mercoledì 23 aprile 2025

I Peccatori

Il silenzio là fuori


1932, Clarksdale, Mississippi. I due gemelli Smoke e Stack tornano a casa dopo essere stati in trincea e aver lavorato per la malavita di Chicago. Vogliono aprire un juke joint, un locale dove anche gli afroamericani liberati ma ancora vittime della segregazione possano divertirsi. Per farlo, assoldano il cugino Sammie, musicista prodigioso, e altri amici della comunità locale. La sera dell'inaugurazione, però, si presentano tre bianchi, ospiti inattesi.

Ryan Coogler ha un senso innato per l'intrattenimento impegnato. Da Black panther alla serie di Creed, Coogler ha dimostrato un'abilità molto rara: quella di creare film divertenti, intrattenenti, di genere, ma in grado anche di parlare di tematiche importanti come giustizia sociale e appropriazione culturale.
Non ci sarebbe dunque da sorprendersi per il fatto che ne I peccatori riesca a replicare questa operazione. Ciononostante, alla fine del film si rimane con la sensazione di aver assistito a un mezzo miracolo.

Perché in I peccatori Coogler non si limita ad amalgamare ingredienti complessi, ricavandone un risultato efficace e armonic: qui mischia mitologie, suggestioni, generi con una creatività impareggiabile, ricavando una miscela cangiante, originale, che sembra sempre sul punto di bruciare e invece inebria, seduce, fino a esplodere trionfalmente.

Il primo atto è uno spaccato sociologico della vita degli afroamericani durante il periodo delle leggi Jim Crow e della segregazione. Siamo nel cuore della terra del blues, ma ai bianchi il blues piace, chi lo suona no, come ricorda uno dei personaggi. Quello che vediamo non è però solo la storia di una discriminazione strisciante, meno esibita ma comunque presente e terribilmente viva, ma quella di una comunità - con i suoi luoghi, i suoi riti, le sue tradizioni. Coogler si prende il suo tempo per presentarcela, ed è una scelta vincente, perché a questi personaggi ci si affeziona, e si capisce cosa hanno da perdere e da guadagnare.

Poi lo scenario, improvvisamente, cambia. Dai campi aperti e le strade ariose passiamo in un interno, il juke joint creato da Smoke e Stack. Non è l'unico cambiamento. Hans Christian Andersen diceva che quando le parole vengono meno, è la musica a parlare. E proprio così accade nel secondo atto de I peccatori: le parole cessano, e comincia la musica. Una musica magica, evocativa, che apre la porta a fantasmi, antenati, e incubi; una musica che risveglia passioni, che non lascia indifferenti; una musica che crea comunità, e - per dirla con Johann Sebastian Bach - aiuta a non sentire il silenzio là fuori, dove quella comunità è discriminata, isolata, perseguitata. 


Fuori, appunto. Per qualche attimo, il fuori cessa di esistere - sia per i protagonisti che per gli spettatori, ma non scompare. Rimane lì, in agguato, una notte oscura e piena di terrore. Siamo al terzo atto, in cui Coogler opera un'inversione a U degna di quella di Parasite o, per rimanere nel genere vampiresco, di Dal tramonto all'alba, trascinandoci all'inferno, e sfruttando la metafora del vampirismo nella sua doppia accezione.

Da una parte il vampirismo come metafora della discriminazione, del rigetto sociale, della marginalizzazione: non è un caso che i popoli la cui musica è in grado di risvegliare anime e demoni siano tre popoli storicamente vittime di oppressione (irlandesi, nativi americani, afroamericani), e che sia vista come uno strumento che permette di mantenere la propria identità, strappata da anni di schiavitù e prevaricazioni. Questa faccia del vampirismo si estrinseca alla perfezione nella scena del sabba celtico, in cui il leader dei vampiri, Remmick, li guida in una danza ipnotica e festosa che invoca la solidarietà, l'uguaglianza, e la fine di ogni oppressione.

Ma è solo un incantesimo, un'illusione, perché dall'altra parte ci attende l'altra accezione del vampirismo, metafora dell'appropriazione (e del capitalismo), di chi succhia l'anima e la vita di altri per sopravvivere. Remmick e i suoi sodali non vogliono solo ascoltare la musica di Sammie; vogliono appropriarsene, farla loro, fagocitarla, in una perfetta rappresentazione di come la musica blues, nata da e con gli schiavi, sia stata assorbita, ingoiata, e reimpacchettata dall'industria, andando ad arricchire i soliti sospetti, e non la comunità da cui si era generata. Remmick è una sanguisuga che condanna all'eterna dannazione, alla stessa eterna insoddisfazione che lo divora. Il fatto che lui stesso sia stato oppresso non fa altro che confermare un vecchio adagio, ovvero che l'oppressione è come un virus, che viene trasmesso e perpetuato: chi è stato oppresso opprimerà qualcun altro, in un'eterna guerra tra poveri, un circolo vizioso che nessuno sembra riuscire a spezzare.


L'anima del film è la musica, un mix tra la colonna sonora originale composta da Ludwig Göransson e rielaborazioni di canzoni tradizionali, magistralmente interpretata dal cast, su tutti un Miles Canton all'esordio cinematografico, la cui voce obnubila i sensi per bellezza, calore e gioia dolente. Su tutte brilla la sua esecuzione di I lied to you, talmente convincente che sembra davvero spezzare le barriere di spazio e tempo, trasportando lo spettatore in un non luogo in cui ogni epoca è qui, ora, viva e danzante. 
Il corpo sono attori e attrici, che sembrano incanalare lo spirito divino come i musicisti e danzatori dell'antica Grecia, dando vita a personaggi di carne, sangue, desiderio. Detto di Canton, Michael B. Jordan fa ovviamente la parte del leone con un doppio ruolo in cui riesce a distinguere alla perfezione i due fratelli Stack e Smoke. Accanto a lui brillano soprattutto Hailee Steinfeld, una femme fatale decisamente sui generis, e Wunmi Mosaku, ex moglie di Smoke e maga Hoodoo, capace di declinare una strega, una madre, una combattente.

Coogler dirige il tutto con una fotografia avvolgente, con un ampio uso di piani sequenza sinuosi (qui una bella analisi di quello di I lied to you), che legano l'azione creando l'illusione di un sogno, soprattutto durante le scene di ballo e canto, e vengono spezzati dalle incursioni esterne, in un perfetto corrispettivo visivo dell'evoluzione narrativa del film. La gestione del ritmo è esemplare, con un crescendo che va a esplodere in un finale pulp che farebbe felice Tarantino, il più liberatorio dai tempi di Django Unchained

I peccatori è un film mercuriale, che cambia forma continuamente, unendo horror, musical, blackspoitation, dramma, commedia, e tanto altro. Parla di dannazione e redenzione, di musica che cura l'anima ma risveglia i sensi, di oppressione e ribellione. è un racconto epico, vibrante, potente, che brucia il cuore dello spettatore e lo trascina con sé in un viaggio pieno di meraviglia e orrore. 

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Pier

venerdì 18 aprile 2025

Love

Parlami d'amore

 

Che cos’è l’amore? Come indicato anche dal titolo è intorno a questa domanda che gira Love, mentre segue le vicende sentimentali di due impiegati dell’ospedali di Oslo – Marianne, un’urologa e Tor, un infermiere – che vivono con estrema naturalezza le proprie relazioni. Amore in tutte le sue forme, inclusa quella sessuale, con cui i due protagonisti hanno a che fare per lavoro: i loro pazienti sono spesso uomini che subiscono interventi per l’asportazione della prostata, con tutto quel che ne consegue.

Haugerud approccia la materia con un taglio lirico e molto umano, fatto di un’alternanza tra primi piani e paesaggi. I silenzi, frequenti, sono riempiti da dialoghi fiume e spesso filosofeggianti, il grande punto debole del film: se da un lato possono essere interessanti in piccole dosi, dall’altro la loro sovrabbondanza finisce per affogare i dialoghi più intimi, personali e significativi. Un pieno apprezzamento di queste discettazioni potrebbe essere possibile per chi avesse visto tutta la "trilogia delle relazioni", di cui Love è solo l'ultimo capitolo (i primi due, Sex e Dreams, sono stati presentati a Berlino, con il secondo che si è aggiudicato l'Orso d'oro nel 2025). Un film, tuttavia, dovrebbe reggersi sulle proprie gambe, e l'appartenenza a un mosaico più complesso non giustifica le mancanze narrative e di ritmo.

Il film soffre inoltre di uno sbilanciamento nell’interesse delle due vicende narrate. La storia di Marianne è già vista, non aggiunge di nuovo a quanto già detto sul tema della transitorietà dell’amore e della possibilità di amare più persone, peraltro anche da film presenti nel concorso veneziano in cui il film è stato originariamente presentato. (Trois Amies). Ancora più inutile la vicenda della terza amica, impegnata a pensare a un evento per celebrare il centenario della città – una vicenda che pare più uno spot della pro loco che parte integrante del film. Molto più interessante ed emozionante la storia di Tor, sia per la natura del personaggio – silenzioso, osservatore, con uno sguardo acuto e penetrante – sia per quella del paziente per il quale sviluppa un interesse sentimentale: un loro dialogo è il momento più bello, vivo e vibrante del film, e in generale loro sono ciò che spinge lo spettatore a continuare la visione. 

Love è un film di buona fattura che, nonostante qualche giro a vuoto, riesce a offrire alcuni momenti di riflessione e lirismo, grazie anche a un ottimo uso della luce, che dipinge momenti, persone, situazioni, stringendoli in un caldo abbraccio che li rende fortemente, irresistibilmente umani.

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Pier

Nota: parte di questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

lunedì 24 marzo 2025

La Città Proibita

L'urlo di Mainetti terrorizza anche l'occidente


Cina, anni Novanta. Mei è una secondogenita che non potrebbe esistere, vista la rigida politica del figlio unico in vigore nel paese. Vent'anni dopo, Mei si ritrova a Roma alla disperata ricerca della sorella Yun, sparita senza lasciare traccia. La sua caccia la porta a incrociare la sua strada con quella di Marcello, cuoco nel ristorante romano gestito da sua madre e di proprietà di suo padre, appena fuggito con un'altra donna.

Guardando La città proibita è impossibile non pensare al terzo (di quattro e mezzo) film con protagonista Bruce Lee, parafrasato nel titolo della recensione (The Way of the Dragon in inglese): Mainetti lo cita esplicitamente nell'ossatura: artista marziale cinese arriva a Roma e si scontra con la mafia locale a causa di un ristorante. L'omaggio (non l'unico ai kung fu movie presente nel film), tuttavia, rimane tale, e non si riduce a mera scopiazzatura. Mainetti dimostra infatti di aver bene imparato la lezione di Tarantino, e si muove alla perfezione tra citazionismo e originalità, confezionando un omaggio al cinema di genere che però ha una sua anima ben distinta, ottenuta grazie a un'ibridazione con la commedia drammatica italiana e la recente tendenza a esplorare la multietnicità delle città nostrane. 

Il risultato è un film sfaccettato e con molteplici livelli di lettura: La città proibita è un film di arti marziali, certo, ma è anche un film sul multiculturalismo, sul cambiamento - sia personale che sociale - e sulle difficoltà che questo cambiamento comporta; è un film sugli affetti familiari, vero cuore pulsante della trama, e su come possano essere al tempo stesso fondamentali per definire chi siamo e un legaccio che impedisce di crescere; è, infine, una storia d'amore sui generis, fatta dall'incontro di due solitudini che faticano a comunicare a parole e sanno esprimersi molto meglio con altri linguaggi (il combattimento per Mei, la cucina per Marcello).

La sfaccettatura del film non arriva, però, a discapito della coesione: Mainetti miscela gli ingredienti alla perfezione, realizzando una ricetta originale ma al tempo stesso familiare, un piatto esotico che però ricorda la cucina della nonna. Le scene di azione (girate splendidamente, si vede la mano di uno stunt coordinator esperto come Trayan Milenov-Troy) sono perfettamente integrate con quelle comiche e quelle da "dramma da tinello", peraltro rese molto meglio che nel 99% della produzione nostrana che ad esse dedica l'interezza della trama. L'integrazione delle diverse anime del film è un'impresa non da poco, con cui Mainetti dimostra di essere cresciuto come regista (pur mantenendo un curioso penchant per i malavitosi/villain che amano il canto): La città proibita è un film registicamente migliore e più ambizioso di Lo chiamavano Jeeg Robot, anche se forse gli mancano i picchi di genialità di quel film; e meno ambizioso ma più coeso di Freaks Out (che a parere di chi scrive rimane uno dei film migliori e più ingiustamente bistrattati dalla critica italiana degli ultimi anni).

Yaxi Liu, stunt-woman alla prima prova da attrice, porta non solo grande sapienza tecnica, ma anche un'inaspettata forza emotiva che dona energia e vitalità al film, e conferma la capacità di Mainetti di scovare semi-esordienti di talento dopo l'ottimo esordio di Aurora Giovinazzo in Freaks Out. Enrico Borello è la forza gentile del film, a volte forse troppo, ma la sua normalità serve a far risaltare un contorno del tutto delirante, da un boss cinese orgogliosissimo del figlio rapper che però non vuole avere a che fare con lui al piccolo faccendiere criminale/amico di famiglia interpretato da Marco Giallini, palesemente a suo agio nel ruolo del criminale un po' cialtrone incapace di accettare il cambiamento. Nessuna prova resterà memorabile come quelle di Luca Marinelli e di Franz Rogowski, ma tutti sono perfettamente funzionali alla riuscita del film. 

La città proibita è un film molto riuscito, che riesce anche a superare l'orrida etichetta di "kung fu all'amatriciana" e addirittura ad abbracciarla con orgoglio, omaggiando esplicitamente le sue radici ma distaccandosene per trovare la sua strada, esattamente come i suoi protagonisti. Un film in cui Mainetti si libera definitivamente dall'odiosa frase "per essere italiano", realizzando un kung fu movie che funziona, diverte, e ha respiro internazionale. Avercene.

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Pier

lunedì 17 marzo 2025

Captain America: Brave New World

Quando il trailer fa danni


Capitan America è morto, viva Capitan America. Dopo gli eventi narrati nella serie Falcon & The Winter Soldier, Sam Wilson (l'ex Falcon) è diventato Capitan America al posto del Steve Rodgers di Chris Evans. Tuttavia, al cambio di Capitano non corrisponde un cambio di genere: Brave New World è uno spy-thriller come i suoi predecessori (recensioni qui e qui) anche se l'etnia del suo protagonista aggiunge un ulteriore livello di lettura. 

La sfiducia degli afroamericani nei confronti dello Stato, dopo decenni di abusi (ben incarnati dal Capitan America "tradito" Isaiah Bradley) diventa infatti parte integrante della trama, che per il resto si dipana su note conosciute ma ben orchestrate: un complotto contro il Presidente, che ha una storia "tesa" con Capitan America; un intrigo internazionale intorno a una risorsa preziosissima (l'adamantio, che fa il suo ingresso ufficiale nel MCU); e un villain che fa della pianificazione, e non della forza, la sua principale virtù.

Il risultato è un film adrenalinico e ben orchestrato, meno efficace di Winter Soldier (che rimane però uno dei vertici della producione Marvel) ma più riuscito di Civil War, grazie anche a una cucitura con il resto dell'MCU ben fatta e quasi "invisibile" nonostante vada a ripescare due film che per epoca e successo di pubblico (il film su Hulk con Edward Norton e Gli Eterni) non erano facilissimi da reintegrare. Anthony Mackie non è Chris Evans, ma la sceneggiatura sopperisce al suo minor carisma affiancandogli un Harrison Ford che si mangia lo schermo e un villain affascinante e ben utilizzato. 

La capacità del film di intrattenere e generare suspence e stupore viene però azzoppata da un nemico interno: il trailer. Se non lo avete visto, non fatelo: vi godrete un colpo di scena ben scritto e sceneggiato, e verrete colti di sorpresa, come dovrebbe essere. Il trailer, tuttavia, è stato visto da milioni di persone - milioni di potenziali spettatori cui è stato rivelato un elemento di trama che avrebbe potuto elevare il film ai livelli di Winter Soldier, e invece lo condanna a esserne una copia efficace ma sbiadita. Possiamo solo ipotizzare le ragioni dietro a queste decisioni: il film era stato preso di mira dalla parte più tossica del fandom a causa del cambio di etnia di Cap; la Marvel temeva andasse male, e ha deciso di giocarsi la sua carta migliore nel trailer per attirare pubblico. Scelta commercialmente miope, perché sicuramente ha aumentato l'hype intorno al film, ma ha ridotto il potenziale da passaparola che poteva derivare dallo scoprire il colpo di scena in sala.

Captain America: Brave New World è una bella spy story, che ritorna alle radici del personaggio in modo efficace ma rimane vittima di un autosabotaggio, in un twist meta-narrativo che sarebbe quasi da studiare nella sua incredibile stolidezza. Quel che resta è un film che intrattiene, soprattutto nelle scene d'azione, e riesce ad avere qualche risvolto politico-sociale interessante, ma con un decimo della potenza che avrebbe potuto avere se gli studios si fossero fidati del suo potenziale.

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Pier

domenica 2 marzo 2025

Oscar 2025 - I pronostici

Questa notte, come ogni anno, gli occhi del mondo cinematografico si sposteranno sul Dolby Theatre di Los Angeles per la cerimonia di premiazione della novantatreesima edizione degli Academy Awards. 

Il 2024 è stato un altro ottimo anno cinematografico, nonostante l'assenza di "grandi nomi" registici (guardando ai nominati al miglior film, l'unico nome "forte" è quello di Denis Villeneuve). I favoriti sono usciti quasi in toto dai due festival maggiori, Cannes e Venezia, ma hanno anche, per la maggior parte, goduto dei favori del pubblico, portando a casa risultati sostanziosi al box office.

Chi vincerà, quindi? Difficile a dirsi. Salvo qualche premio, la sfida è quantomai incerta, anche a causa del ciclone mediatico che ha investito Emilia Pérezche per lungo tempo è sembrato il favorito, come riflesso anche dalle 13 nominations ottenute: uscito illeso dalle polemiche di messicani e comunità trans (bellamente ignorate dall'Academy in sede di nomination), è stato forse definitivamente affondato dalle dichiarazioni riemerse dal recente passato della sua protagonista Karla Sofia Gascòn, che a quanto pare riteneva giusto e comprensibile l'omicidio di un uomo inerme.

Ma non divaghiamo! Nonostante l'incertezza, di seguito trovate i pronostici, infallibili come sempre: correte in SNAI, e puntate sull'opposto di quanto scrivo. I film recensiti sul blog sono linkati ogni volta che vengono nominati.


Miglior montaggio
Un anno senza film "di montaggio", ovvero film ipercinetici o con montaggio molto visibile e "premiabile" (come ad esempio Mad Max: Fury Road). Possibile quindi che il premio vada a Sean Baker per Anora, più per inerzia che per reali meriti. La mia scelta ricade invece su Juliette Welfling per Emilia Pérez, film che ha mostrato dei virtuosismi di montaggio più interessanti di altri. Appena dietro, Dávid Jancsó per The Brutalist: un montaggio meno appariscente, ma comunque molto efficace e funzionale alla narrazione. 
Pronostico: Sean Baker, Anora

Scelta personale: Juliette Welfling, Emilia Pérez

Miglior fotografia
Un solo nome possibile: Lol Crawley per The Brutalist. Anche Jarin Blaschke meriterebbe per Nosferatu, ma il lavoro di Crawley (con un budget "basso" per la portata monumentale dell'opera) è indimenticabile, e arriva all'interno di un film generalmente più apprezzato dall'Academy. Menzione d'onore per Greig Fraser, sfortunatissimo direttore della fotografia di Dune - Parte 2. In un anno normale, la scena in bianco e nero basterebbe da sola per ritirare la statuetta senza passare dal via: ma questo non è un anno normale. Si rifarà.
Pronostico: Lol Crawley, The Brutalist
Scelta personale: Lol Crawley, The Brutalist

Miglior film d'animazione
Sezione iper competitiva. Flow - Un mondo da salvare, che purtroppo non ho ancora visto, sembra il favorito all'interno di una competizione che negli ultimi anni ha dimostrato di guardare con attenzione a ciò che succede fuori dagli Stati Uniti. La mia scelta personale ricade però su Inside Out 2, il raro sequel in grado di replicare ed espandere il successo artistico dell'originale.
Pronostico: Flow
Scelta personale: Inside Out 2

Miglior attore non protagonista
Una delle sezioni dall'esito più scontato, e non perché non ci siano ottimi candidati: ma Kieran Culkin ha vinto ogni premio possibile, e la sua performance in A Real Pain è caleidoscopica, divertente e straziante allo stesso tempo. Impossibile non premiarlo e impossibile non farsene conquistare.
Pronostico: Kieran Culkin, A Real Pain
Scelta personale:  Kieran Culkin, A Real Pain


Miglior attrice non protagonista
Anche qui sembra non esserci storia, con Zoe Saldana uscita indenne dalle polemiche intorno a Emilia Pérez e pronta a portarsi a casa una meritata statuetta. Per quanto sia un grande fan della sua performance (a mio parere è lei la vera protagonista del film), voglio usare la mia scelta personale per mettere in luce una performance sorprendente e passata molto in sordina, quella di Ariana Grande in Wicked: Parte 1.
Pronostico: Zoe Saldana, Emilia Pérez
Scelta personale: Ariana Grande, Wicked: Parte 1

Miglior sceneggiatura originale
Qui il chiarissimo favorito è Sean Baker per Anora, che però non posso in cuor mio premiare data la presenza di un grosso buco di sceneggiatura e una distonia non pienamente risolta tra le diverse anime del film. La mia scelta personale ricade quindi su Jesse Eisenberg per A Real Pain, bella riflessione sul dolore individuale e collettivo. Menzione speciale per Brady Corbet e Mona Fastvold per The Brutalistun film di cui non rimane impressa la sceneggiatura, ma che riesce a mantenere alte emozioni e attenzione per più di tre ore: non banale.
Pronostico: Sean Baker, Anora
Scelta personale: Jesse Eisenberg, A Real Pain

Miglior sceneggiatura non originale
Sezione molto competitiva, in cui è davvero difficile trovare un chiaro favorito. Avendo vinto i WGA (Writers Guild Awards), il pronostico ricade su RaMell Ross e Joslyn Barnes per I Ragazzi della Nickel, tratto dall'omonimo romanzo premio Pulitzer di Colson Whitehead. La mia scelta personale ricade invece su James Mangold e Jay Cocks per A Complete Unknown, un film classico e mercuriale allo stesso tempo, che continua a scartare di lato come il suo protagonista.
Pronostico: RaMell Ross e Joslyn Barnes, I Ragazzi della Nickel
Scelta personale: James Mangold e Jay Cocks, A Complete Unknown


Miglior attrice protagonista
Qui la favorita sembra essere Demi Moore per The Substance, la classica storia di rinascita di una carriera che a Hollywood piace premiare. La mia scelta personale ricade invece su Fernanda Torres, anima silenziosa ma estremamente eloquente di Io Sono Ancora Qui, forse la più bella sorpresa (non in termini di valore, ma in termini di riconoscimento crescente) di questa stagione dei premi.
Pronostico: Demi Moore, The Substance
Scelta personale: Fernanda Torres, Io Sono Ancora Qui

Miglior attore protagonista
Adrien Brody sembrava il favorito grazie alla sua performance eccezionale in The Brutalist. Sembrava, appunto, perché dal nulla ai SAG (Screen Actors Guild) Awards è comparso Timothée Chalamet che con il suo Bob Dylan di A Complete Unknown ha vinto il premio conferito dai suoi colleghi e ha rimesso tutto in discussione. Penso vincerà Brody, dato che l'Academy raramente premia i giovani. E su Brody ricade anche la mia scelta personale, anche se anche Chalamet meriterebbe la vittoria.
Pronostico: Adrien Brody, The Brutalist
Scelta personale: Adrien Brody, The Brutalist

Miglior regia
Se esistesse giustizia a questo mondo, questo premio sarebbe già assegnato a Brady Corbet fin dal debutto di The Brutalist alla Mostra del Cinema di Venezia. Ma dato che viviamo in un mondo ingiusto, fatto di colleghi invidiosi, questo premio finirà a Sean Baker per l'ottimo ma non memorabile lavoro fatto su Anora.
Pronostico: Sean Baker, Anora
Scelta personale: Brady Corbet, The Brutalist

"Raccontare un intero film con una sola immagine nei primi minuti": olio su tela, Brady Corbet

Miglior film
Qui i pronostici impazzano, e nessuno sa veramente come finirà. Si parla di Anora, ovviamente, ma anche di ConclaveA Complete Unknown e persino Io Sono Ancora Qui. L'incertezza, insomma, regna sovrana, e il sistema di voto dell'Academy per il miglior film (diverso da quello degli altri premi) tende a premiare il film meno polarizzante, quello che non ha necessariamente entusiasmato tutti ma ha scontentato meno persone possibili. Per questo credo che il thriller manicheo ma molto efficace di Conclave possa alla fine prevalere. La mia scelta personale ricade invece su The Brutalist, il miglior film della stagione cinematografica che si conclude questa notte.
Pronostico: Conclave
Scelta personale: The Brutalist

Che aspettate? Correte in sala scommesse!

Pier

A Real Pain

Raccontare il dolore


Ci sono storie apparentemente semplici da raccontare ma che in realtà nascondono complessità infinite, non detti che si sono accumulati per anni, decenni fino a stratificarsi: due cugini molto legati si perdono di vista, e diventano persone molto diverse. Sembra semplice, vero? Questa è la storia al cuore di A Real Pain, ma dentro di essa si nascondo moltitudini, come scriveva Walt Whitman e cantava Bob Dylan. 

C'è il senso di inadeguatezza di entrambi, che però uno nasconde dentro di sé e l'altro esprime in ogni modo possibile, incapace di nasconderlo e anzi, desideroso di condividerlo, perché ritiene disumano nascondere il dolore che pervade il mondo. C'è un passato condiviso fatto di resilienza e sofferenza, quello della diaspora ebraica che i due protagonisti rivivono in un viaggio organizzato nei luoghi della memoria in Polonia, tra momenti divertenti e altri toccanti, compresa una visita al campo di concentramento in cui Eisenberg, alla sua opera seconda da regista, dimostra una sensibilità da autore consumato, riuscendo a filmare l'infilmabile, a raccontare il dolore senza farne spettacolo.

C'è, soprattutto, l'incomunicabilità del dolore, la gabbia di silenzio dentro cui ci rinchiudiamo pensando che il dolore sia e debba essere una cosa privata, da tenere dentro, quasi vergognandocene, quando in realtà è un'esperienza condivisa, universale, che tocca le vite di tutte, ed è proprio parlandone che possiamo esorcizzarlo e cominciare a guarire. In una società in cui condividere il dolore è taboo il personaggio di Benji, perennemente in contatto con le sue emozioni e senza paura di condividerle, è dirompente, nel senso letterale del termine: costringe tutti i partecipanti al viaggio a rompere i propri argini e a condividere, lasciarsi andare, mostrare le proprie vulnerabilità e accettarle.

Eisenberg, tuttavia, rifugge dalle semplificazioni, dimostrando anche qui una maturità insospettabile nel trattare materie complesse. Il finale non è risolutorio, i rapporti umani possono essere costruiti e ricuciti, ma servono tempo e sforzi per riempire un vuoto che continua a scavare e che non accenna a fermarsi. Se è solo nella condivisione che possiamo trovare salvezza, è anche vero che quella stessa condivisione può essere difficile, faticosa, e che è più comodo tornare alle nostre routine, al nostro isolamento emotivo.

La regia di Eisenberg è delicata, attenta ai personaggi e alle loro emozioni, ma si concede anche alcuni momenti di grande forza espressiva a livello visivo (il già citato momento nel campo di concentramento, ma anche le scene di Benji in aeroporto), elevando la sua regia al di sopra di una confezione pulita di una bella storia. Ottima e molto "woodyalleniana" la scelta della colonna sonora, costituita quasi esclusivamente da sonate di Chopin, perfetto contrappunto musicale alla malinconia che pervade il film.

La forza del film risiede però soprattutto nella sceneggiatura, mai banale anche nella scelta dei personaggi che partecipano al tour, e negli attori. Eisenberg stesso offre una bellissima prova: il suo David è un personaggio solo in apparenza "sistemato", ma in realtà estremamente fragile e isolato, nonostante una vita personale e affettiva soddisfacente. A brillare, tuttavia, è Kieran Culkin, un uragano che travolge tutto quello che trova davanti a sé. Il suo Benji fa ridere, piangere, irritare, compatire, e crea una connessione emotiva con lo spettatore che raramente si riesce a trovare al cinema. 

A Real Pain non è un film rivoluzionario ma è un film importante, una dramedy da manuale che è anche molto efficace nel parlare di tematiche sociali attuali e importanti come il crescente analfabetismo emotivo e l'importanza della memoria. Eisenberg riesce a coinvolgere lo spettatore attraverso una storia piccola ma potente che parla anche della Storia, e di come il dolore - individuale e collettivo - non vada soppresso o evitato, ma condiviso, sempre: perché dimenticare è facile, ma dietro la mancanza di memoria si nascondono mostri. 

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Pier

sabato 1 marzo 2025

Conclave

Non c'è nulla di sacro


Il papa è morto, e i cardinali si riuniscono a Roma per eleggere il suo successore. A guidare il conclave il Decano britannico Thomas Lawrence.

Che il conclave - la riunione in cui i cardinali scelgono il nuovo papa - non fosse esattamente la sala dell'amore fraterno è cosa nota a chiunque segua gli affari vaticani. Che fosse materiale per un thriller, però, richiedeva una visione creativa e una grande abilità di gestire la tensione all'interno di quella che, di fatto, è la classica "camera chiusa" dei gialli (conclave deriva da "cum clave", che significa proprio "chiuso a chiave"). 

Robert Harris prima, con il suo romanzo, ed Edward Berger poi, con il suo adattamento, dimostrano che gli intrighi vaticani per l'elezione sono materiale degno di una spy story o di un thriller politico, con tanto di segreti rivelati, spie, informatori, e colpi di scena. La tensione è palpabile fin dal primo minuto, e non ci abbandona fino ai titoli di coda, riflessa negli occhi di Ralph Fiennes (strepitoso) che sa che tutto può andare a rotoli in qualunque momento. 

Se il pericolo più immediato e concreto è l'elezione di Tedesco, cardinale oscurantista interpretato da un Sergio Castellitto adorabilmente gigione, quello più spaventoso è la fine della fede, in Dio e negli uomini. Negli occhi di Fiennes c'è l'esitazione a farsi carico di un fardello spaventoso (tema già trattato con veggenza da Habemus Papam), ma anche una sfiducia generale su un'istituzione e sugli uomini che ne fanno parte: uomini spesso meschini, che mettono il desiderio di potere davanti al bene comune. 

La tensione non è data solo dai continui colpi di scena, ma dal progressivo disvelamento di una speranza di redenzione, sia individuale che collettiva: una speranza forse imperfetta, come l'umanità stessa, ma quantomeno capace di guardare fuori dalle stanze del potere, a un mondo flagellato da povertà e sofferenza, e in cerca di qualcosa in cui credere.

Berger realizza un film perfetto a livello di confezione - sia narrativa che visiva, alcune inquadrature sono dei quadri per perfezione della composizione. Paradossalmente, proprio in questa ricerca della perfezione formale sta anche il suo unico peccato mortale. Conclave è a volte troppo inquadrato, preso dalla sua struttura più che dalle sue vicende. Manca, in sintesi, di cuore e di coraggio nell'affrontare l'ambiguità: se al primo sopperisce un cast eccellente, che riesce a rendere tridimensionali dei personaggi altrimenti fin troppo "definiti", il secondo è il vero punto dolente. 

La narrazione restituisce una visione manichea che a tratti "imbocca" un po' troppo gli spettatori, dicendo loro cosa devono pensare, chi sono i buoni e chi sono i cattivi. Ma è proprio nei rari istanti in cui abbraccia l'ambiguità che Conclave si eleva e offre i suoi spunti migliori, facendo rimpiangere ancora di più la decisione di rifuggirla per la quasi totale durata di un film che risulta comunque efficace e capace di intrattenere.

*** 1/2

Pier