia, voto 7.5
  10. A House of Dynamite, voto 7
  11. Elisa, voto 7
  12. Un film fatto per Bene (Bravo Bene!), voto 7.
  13. À pied d'œuvre - At Work, voto 6.5
  14. Sotto le Nuvole, voto 6.5
  15. Jay Kelly, voto 6.5
  16. Lo Straniero, voto 6
  17. Nühai - Girl, voto 6.
  18. Duse, voto 5
Non visti: OrphanThe Testament of Ann Lee, The Sun Rises on Us All.

Per i telegrammi è tutto, a più tardi per i pronostici.

Pier

Telegrammi da Venezia 2025 - #7

Settimo telegramma da Venezia, tra tuffi nella testa di un'assassina, alberi che osservano le nostre vite, film su film che non si sono fatti, festival di grande musica e coesione sociale, favole distopiche, e un Minority Report in salsa francese.


Elisa (Concorso), voto 7. Di Costanzo realizza un film carcerario che è per gran parte efficacissimo, una fredda e impietosa discesa nella mente di un'assassina, sorretto da una fotografia algida e distante e da un cast eccezionale capitanato da Barbara Ronchi. Tuttavia il film perde forza e potenza (e guadagna inutilmente in durata) per inseguire delle pulsioni da televisione nazionalpopolare in cui tutto deve essere spiegato e tutti i personaggi devono piacere al pubblico. Peccato, ma il talento resta. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Silent Friend (Concorso), voto 8.5. Un albero di ginkgo biloba domina il cortile di un'università medioevale tedesca, e osserva silenzioso tre storie che si dipanano su più di un secolo: quella della prima donna ammessa all'università, quella di due ragazzi che cercano di comunicare con un geranio, e quella di un neuroscienziato (Tony Leung) che cerca di tracciare paralleli tra il nostro cervello e il pensiero della pianta. Ildiko Enyedi realizza un film lirico ma anche divertente, una splendida meditazione sul nostro rapporto con la natura, ma soprattutto su cosa significhi comunicare con "l'altro" - l'albero, ma anche le persone - e sul nostro insopprimibile desiderio di farlo. L'albero è quasi un alieno (si pensa spesso a un film diversissimo eppure simile come Arrival, durante la visione) che osserva le nostre vite effimere e i nostri tentativi di creare una connessione - tra noi, e con lui, attraverso i secoli. Alla regista ungherese riesce l'impresa di trovare il delicato equilibrio tra riflessione filosofica e narrazione, e nel farlo ci regala un film evocativo e misterioso, che lascia lo spettatore con una sensazione di pace e compiutezza, ma anche di leopardiana inadeguatezza di fronte all'infinito.

Un film fatto per Bene (Bravo Bene!) (Concorso), voto 7. Maresco realizza una riflessione metacinematografica su arte, cinema e depressione eclettica e folle, in cui reale e finzione si mescolano al punto che diventa impossibile distinguerli. Il film su Carmelo Bene diventa un delirio, una meditazione, un non-film che avrebbe fatto contento il grande artista cui è dedicato. Moresco mette se stesso (o una versione cinematografica di se stesso?) davanti alla telecamere e regala un racconto volutamente sconclusionato ma divertente e ispirato, l'ennesima riflessione sulla Sicilia, sull'Italia, e sull'eredità (tradita o raccolta) di un grande artista come Bene, che ne avrebbe apprezzato il taglio nichilista, misterioso e senza risposte.

Newport and the Great Folk Dream (Fuori Concorso), voto 8.5. Un magnifico documentario fatto di sole immagini d'archivio che racconta gli anni di gloria del festival di musica folk di Newport, che lanciò tra gli altri Bob Dylan e Joan Baez. Il film racconta alla perfezione le radici democratiche e sociali del festival, che pagava tutti alla stessa maniera e dava spazio a tutte le tradizioni musicali degli USA, permettendo un incontro tra generazioni ed etnie diversissime. Si creava così non solo un terreno fertile per la contaminazione artistica e la creatività, ma un punto di incontro dove si superavano tutte le divisioni civili e sociali che allora come oggi laceravano gli Stati Uniti. Un'utopia durata solo pochi anni, prima che il commercio prendesse il sopravvento, che ha però permesso lo sviluppo di idee di pace e solidarietà. Qui la recensione completa scritta da Nonsolocinema.

100 Nights of Hero (Settimana della Critica), voto 7.5 Bizzarro incrocio tra Le mille e una notte The Handmaid's Tale, ma girato con il piglio di Emerald Fennell: Julia Jackman, all'esordio alla regia, crea un'intera mitologia per un mondo che è diverso dal nostro eppure simile, in cui gli dei influenzano la vita degli essere umani e creano la religione come strumento di oppressione femminile. Il risultato è una divertente fiaba distopica sul potere delle storie e della conoscenza come fonte di libertà ed emancipazione, femminile ma non solo, con un bellissimo finale.

Chien 51 (Fuori Concorso), voto 6. In un futuro prossimo, Parigi è divisa in zone, e l'intelligenza artificiale Alma aiuta la polizia a risolvere e prevenire i crimini. L'omicidio del creatore di Alma e la successiva indagine, tuttavia, rivelano che qualcosa è fuori posto. Un noir distopico molto classico realizzato molto bene a livello tecnico, anche se avrebbe beneficiato da una maggiore attenzione alla sceneggiatura, a tratti molto prevedibile. La tematica, tuttavia, è rilevante, e purtroppo non troppo distante dalla realtà.

Pier

giovedì 4 settembre 2025

Telegrammi da Venezia 2025 - #6

Sesto telegramma da Venezia, tra bambine lasciate a se stesse, malavitosi con ambizioni letterarie, regine del cotone, donne che lottano con i debiti, e guerriglie urbane.


Nühai - Girl (Concorso), voto 6. Il racconto dell'infanzia tormentata di una bambina taiwanese, ignorata dai genitori, che trova se stessa nell'amicizia con una coetanea, anche se il dolore dell'abbandono, una volta subito, non scompare, ma scava dentro. L'attrice cinese Shu Qi firma un buon esordio alla regia, che non brilla per originalità ma tocca le corde emotive giuste, con alcuni momenti nella natura molto lirici.

Ammazzare Stanca (Spotlight), voto 6. Una storia di mafia poco convenzionale, ambientata al Nord, con un figlio di boss pentito che vuole cambiare vita diventando uno scrittore. Daniele Vicari racconta la storia con un buon mix di divertimento e tensione. Ottima prova corale del cast.

Cotton Queen (Settimana della Critica), voto 9. Un'adolescente si trova a lottare contro i tentativi stranieri di strappare al suo villaggio il controllo del commercio del cotone. Un film che parla di politica senza essere politico, affrontando la tensione tra tradizione e desiderio di modernità in Sudan attraverso una moltiplicazione delle prospettive che nasconde, fino all'ultimo, quale sia la verità.

Vainilla (Giornate degli Autori), voto 6.5. Racconto corale di una famiglia messicana tutta al femminile che lotta per non soccombere ai debiti, visto dagli occhi della bambina di casa, la cui interpretazione dà luce e vita al film.

Notte a Caracas (Spotlight), voto 7. Caracas, 2017. Una donna si trova intrappolata in casa mentre in strada impazza la guerriglia, il cui suono domina la scena. Un racconto storico efficace e teso, che attraverso una storia personale fa comprendere quale fosse la situazione sociopolitica in Venezuela in quegli anni.

Simone

mercoledì 3 settembre 2025

Telegrammi da Venezia 2025 - #5

Quinto telegramma da Venezia, tra adattamenti sontuosi ma forse evitabili, thriller politici e apocalittici, manoscritti di valore inestimabile, dive annacquate, e la voce di un genocidio.


Lo Straniero (Concorso), voto 6. Ozon realizza un adattamento del romanzo di Camus visivamente sontuoso, con un bianco e nero a contrasti forti che evidenzia lo straniamento del protagonista, la sua mancanza di interessi, di valori, di morale. Ciò che manca, tuttavia, è la capacità di adattamento: il romanzo viene trasposto quasi letteralmente, ma ciò che su carta è efficace e poetico risulta artificioso e retorico su pellicola. Già Luchino Visconti si era cimentato con Lo straniero nel 1967, un adattamento considerato poco riuscito: Morando Morandini accusò il film di aver rincorso "inutilmente una fedeltà illustrativa alla lettera di Camus, impotente a ricrearne lo spirito." Questo commento è ancora più vero per il film di Ozon, che dura quindici minuti in più di quello di Visconti (e si sentono tutti), due ore di durata per un libro di poco più di cento pagine (nell'edizione italiana). Il regista francese si perde in un letteralismo ancora più esasperato, e si salva, come detto, solo grazie al comparto visivo e agli attori, tutti ottimi. 
Non è abitudine di questo blog mettere in discussione la decisione di un regista di trattare un determinato argomento: solitamente ne prendiamo atto e ci limitiamo a valutare se l'obiettivo che il regista si prefiggeva sia stato o meno raggiunto. Viene però da chiedersi se il capolavoro di Camus sia adattabile al cinema, visto il doppio fallimento di due maestri, o se la sua forza risieda in una poesia e filosofia che al cinema sono difficili da trasporre.

A House of Dynamite (Concorso), voto 7. L'inizio del thriller politico di Kathryn Bigelow è fulminante: scene che si interconnettono, funzionari governativi, politici, e militari che realizzano che un missile nucleare di origine sconosciuta sta per colpire gli Stati Uniti, e cercano disperatamente di impedirlo. Esistono protocolli, procedure, ma non sono attrezzati per la realtà, non tengono conto delle reazioni umane, troppo umane, di chi dovrebbe implementarli. Bigelow si muove tra i vari uffici con un ritmo e un piglio degno di The West Wing, e la tensione è altissima, così come la sensazione di ineluttabilità. Poi, però, tutto si resetta, e non per una, ma per ben due volte: i punti di vista si moltiplicano, ma raccontano sempre gli stessi minuti, gli stessi identici eventi, semplicemente da punti di vista diversi. Con la ripetizione, la tensione, inevitabilmente, cala, soprattutto nel secondo atto, quello forse più facilmente eliminabile. Risale un po' nel terzo, anche grazie al focus sul presidente (un ottimo Idris Elba), ma è troppo tardi. Un vero peccato per un thriller apocalittico che sembra avere la forza di una profezia, sperando che Bigelow sia falsa profeta e non Cassandra. Finale sospeso e coraggiosissimo, ma in parte depotenziato da una scelta fatta nel primo atto.

In The Hand of Dante (Fuori Concorso), voto 4. L'unico aggettivo che si può utilizzare per questo film è "inspiegabile": inspiegabile che un maestro come Julian Schnabel abbia deciso di realizzare un lavoro così arzigogolato, con due piani narrativi connessi solo alla lontana e una tensione praticamente assente; ancora più inspiegabile che lo abbia realizzato in modo così retorico e verboso, con scene che sfociano direttamente nel ridicolo involontario, soprattutto nel finale. Peccato perché qualche spunto interessante, soprattutto nella storia ambientata nel presente (i gangster che danno la caccia alla copia autografa della Divina Commedia), c'era: ma il resto è una catabasi che non esce mai a riveder le stelle.

Duse (Concorso), voto 5. Un film su Eleonora Duse, la Divina del teatro italiano, un'attrice carismatica, dal carattere dirompente, nasce e muore con la sua interprete. Se si vuole raccontare la Duse, una donna in anticipo sui tempi, in grado di tenere testa e rubare il cuore a Gabriele D'Annunzio, che non ebbe paura di sfidare e distruggere le convenzioni, non ci si può permettersi di sbagliare il casting dell'attrice principale. Purtroppo questo è ciò che succede nel film del solitamente bravo Pietro Marcello: Valeria Bruni Tedeschi, non sappiamo se per scarsa attitudine, indicazioni registiche, o ambedue, dà vita a una Duse anonima, una vecchietta svampita tutta sorrisi e moine che scompare in scena quando dovrebbe dominarla (emblematiche in tal senso le scene con D'Annunzio e Sarah Bernhardt, epigona francese della Duse, talmente dominate dalle due controparti che ci si dimentica della presenza dell'attrice italiana), e che non restituisce alcunché della grandezza teatrale della Duse, che rivoluzionò il modo di stare sul palco e preparare un personaggio. Anche la sceneggiatura non ingrana, azzoppata da una retorica eccessiva che funziona quando viene messa in bocca a D'Annunzio e ai teatranti, ma risulta stucchevole e fuori posto quando viene ripetuta anche per personaggi "quotidiani" come la figlia e l'assistente della Duse. Fotografia e regia sono ottime, e anche il tentativo di parlare dell'orrore della guerra e della medicina sperata (l'arte, il teatro) da Duse e D'Annunzio, rispetto a quella realmente arrivata (l'olio di ricino del fascismo) è interessante: ma il film è come un'automobile senza ruote.

The Voice of Hind Rajab (Concorso), voto 9. La storia vera di Hind Rajab, bambina palestinese sopravvissuta a un attacco israeliano, e del tentativo di salvarla da parte della Mezzaluna Rossa, viene raccontata con una commisione di audio reali e scene ricostruite. Un film devastante per impatto emotivo, che deve la sua forza alla vicenda narrata ma anche alla sapienza della confezione filmica. Il film è, ovviamente, molto attuale, ma è al tempo stesso universale: perché in ogni guerra, in ogni persecuzione fatta solo per etnia e nazionalità, c'è sempre una bambina che rimane sola e cerca disperatamente aiuto, e c'è sempre chi cercherà di portarglielo nonostante tutte le difficoltà. Qui trovate la recensione estesa scritta per Nonsolocinema.

Pier

martedì 2 settembre 2025

Telegrammi da Venezia 2025 - #4

Quarto telegramma da Venezia, tra eminenze grigie con la passione per il teatro, lottatori in crisi, sequestratori con cui empatizzare, ed esperimenti che meritavano miglior sorte.


Il Mago del Cremlino (Concorso), voto 8. Come si distrugge la verità? La ricetta non è la magia, anche se il titolo sembra suggerirlo, ma una profonda conoscenza della psiche umana e dei trucchi con cui si può ingannarla. A partire dall'omonimo romanzo di Giuliano da Empoli, Assayas confeziona un thriller politico che racconta la caduta del Muro e l'ascesa di Vladimir Putin attraverso un dialogo/confessione tra un giornalista e Vadim Baranov, ispirato a Vladislav Surkov, eminenza grigia di Putin. Baranov ha un passato da teatrante, e sa leggere, comprendere, e manipolare le emozioni: non basta altro. Sceneggiatura stellare (con la collaborazione, e si vede, di Emmanuel Carrère), e cast perfetto, da Jude Law/Putin a Jeffrey Wright nei panni del giornalista, passando per Alicia Vikander. A brillare più di tutti è però Paul Dano, che dopo Il Petroliere torna a essere il volto innocente e seducente del Male, un sorriso disarmante che repelle e conquista allo stesso tempo.

The Smashing Machine (Concorso), voto 7.5. Benny Safdie racconta la storia vera di Mark Kerr, lottatore di arti marziali miste, cui Dwayne Johnson presta volto e corpo, raccontandone la forza fisica e la fragilità emotiva. Un solido film sportivo, fotografato con taglio semi-documentaristico, che ha il pregio di non raccontare una classica parabola di caduta-redenzione-rinascita, pur tratteggiandola di sottofondo (con la centralità data alle vicende di Mark Coleman, amico e collega di Kerr) come elemento di contrasto all'evoluzione meno convenzionale della vita di Kerr. Il risultato è un film che non brilla per originalità, ma funziona a livello narrativo ed emotivo, con una morale non scontata.

Dead Man's Wire (Fuori Concorso), voto 8. Gus Van Sant torna alla regia dopo sette anni e lo fa con una commedia-thriller tratta da una storia vera, in un'operazione che ricorda quella operata da Richard Linklater (regista tematicamente simile a Van Sant, e come lui solitamente lontano da questo genere) con Hitman, presentato due anni fa proprio a Venezia. Il film racconta l'assurda storia vera del sequestro del banchiere Richard Hall da parte di Tony Kiritsis. Raccontato con la giusta dose di humor nero, Dead Man's Wire è un'attenta esplorazione della psiche umana e di quanto poco basti per far "impazzire" un uomo probo e onesto. Van Sant esibisce una chiara e sacrosanta favorevolezza alle posizioni di Kiritsis (un ottimo Bill Skarsgard), perfetto esempio del "piccolo uomo" truffato dalle grandi banche e dal sistema capitalistico in generale, realizzando un film che diverte ma porta anche avanti una forte posizione politica, soprattutto di questi tempi.

Orfeo (Fuori Concorso), voto 5. Un voto di stima, perché questo pastiche di live action e animazione realizzato da Virgilio Villoresi con sguardo e fotografia espressionista ha intuizioni visive notevoli e stimolanti. Tuttavia, la trama è un guazzabuglio senza capo né coda, frutto di un adattamento pedissequo dell'opera omonima di Buzzati, che avrebbe richiesto maggior riflessione per essere resa in modo efficace su un altro medium. Non brilla nemmeno il cast (con l'eccezione di Vinicio Marchioni), che sembra essere stato scelto da un cinofilo, anziché da un cinefilo.

Pier