Una donna di potere trova soddisfazione sessuale in un rapporto di sottomissione con un giovane stagista: il tema è potenzialmente interessante e iper attuale. Si parla di potere - implicito ed esplicito - e della legittimità di avere una relazione con chi si trova in posizione di inferiorità dal punto di vista della gerarchia, il tutto condito con il ribaltamento dei ruoli nella camera da letto (d'albergo), un'idea intelligente che potrebbe stimolare riflessioni sui rapporti di genere, sulla libertà sessuale, sulla sessualità nell'età matura, e sulla naturale diversità di gusti e preferenze.
Potrebbe, appunto, se non fosse declinato con desolante banalità e un approccio appena più autoriale (soprattutto grazie a un cast di caratura nettamente superiore) di un Cinquanta sfumature di grigio. A questo si aggiunge il fatto che la superficialità di trattazione fa sì che il film possa facilmente letto come una difesa degli abusi di potere operati dagli uomini in nome di un qualunquista "sono tutti uguali, è il potere a corrompere" - problema, questo, che aveva già parzialmente danneggiato un altro film sulla leadership al femminile, Tàr.
Babygirl risulta quindi pruriginoso ma di scarso impatto emotivo e tematico, nonostante la buona e coraggiosa prova dei protagonisti (Kidman in testa, nonostante il botox che ne limita l'espressività) e una buona dose di autoironia (anche sul botox stesso) che però non evita alcuni momenti davvero imbarazzanti.
Manitas del Monte, boss di un potente cartello messicano, ha deciso di cambiare radicalmente vita, e abbracciare il genere cui sente di appartenere: vuole affrontare l'operazione per diventare donna. Per realizzare questo suo desiderio, fa rapire Rita Moro Castro, brillante avvocatessa, affinché organizzi la sua sparizione e la sua nuova vita. Tutto va per il meglio, e Manitas diventa Emilia. Dopo qualche anno, tuttavia, le strade di Emilia e Rita si incrociano nuovamente, e la vicenda, inevitabilmente, si complica.
Emilia Pérez è un film sul cambiamento, sulla trasformazione, sul trovare e ritrovare un'identità - sessuale, ma anche famigliare, professionale, sociale. Audiard abbraccia questa tematica anche a livello metanarrativo, realizzando un film cangiante, multiforme, che si muove tra generi (musical, thriller, romantico) e stili con una libertà invigorente e creativa.
Per gran parte del film, questa scelta paga: la narrazione muta, si trasforma, sorprende, supportata anche da una regia inventiva e da una fotografia capace di alternare colori saturati a scene buie e cupe, campi larghi che abbracciano coreografie elaborate e primissimi piani che catturano confessioni emozionanti. Lo spettatore non sa mai dove si andrà a parare, e la sua attenzione è dunque completamente catturata dallo spettacolo messo in scena da regista e attrici, con Zoe Saldana alla miglior prova in carriera e Karla Sofía Gascón che mette corpo e anima nella parte, risultando il cuore emotivo del film.
Anche le musiche contribuiscono a questo risultato. Le canzoni, composte dalla cantautrice francese Camille, sembrano aver imparato la lezione di Lil-Manuel Miranda ibridandola con quella di Stephen Sondheim. Le melodie uniscono tonalità da musical tradizionale a rap e hip-hop, e si fondono al parlato. Iniziano, ma non finiscono, integrandosi con la trama e i dialoghi in maniera più "sporca" ma anche più naturale, replicando così a livello sonoro la natura ibrida della narrazione.
Tuttavia, alla lungo il gioco comincia a mostrare la corda, cadendo preda della "sindrome di Balto": a furia di cercare di essere sempre qualcosa di diverso, finisce per sapere solo quello che non è. La trama si sfilaccia, e prende direzioni poco ispirate o veri e propri vicoli ciechi che non aggiungo nulla alla vicenda. L'emozione si perde, e si finisce per guardare ai personaggi come pedine mosse per far avanzare la trama, e non come persone guidate da sentimenti ed emozioni (ne ha ben parlato Richard Brody nella sua recensione per il New Yorker). Lo stesso problema, per fare un esempio recente, lo aveva esibito anche Damien Chazelle con Babylon, altro film ambiziosissimo, che ibrida generi, linguaggi, toni con creatività e coraggio ma finisce per perdersi a livello narrativo ed emotivo.
Questo è vero soprattutto nei momenti che dovrebbero essere più emotivi, e in particolare nel finale, derivativo a livello visivo (Audiard per l'assedio notturno guarda al Villeneuve di Sicario, ma forse avrebbe potuto trovare qualcosa di più originale come fece nel bellissimo duello de I fratelli Sisters) e poco efficace a livello emotivo.
Emilia Pérez resta comunque un film ad alto impatto creativo, capace di divertire e intrattenere senza rinunciare alla sua ambizione artistica, e dimostra ancora una volta come Jacques Audiard sia uno dei cineasti più ispirati e non convenzionali del panorama europeo. Per usare una metafora, è un film che sembra confezionato dal sarto per avere successo nella awards season - più che un sarto, un grande stilista: attento all'estetica, alla forma creativa, al sorprendere il pubblico, ma poco attento alla funzionalità narrativa ed emotiva.
*** 1/2
Pier
PS: Non entrerò nella polemica sulla rappresentazione stereotipata delle persone transessuali e del Messico, o in quella sugli accenti che, a sentire i messicani, sono l'equivalente di quelli italiani di Lady Gaga & co in Gucci: se vi interessa leggerne, qui trovate un buon riassunto e delle fonti. Personalmente ritengo di non avere gli strumenti e le competenze per affrontare questi argomenti, e posso solo limitarmi a evidenziare che l'accento di Selena Gomez è parso posticcio anche a un orecchio poco allenato come il mio.
Ci sono film che funzionano anche se non dovrebbero. Film i cui ingredienti, se declinati individualmente, sembrano un pastrocchio senza senso o un'assurdità totale, ma che una volta amalgamati regalano invece una pietanza gustosa. L'esempio più famoso è Alien, concepito e presentato ai produttori come "Lo squalo, ma nello spazio": un'assurdità, che però ci ha regalato uno dei film più iconici della storia del cinema.
Better Man è uno di questi film. Sfido chiunque a sentire "musical biografico su Robbie Williams dove però il protagonista è una scimmia e si parla moltissimo del suo rapporto con il padre" e pensare che questo sarebbe stato un film divertente, commovente, creativo, indimenticabile. Parafrasando la famosa (e falsa) frase sul volo del bombo "La struttura narrativa di Better Man non è adatta a essere un bel film, ma lui non lo sa e funziona lo stesso". Una frase che potrebbe applicarsi anche al protagonista: Robbie Williams non ha particolare talento, o quantomeno nessuno sembra riconoscerglielo. Né la sua famiglia, né il creatore dei Take That, né i suoi compagni della boy band che si fece fenomeno planetario: eppure Williams diventa uno dei cantanti di maggior successo della sua generazione, capace di fare concerti da 125mila persone, innumerevoli dischi di platino e hit al numero uno in diversi paesi. Un successo inframmezzato da numerose cadute, con dipendenze sviluppate in tenerissima età da alcol e droghe, depressione, e altri disturbi.
Fin qui, tutto ci porterebbe nella direzione di tanti classici biopic musicali, da Bohemian Rhapsodya Quando l'amore brucia l'anima. Qui però entra in gioco Michael Gracey, già regista di The Greatest Showman, che ha tre intuizioni - due ottime, e una follemente geniale - che elevano il film oltre la media del genere e lo rendono unico. La prima intuizione è quella di seguire la strada di Rocketman, trasformando il biopic in un vero e proprio musical. Gracey osa ancora di più del suo predecessore, mettendo in scena coreografie ardite (il ballo sfrenato con finto ma efficacissimo piano sequenza su Rock DJ nel bel mezzo di Regent Street - qui una breve preview), visionarie (il combattimento in stile fantasy sulle note di Let me entertain you durante il concerto a Knebworth) e commoventi (la scena sulle note di Feel, in cui sfido anche il cuore più freddo a rimanere insensibile, e la coreografia in perfetto stile Rogers-Astaire su She's the one).
La seconda intuizione è quella di abbandonare i toni da agiografia che solitamente caratterizzano queste operazioni. Certo, la struttura rimane quella classica di successo-crollo-ritorno dagli inferi - forse l'unico elemento poco originale del film, ma d'altronde la storia di Williams è quella. Tuttavia, il film mette in scena in modo forte, straziante e senza sconti tutti i momenti peggiori di Williams, non indugiando solo su quelli più pruriginosi (droghe, alcol) ma anche sui lati più oscuri della depressione, con l'autosabotaggio e l'allontanamento sistematico di tutte le persone care, che vengono ferite gratuitamente o dimenticate. In questo è fondamentale anche la collaborazione di Williams, che storicamente ha sempre discusso in pubblico in modo molto aperto i suoi problemi, e qui si presta non solo a mettersi a nudo, ma anche a essere la voce narrante.
La terza intuizione - la più folle, la più geniale, la più importante - è quella di far interpretare Robbie Williams, sex symbol planetario all'apice del suo successo, da uno scimpanzé in computer grafica. La scelta è paradossalmente ciò che permette al film di essere più autentico e "grezzo", eliminando dall'equazione il classico gioco delle somiglianze tra interprete ed interpretato e permettendo allo spettatore di concentrarsi sulla vicenda narrata e sull'ottovolante emotivo della vita di Williams e del suo rapporto con il padre. L'espressività dello scimpanzé (dietro cui c'è l'attore Jonno Davies) è impressionante, e vi ritroverete a commuovervi per degli occhi sempre solcati dalla tristezza, e a ridere sguiatamente per le sue espressioni ammiccanti e cialtrone, ricalcate alla perfezione su quelle di Williams.
Better Man è un film "scimmiante", che sprigiona energia, vibrazioni, emozioni di ogni tipo: si ride, si piange, ci si carica come se si fosse presenti ai concerti, al punto di essere più volti tentati dal cantare a squarciagola le canzoni, anche quando non si sanno le parole. È un film anarchico e geniale, che si muove sempre sull'orlo del precipizio del "ma cosa diamine sto guardando" ma ne esce sempre trionfatore, con un occhiolino soddisfatto rivolto allo spettatore che non può far altro che lasciarsi travolgere e trasportare. Una bella sorpresa.
Dracula è il personaggio più esplorato dalla cinematografia mondiale. Di tutte le innumerevoli versioni, tuttavia, solo tre hanno finora segnato la storia del cinema: una "ufficiale", quella di Francis Ford Coppola, e due spurie, i Nosferatu di Murnau (1922) e Herzog (1979). Quello di Murnau, con i nomi cambiati per aggirare il diritto d'autore, è diventato talmente iconico da meritarsi prima il remake di Herzog, e oggi quello di Eggers: è una decisione cinefila, ma anche stilistica, molto in linea con la cinematografia del regista newyorkese.
Se il Dracula di Coppola privilegiava infatti l'aspetto romantico dell'opera di Bram Stoker, sia a livello narrativo che estetico, con costumi e fotografia estremamente barocche e teatrali, Eggers sceglie di concentrarsi sull'aspetto più orrorifico, come Murnau ed Herzog prima di lui, esaltando però ulteriormente l'elemento di folklore del mito del vampiro: le sue origini popolari come spiegazioni della pestilenza, e la ritualità est-europea nel cercare di affrontarlo.
Eggers non è interessato alla natura romantica e maledetta del vampiro, ma a quella malefica. Il vampiro è la morte e la sua negazione, un abominio che sovverte le leggi naturali che pensiamo di conoscere e fa a pezzi le fragili certezze della scienza. È il Male incarnato, e Eggers vuole esplorarne le origini o, meglio, come si infiltra nel mondo, nella nostra vita di tutti i giorni. Il film si presta a vari livelli di lettura, dal racconto metaforico della depressione alla rivisitazione del peccato originale.
Spicca però un messaggio politico-sociale, racchiuso nelle parole di Von Franz/Van Helsing: bisogna conoscere l'oscurità per poterla combattere. Così come la Germania iper-razionalista e scientifica si trova più impreparata dei superstiziosi contadini dei Carpazi nel combattere il vampiro, così le idee più tossiche trovano terreno fertile in società democratiche, che dopo decenni senza guerre si sono illuse che il Male non le toccherà mai più, che le barbarie della guerra e delle dittature siano ricordi lontani e sopiti. È successo negli anni Trenta, e sta succedendo ancora ora: il sonno della ragione genera mostri, ma la fede cieca nella ragione è solo un'altra forma di fanatismo, che ci rende ciechi e imbelli di fronte ai mostri che già esistono.
Questi mostri vengono evocati da persone fragili, ai margini di una società che li tratta come pazzi o isterici; persone che, per disperazione e solitudine, sono disposte ad accogliere qualunque cosa le faccia sentire meno sole, meno incomprese, meno inutili. Il personaggio di Ellen, interpretato in maniera ipnotica da Lily-Rose Depp, rappresenta la "porta di ingresso" di chi riporta il Male nella società, anche senza volerlo (Eggers è bravissimo a non rendere Ellen una colpevole, ma una vittima che decide di reagire).
La ricchezza tematica del film non è tuttavia supportata da una lettura profonda e nuova degli iconici personaggi e delle loro vicende. Eggers osserva i suoi protagonisti con sguardo da scienzato, da entomologo, freddo e distante, e non dà alcuna lettura sanguigna e creativa del mito del vampiro, come se avesse avuto paura di "contaminare" il suo esperimento portando una sua visione personale. Manca anche qualcosa che trasformi le sofferenze dei personaggi, e in particolare della protagonista Ellen, in un qualcosa di vero, autentico, che crei empatia nello spettatore - quel qualcosa che invece era riuscito benissimo a Eggers in The Northman. A questo contribuisce anche la scelta di dare a Orlok un accento molto marcato, scelta che finisce per "allontanare" ulteriormente lo spettatore. Tenere così lontano lo spettatore a livello emotivo rischia di far percepire il tutto come un esercizio di stile, depotenziando anche il messaggio che il film vorrebbe veicolare.
A livello visivo il film è una gioia per gli occhi. Eggers riprende l'estetica espressionista, fatta di ombre e oscurità, e la accompagna con la sua passione per la fotografia in luce naturale, alternando momenti di oscurità tangibile, viscerale e primordiale (la scena nella locanda) ad altri più alienanti, onirici e allucinati, con colori talmente desaturati da richiamare il bianco e nero dell'opera di Murnau (la scena dell'arrivo nel castello di Orlok. L'orrore è più suggerito che mostrato, e anche le poche scene granguignolesche servono a esaltare l'asetticità dei momenti chiave, in cui l'ombra striscia nelle case e violenta le menti prima ancora che i corpi.
Nosferatu non è il film più riuscito di Eggers, ma è senza dubbio quello più ambizioso a livello stilistico e tematico, un confronto con i grandi del passato da cui Eggers esce, se non vincitore, quantomeno non sconfitto, rileggendo il mito del vampiro per i nostri tempi cupi, in cui il Male è ovunque e l'oscurità incombe e minaccia di spegnere ogni luce. È un film che parla alla testa e, a tratti, alle viscere, ma non al cuore - e il cuore è quel che manca per avvincere davvero lo spettatore e rimanere saldo nel suo immaginario e nei suoi ricordi: per essere, insomma, un vero capolavoro.
La storia delle "case Magdalene" (per chi non sapesse cosa sono, ecco un agile riassunto) è già stata raccontata al cinema da ottimi film come Magdalene (vincitore del Leone d'Oro nel 2002)e Philomena (qui la nostra recensione). Tuttavia, questi film si concentravano sulla vita nelle case e sulle conseguenze per le vittime, senza indagare il sostrato sociale che aveva permesso la sopravvivenza di queste case di semi-schiavitù e tortura fino ai primi anni 2000.
Piccole cose come queste, trasposizione dell'omonimo romanzo di Claire Keegan, prende la prospettiva di Bill, commerciante di carbone che scopre cosa accade davvero alle ragazze ospitate in quelle case. Il film ruota intorno al dilemma etico che lo attanaglia: fare qualcosa, rischiando così di alienarsi il favore delle potentissime suore, o tacere, e vivere con questo peso sulla coscienza? Il film illustra benissimo le cause sistemiche del proliferare di queste case, con le suore che controllano non solo la vita spirituale del paese, ma anche la sua istruzione e persino la sua prosperità economica.
Il regista Tim Mielants gira la vicenda con un taglio claustrofobico da thriller o da horror, utilizzando inquadrature molto strette (spesso sul viso di Cillian Murphy, semplicemente strepitoso in un ruolo che vive di silenzi e sguardi) e una fotografia cupa, con colori desaturati e ricca di ombre inquietanti che strisciano nella vita del protagonista. La scena in cui Bill incontra Suor Mary ricorda quella nello scantinato di Zodiac per tensione e desiderio di vedere il protagonista fuggire il prima possibile dalla tana del mostro, che pare pronto a divorarlo.
Piccole cose come queste è un film di denuncia sull'omertà sociale, e sul peso etico che chi sapeva si trova a sopportare senza però riuscire a fare la cosa giusta. In questo è un film tremendamente attuale, in quanto racconta l'umana capacità di ignorare gli orrori che avvengono a pochi passi da noi pur di continuare con la nostra vita di sempre: un Male che avviene per omissione, non per azione, ma non per questo meno distruttivo per chi lo subisce. Il finale, potentissimo nella sua semplicità, non dà risposte certe, ma insinua un dubbio: che accendere almeno una piccola luce in mezzo alle tenebre che ci circondano non sia inutile, come spesso pensiamo, ma può essere la scintilla che fa divampare la speranza.