sabato 22 novembre 2025

Frankenstein

Once upon a time...


Un equivoco che ricorre quando si pensa al cinema di Guillermo Del Toro è che sia un regista horror. In parte è vero: il regista messicano ha un grande gusto per l'orrore e sa girare scene che ricadono pienamente nel genere. Tuttavia, Del Toro andrebbe descritto più correttamente come un regista fantasy, e nello specifico un tessitore di fiabe moderne. Nei suoi film ci sono creature, mostri, elementi fantastici a non finire, ma l'orrore è quasi sempre interiore, spesso contrapposto a un orrore esteriore che nasconde però un cuore puro. Il mostro, la creatura fuori dall'ordinario è incompresa, perseguitata, ma sensibile, introspettiva. Uno stilema tipico della fiaba che ricorre in tutti i suoi lavori, da Il labirinto del fauno a Hellboy, e che trova la sua sublimazione ne La forma dell'acqua - non il suo film migliore, forse, ma quello più giusto da premiare con l'Oscar, in quanto perfetta summa della sua poetica.

Non sorprende quindi che anche questo adattamento di Frankestein abbia i toni della fiaba, del racconto fantastico più che del racconto ammonitore sui limiti della ragione e dell'ambizione, come probabilmente lo aveva inteso Mary Shalley. L'aspetto fiabesco è particolarmente evidente nella componente visiva, sontuosa e oltremondana, molto debitrice di uno dei lavori meno conosciuti di Del Toro, Crimson Peak, e che regala un mix steampunk di impossibile e scientifico, di magia e meccanica. Il laboratorio di Viktor è forse l'highlight della scenografia, mentre a livello fotografico spiccano le scene nell'Artico, quelle in cui Del Toro concede di più all'horror (ci sono eco evidenti di Poe nella nave bloccata nei ghiacci) ma senza mai scivolarci davvero.

Anche in Frankestein ricorrono tutte le corde del cinema di Del Toro: dall'umanità del mostro alla mostruosità dell'uomo, passando per la ricerca dell'amore e della connessione. Ed è proprio a livello tematico, infatti, che il film parzialmente delude: a differenza del Dracula di Coppola non rivoluziona un mito già esplorato infinite volte dalla cinematografia, e anzi riprende toni e situazioni già viste sia in altri adattamenti (il mostro è molto debitore dell'incarnazione vista in Penny Dreadful, una delle migliori serie TV, di genere e non, degli ultimi dieci anni), sia in altri lavori di Del Toro. Forse era inevitabile, visto che questo mito ha, per sua stessa dichiarazione, formato la poetica deltoriana. E, in fondo, le fiabe sono spesso ripetitive, costruite su archetipi e lezioni morali che ritornano di continuo.

Rimane però la sensazione che si potesse fare di più, trovare chiavi nuove (come Del Toro aveva fatto, con efficacia, ne La forma dell'acqua), chiavi che qui sono invece assenti, con due notevoli eccezioni. La prima è uno spunto tolkieniano su come la morte sia un dono e non una maledizione da cui fuggire: la creatura è qui immortale, e da qui deriva il suo tormento, la sua disperazione all'essere condannato a un'eternità di solitudine. La seconda è la caratterizzazione di Viktor, che diviene perfetta incarnazione della mascolinità tossica. Elizabeth non è più l'amata dello scienziato, ma il suo desiderio proibito, il capriccio di un bambino mai veramente cresciuto: Viktor beve solo latte durante il film, e Mia Goth interpreta sia Elizabeth che sua madre. 

Cosa resta, dunque, di questo Frankenstein? Resta un film comunque in grado di intrattenere grazie all'inventiva visiva di Del Toro e alla splendida prova del cast, con Oscar Isaac mostro-creatore, Elordi mostruosamente bello e dolente, e una Mia Goth ambigua e carismatica. Frankenstein è come un dolce ben confezionato che però non riesce a stupire, un tentativo di rivistare il tiramisu che però finisce semplicemente per presentare in modo diverso e visivamente accattivante gli ingredienti: lo si mangia volentieri, ma poi, visto il cuoco, è inevitabile pensare che era lecito aspettarsi di più.

*** 1/2

Pier

sabato 25 ottobre 2025

Bugonia

La morte dell'umanità


In Matrix, uscito nel 1999, l’agente Smith definiva gli esseri umani dei parassiti, una specie capace solo di sfruttare il proprio ospite fino a portarlo alla morte. Se questo punto di vista sembrava allora eccessivamente cinico, oggi ci ritroviamo di fronte alla sua inconfutabile verità. Consumiamo più risorse di quante la Terra possa produrne, specie animali si estinguono a causa nostra, e guerre pretestuose mirano ad annichilire interi popoli. Il pianeta è in fiamme, e i piromani siamo noi.

Su questa premessa si fonda anche Bugonia, il nuovo film di Yorgos Lanthimos, remake di un film coreano del 2003, Save the Green Planet!. Bugonia è un film cinico, in cui anche le corse in bici di spielberghiana memoria perdono ogni fascino e divengono lame taglienti e disperate. Un film che unisce il Lanthimos degli esordi a quello “hollywoodiano”, trovando una sintesi cupa e disperata ma anche deliziosamente grottesca, che riesce a fondere sperimentazione e linearità narrativa. Lanthimos sviscera la stupidità umana in tutte le sue forme: dall’incapacità di non cedere ai propri impulsi primari alla totale mancanza di spirito critico; dalla bellicosità alla totale noncuranza per le altre creature che abitano il pianeta con noi, passando per il progressivo asservimento alla logica del profitto a tutti i costi.

La genialità di Lanthimos sta nel fatto che, a differenza di altre film con tematiche simili, non c’è un paladino del bene che si batte contro un’umanità cieca e corrotta. Tutti i protagonisti sono portatori sia di idee positive, sia di deliri autodistruttivi che spaziano da quello di onnipotenza a una credulità e irresponsabilità bambinesca. Tutti i protagonisti, tuttavia, credono di essere i paladini del bene. La totale incapacità di accettare le proprie colpe, la certezza incrollabile di essere nel giusto anche di fronte all’evidenza del contrario, la necessità di dover trovare un nemico, un colpevole per le proprie sofferenze guidano sia Teddy che Michelle, per quanto siano animati da motivazioni diametralmente opposte.

In Bugonia non c’è nemmeno la catarsi tipica della tragedia greca (una delle grandi ispirazioni del cinema di Lanthimos), quantomeno per i suoi protagonisti: la cecità li porta all’autodistruzione senza nemmeno rendersene conto, e solo un deus ex machina può evitare che questa distruzione si estenda anche al pianeta. Non c’è pentimento, non c’è redenzione: solo una spirale di follia. Il reale e il fantastico si inseguono per tutto il film, in un gioco di disvelazioni che, alla fine, non ha vincitori, e che mette in dubbio il concetto stesso di reale.

Questo aspetto si riflette anche nell’aspetto visivo, dove Lanthimos sceglie una fotografia realistica costellata di momenti surreali e alieni, creando un senso di straniamento che rispecchia e rinforza la tensione narrativa. Ad aiutarlo contribuiscono anche le prove eccezionali di Jesse Plemons, concentrato di fragilità, effetto Dunning-Kruger, e sadismo, e Emma Stone, affascinante e respingente al tempo stesso, e manipolatrice come solo un’aliena o un’amministratice delegata di Big Pharma potrebbero essere.

Bugonia è un film ipnotico, che si nutre di opposti: una tragedia in cui si ride, un film senza speranza che mira a risvegliare le coscienze, una storia in cui il villain non è nessuno e, al tempo stesso, siamo tutti noi, con un finale che pietrifica e, al tempo stesso, lascia con un senso di giustizia compiuta. Lanthimos realizza un’opera che entra dentro il cuore e l’anima e li diliania lentamente, lasciando dietro di sé solo silenzio – un silenzio che, forse, rappresenta un nuovo inizio.

**** 1/2

Pier

Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

giovedì 23 ottobre 2025

After the Hunt

Bulimia autoriale


Alma Himoff insegna Filosofia a Yale, dove sta per ottenere la tanto attesa cattedra. È stimata da tutti, ma ha dei segreti: un problema di salute di cui non parla con nessuno, e un passato che sembra infestare i suoi ricordi. Una notte, la sua dottoranda, Maggie, si presenta a casa sua raccontandole di essere stata molestata da Hank, un altro docente. A questo punto, Alma si trova in preda a un dilemma etico: credere alla sua studentessa, o concedere il beneficio del dubbio al suo collega. 

Esiste un problema di bulimia artistica? Può un regista finire per divorare se stesso? Possono troppi film in poco tempo danneggiare l'ispirazione? La risposta varia varia da regista a regista (Woody Allen ha fatto un film all'anno per molti anni la varianza era tra "gradevole" e "grandissimo film"), ma è evidente che, per la maggior parte, la risposta è "sì": Terrence Malick, per dirne uno, ha pagato il suo unico periodo di iperprolificità con i suoi film peggiori o comunque meno ispirati. 

Nella trappola sembra essere ora finito anche Luca Guadagnino, al suo terzo film negli ultimi tre anni, quarto negli ultimi quattro: e non è un caso che quello che è di gran lunga il migliore sia il primo di questo tour de force autoimposto, Bones and all; e che quello meno salvabile sia proprio questo After the Hunt, in cui il regista ha poche idee e pure confuse.

Per correttezza va evidenziato che il problema principale risiede nella sceneggiatura di Nora Garrett, che vuol fare The social network ma senza avere il senso della narrazione e la brillantezza dei dialoghi di Aaron Sorkin. L'idea sarebbe di fare un thriller psicologico del quotidiano, un racconto sulla banalità e ambiguità del male sulla cifra di quello perfettamente realizzato dal connubio Fincher-Sorkin. Il risultato è una storia sfilacciata e inconcludente a livello sia tematico che narrativo, con dialoghi pomposi e verbosi. In The social network la tensione si tagliava con il coltello, la freddezza entrava nelle ossa: qui la tensione è inesistente, la freddezza è solo forma senza sostanza, e il coltello vorrebbero averlo gli spettatori.

Quella che dovrebbe essere una riflessione su un tema etico importante e attualissimo (quello della tensione tra credere alle vittime e il principio giuridico della presunzione di innocenza) risulta solo un esercizio retorico poco stratificato, che offre solo pochi spunti di riflessione. La tensione è quasi del tutto assente, e arriva solo grazie alla buona prova di Julia Roberts e alle musiche (bellissime, anche se spesso fuori posto) di Reznor e Ross. 

Guadagnino dona al film i suoi momenti più interessanti grazie a una regia claustrofobica e un'ottima direzione degli attori, ma a volte aggiunge problemi, anziché risolverne, soprattutto quando si perde in inquadrature inspiegabili (lunghi momenti fuori fuoco, la camera a mano, la fissazione per le mani). Questi momenti sembrano puro esercizio di stile, l'espressione di un desiderio hitchockiano di restituire lo sguardo dei personaggi che però non ha alcuna connessione con il tessuto narrativo. Il "ricciolo" di Vertigo era collegato alla trama, funzionale al racconto: Guadagnino qui pare esserselo dimenticato, perso in un vortice di mani e mal di mare (dello spettatore).

After the Hunt è un film democristiano nel senso più deteriore del termine, che sembra guidato da un desiderio furbetto di essere anti-anticonformista più che dall'avere un messaggio da comunicare. Il film si fa paladino del "non si può più dire niente" e critica i giovani mollaccioni, ma poi scivola spesso e volentieri in quella che sembra una parodia dei boomer degna di quelle che si trovano sui social media. 

In breve si può dire che After the Hunt è un film pavido, sfiatato, che non ha il coraggio di prendere posizione nè riesce a far passare l'ambiguità tematica di cui vorrebbe, forse, farsi portatore, e anzi finisce per divorarla, come Crono con i propri figli. Al paziente-regista il medico prescrive un rewatch del lavoro di Sorkin e riposo, tanto riposo.

** 1/2

Pier

lunedì 29 settembre 2025

Una Battaglia Dopo l'Altra

L'urlo e il furore

It is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing.
William Shakespare, Macbeth


In un presente distopico, Bob Ferguson, entra a far parte dell'organizzazione rivoluzionaria French 75. Dopo essersi ritirato, Bob si occupa a tempo pieno di Willa, figlia sua e di Perfidia, sua compagna di rivoluzione. Il passato, tuttavia, si presenta a chiedere il conto nella forma del colonnello Lockjaw, già sua nemesi in passato, deciso a eliminare Willa per motivi oscuri a Bob.

Realizzare un film come Una battaglia dopo l'altra subito dopo Licorice pizza sembra l'ennesima testimonianza dell'eclettismo di Paul Thomas Anderson, che passa da un coming of age a un film sulla rivoluzione armata, quasi tarantiniano per gusto espressivo, di personaggi, e umoristico. Tuttavia, i due film sono più simili di quanto sembri: sono due film cinetici, sempre in movimento, in cui si corre a perdifiato da una parte all'altra, con al centro una relazione, due persone che vogliono solo stare insieme ma che agenti esterni si ostinano a voler separare. Sullo sfondo, una crisi inesorabile - quella petrolifera in Licorice pizza, quella dell'immigrazione in Una battaglia dopo l'altra - che è specchio di una crisi più ampia, quella della società statunitense (e non solo).

Anche il ritmo dei due film è identico, una sonata jazz fatta di continui cambi di ritmo, imprevedibile nella sua capacità di cambiare pelle, scartare di lato, cambiare prospettiva. Laddove Licorice pizza era un film solare, tuttavia, Una battaglia dopo l'altra è una sonata cupa, dove la speranza è ridotta al lumicino e il Male divora principi e valori e mettendo tutti contro tutti, in una guerra fratricida dove "il più forte dovrà infine tra tutti trionfar". Il Male, incarnato dal colonnello Lockjaw, da ICE, e da un movimento suprematista devoto al Natale e a San Nicola, non dà tregua, come il T-1000 di Terminator 2 (una saga che Anderson sembra voler esplicitamente citare), e ai combattenti non restano che due scelte: arrendersi e tradire i propri ideali, oppure una fuga per continuare la battaglia in tempi migliori.

Il primo atto è un inno alla ribellione, un inno fatto di urla, bombe e furore, ma anche di amore, passione carnale, solidarietà e valori. Il furore, tuttavia, si spegne sotto una pioggia malsana che si fa inondazione, e che vuole stroncare ogni ideale rivoluzionario, renderlo senza significato, la "storia raccontata da un idiota" del Macbeth: alcuni cedono, alcuni scompaiono, ma alcuni continuano a combattere, per scelta o mancanza di alternative. 

L'urlo continua, sopito ma non soffocato, e ci porta nel secondo atto, quello più indebitato a Tarantino ma anche a David Lynch, una fuga continua e allucinata fatta di ninja che sfrecciano in skateboard, parole d'ordine dimenticate, e sensei latini che salvano immigrati irregolari. Surreale e reale si sovrappongono e divengono tutt'uno, ciò che accade supera in inverosimilità ciò che immaginiamo o alluciniamo, la battaglia infuria dentro e fuori di noi.
Il terzo atto è quello leggermente meno riuscito, causa alcune lungaggini forse evitabili, ma ci regala una sequenza di inseguimento da antologia, un mix tra il primo Mad Max e un western crepuscolare alla Sam Peckinpah, in cui ogni onore viene abbandonato e l'unica cosa che conta è sopravvivere, continuare a correre.

Anderson dipinge il film con pennellate rabbiose, pastose, lunghi piani sequenza insistenti, asfissianti, che si inseguono senza soluzioni di continuità: ogni stacco di montaggio è un respiro profondo prima di immergersi nuovamente nell'azione, in apnea, incalzati e inseguiti dal passato che vuole chiudere i conti, dal presente che vuole riaprirli, e da un futuro che si preannuncia pieno di urla, furore e sangue. Jonny Greenwood, chitarrista dei Radiohead, già compositore della colonna sonora de Il filo nascostocostruisce un perfetto riflesso musicale della storia narrata, una serie di melodie rapsodiche, sincopate, che accompagnano ogni scena con un'insistenza quasi sfinente.

Il cast è perfetto, da un Di Caprio travolto dalla vita ma deciso a sopravvivere a un Benicio Del Toro sornione e imperturbabile, che ricorda il personaggio di Brad Pitt in C'era una volta a Hollywood per coolness esibita al minuto. A brillare, tuttavia, sono soprattutto le protagoniste femminili: Teyana Taylor, che esprime un desiderio di vita e giustizia quasi animale con la sua perfidia, e la giovane Chase Infiniti, una forza della natura che non accetta di scomparire e di essere messa a tacere: scalcia, combatte, sopravvive, incarnazione vivente della battaglia del titolo, della lotta che continua. E poi, c'è lui, il Male, il colonnello Lockjaw di Sean Penn: un villain da antologia, fragile e violento, magnetico e buffo, incarnazione perfetta della banalità del Male, della crudeltà profonda di chi si crede protagonista ma dentro di sé sa di essere destinato a rimanere sullo sfondo, e dà così sfogo a una rabbia nichilista che tutto travolge, tutto divora.

Una battaglia dopo l'altra è un ritratto spietato dell'umanità, tratteggiata nei suoi tratti più ridicoli e più spaventosi, più nobili e più perversi, una melodia cangiante che si fa ora cacofonica, ora armonica, con due temi che si inseguono e non possono esistere l'uno senza l'altro: da un lato l'incedere devastante e inesorabile del Male, dall'altro chi prova a resistere, fuggendo, nascondendosi, ma tenendo sempre viva la fiamma di un fuoco ribelle che non accenna a spegnersi e continua a far divampare la speranza. E la battaglia continua.

**** 1/2

Pier

Life of Chuck

Ogni vita è meravigliosa


L'apocalisse sembra arrivata. Mentre tutto crolla, qualcuno celebra la vita di un certo Chuck Krantz, contabile. Da qui inizia un percorso a ritroso in cui scopriamo chi è Chuck e perché sia giusto celebrarlo.

Cosa contiene una vita? Questa la domanda che sembra muovere il racconto di Stephen King da cui è tratto il film: una lettura quasi letterale della famosa poesia di Walt Whitman Contengo moltitudini; un racconto lirico, meditativo, ben lontano dalle atmosfere da "maestro del brivido" per cui è famoso. Ma tutti gli appassionati di cinema sanno che, con la notevole eccezione di Shining, i migliori adattamenti kinghiani sono spesso poco horror - da Le ali della libertà passando per Stand by me e Il miglio verde. 

Life of Chuck si iscrive a questi precedenti illustri grazie all'adattamento sapiente di Mike Flanagan, anch'egli noto per il genere horror (sue sono alcune delle migliori serie TV nel genere degli ultimi anni, dalle due Haunting a Midnight Mass, passando per La caduta della casa degli Husher e Midnight Club: chi le ha viste riconoscerà numerosi attori e attrici di queste serie nel film). Flanagan, come King, prova di saper trascendere il genere che lo ha reso famoso, mostrandosi pienamente a suo agio nel raccontare un inno alla vita (qualcuno potrebbe evidenziare come l'orrore sia un modo di celebrare, per contrasto la bellezza della quotiadinità). È difficile raccontare Life of Chuck senza spoiler, ma ci proveremo: è diviso in tre atti raccontati in ordine cronologico inverso, e si focalizza sulla vita di un uomo di nome Chuck. 

Inizia come un film distopico, e prosegue come una celebrazione della gioia di vivere, della bellezza delle piccole gioie del quotidiano, del piacere del riscoprire una passione sopita. Il secondo atto è fatto di musica e danza, mentre nel terzo le tematiche del film si incontrano e tutte le fila si tirano: c'è ancora il ballo, certo, ma ci sono anche le vite che, intrecciandosi, costituiscono quel macrocosmo che è ciascuna esistenza; c'è il lutto, il dolore della perdita, ma anche la gioia di trovare e ritrovare passioni; c'è, infine, il desiderio di vivere la propria vita a fondo, superando gli ostacoli che società e destino vogliono metterci davanti.

Flanagan dirige con mano invisibile, senza i virtuosismi che altri registi esibirebbero in alcuni momenti, ma riesce comunque a confezionare alcuni momenti memorabili. Tra questi spicca la danza del secondo atto, un'esplosione di gioia e vitalità magistralmente disegnata da Mandy Moore, probabilmente la miglior coreografa su piazza quando si tratta di creare danze ambientate nel tessuto urbano (sue anche le coreografie di La La Land). L'esibizione spontanea di Tom Hiddleston e Annalise Basso è ipnotica, sensuale, un'esplosione di gioia e al tempo stesso un enigma, una finestra sull'anima di due persone ferite e in cerca di redenzione. Se la danza del secondo atto è senza dubbio la scena migliore dal punto di vista cinematografico, quella del terzo atto eseguita da un giovane Chuck e dalla sua compagna di ballo Cat è quella che più tocca al cuore, soprattutto grazie alla purezza e all'entusiasmo contagioso dei due attori-ballerini, Benjamin Pajak (eccezionale, il cuore pulsante del film) e Trinity Jo-Li Bliss.

Tutto il cast è diretto magistralmente. Flanagan dimostra un amore per i suoi attori e le sue attrici che esalta l'umanità e il realismo di tutte le loro performance: dai due ex coniugi travolti dalla fine del mondo nel primo atto (Chiwetel Ejiofor e Karen Gillan) al nonno di Chuck, uno struggente Mark Hamill, forse alla miglior prova in carriera, passando per la voce narrante affidata al sempre meraviglioso Nick Offerman, che potrebbe rendere appassionante anche la lettura dell'elenco telefonico.

Life of Chuck è una poesia per immagini, un inno alla bellezza e alla capacità di superare le proprie paure. È una celebrazione dell'eccezionalità e dell'unicità della vita, di ogni singola vita, anche quella all'apparenza più banale: un messaggio che può sembrare scontato, ma decisamente non lo è di questi tempi, in cui le morti sono freddi numeri senza passato, senza storia, e la deumanizzazione della vita è all'ordine del giorno

Flanagan realizza un piccolo miracolo, un film fuori dal suo tempo (impossibile non pensare a La vita è una cosa meravigliosa) eppure perfetto per i nostri tempi, che scalda il cuore e restituisce la speranza senza essere mai sdolcinato. Life of Chuck racconta la vita nella sua complessità, nella sua capacità generativa e immaginativa, di cambiare altre vite, tante altre, con piccoli gesti, all'apparenza insignificanti, ma in grado di creare e cambiare mondi: un sorriso, una parola gentile, una musica ballata di fronte all'apocalisse, con il sorriso, mentre le stelle si spengono. 

**** 

Pier

mercoledì 24 settembre 2025

La Voce di Hind Rajab

La voce di un genocidio


In seguito a un attacco dell’esercito israeliano all’auto in cui viaggiava, Hind Rajab, una bambina, rimane intrappolata, circondata dai cadaveri dei suoi parenti. I membri della Mezzaluna Rossa, in contatto telefonico con la bambina, combattono contro il tempo per provare a portarla in salvo.

Anche conoscendo già la vicenda di cronaca narrata, è impossibile rimanere indifferenti di fronte a La Voce di Hind Rajab, confezionato con grandissima efficacia narrativa ed emotiva da Kaouther Ben Hania. La scelta di usare le registrazioni originali della chiamata di Hind Rajab, e di giustapporle con le prove degli attori, non è solo vincente: è necessaria per capire fino in fondo l’orrore, la disperazione e il terrore di una bambina intrappolata e sola. Quella di Hind Rajab diventa la voce di un genocidio, di centinaia di migliaia di innocenti uccisi, umiliati, affamati, lasciati senza nemmeno il conforto dei propri cari negli ultimi attimi.

La lenta evoluzione dei centralinisti che le parlano – dapprima rassicuranti, poi sempre più disperati – è specchio di quella degli spettatori, colpiti con sempre più violenza allo stomaco man mano che il film prosegue. Si finisce tremanti, impotenti di fronte a quanto appena visto, il dolore dei protagonisti che si è fatto strada nel cuore, nella testa, nel corpo degli spettatori.

Kaouther Ben Hania non inventa nulla di eccezionale, ma ha un grande senso del racconto e realizza un film senza fronzoli, dritto al punto, che scivola nel pietismo e nel ricatto emotivo solo in un breve momento sul finale, ma per il resto riesce a essere asciutto e giornalistico pur raccontando una vicenda straziante. La macchina da presa si concentra sui volti, sui suoni, e il montaggio video e audio (qui fondamentale) cuce, alterna, giustapponendo reale e ricostruzione in modo efficacissimo, che ci fa capire che quell’orrore non è frutto (solo) della bravura degli attori, ma della realtà. 

La regista tunisina ci trascina nella frenesia di quei momenti, nelle emozioni dei protagonisti, nella follia bellica e burocratica che rende impossibile salvare una bambina. Il cast è eccezionale, ma a brillare è soprattutto Saja Kilani, che riesce nel difficile compito di comunicare una calma carica di tenerezza con la voce, per tranquillizzare la bambina, mentre il suo volto è colmo di disperazione.

La Voce di Hind Rajab è un film devastante per impatto emotivo, che deve la sua forza alla vicenda narrata ma anche alla sapienza della confezione filmica. Il film è, ovviamente, molto attuale, ma è al tempo stesso universale: perché in ogni guerra, in ogni persecuzione fatta solo per etnia e nazionalità, c’è sempre una bambina che rimane sola e cerca disperatamente aiuto, e c’è sempre chi cercherà di portarglielo nonostante tutte le difficoltà. Ben Hania confeziona un imperdibile j’accuse che parla alle coscienze, e che rimarrà nelle menti e nei cuori dello spettatori molto a lungo dopo la visione.

**** 1/2

Pier

Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

martedì 23 settembre 2025

Duse

Errori fatali


Il film racconta gli ultimi anni di vita di Eleonora Duse: il suo ritorno sulle scene dopo la guerra, il rapporto con D'Annunzio, le crisi finanziarie. Sullo sfondo, l'ascesa del fascismo.

Un film su Eleonora Duse, la Divina del teatro italiano, un'attrice carismatica, dal carattere dirompente, nasce e muore con la sua interprete. Se si vuole raccontare la Duse, una donna in anticipo sui tempi, in grado di tenere testa e rubare il cuore a Gabriele D'Annunzio, una donna che non ebbe paura di sfidare e distruggere le convenzioni, non ci si può permettersi di sbagliare il casting dell'attrice principale. 

Purtroppo questo è ciò che succede nel film del solitamente bravo Pietro Marcello: Valeria Bruni Tedeschi, non sappiamo se per scarsa attitudine, indicazioni registiche, o ambedue, dà vita a una Duse anonima, una vecchietta svampita tutta sorrisi e moine che scompare in scena quando dovrebbe dominarla. Sono emblematiche, in tal senso le scene con D'Annunzio e Sarah Bernhardt, epigona francese della Duse:  momenti talmenti talmente dominati dalle due controparti che ci si dimentica della presenza dell'attrice italiana, relegata a decorazione sullo sfondo. Paradossale che, nella scena con la Bernhardt, le rubi la scena anche l'attrice alle prime armi: una metafora del problema che attanaglia il film. 

Bruni Tedeschi non restituisce alcunché della grandezza teatrale della Duse, che rivoluzionò il modo di stare sul palco e preparare un personaggio. Non la aiuta una sceneggiatura inceppata, zoppa, appensantita da una retorica eccessiva che funziona quando viene messa in bocca a D'Annunzio e ai teatranti, ma risulta stucchevole e fuori posto quando viene ripetuta anche per personaggi "quotidiani" come la figlia e l'assistente della Duse. Le due attrici fanno intuire un potenziale migliore, ma vengono relegate ad anonime arpie tutte fieri cipigli, personaggi monotematici e inevitabilmente odiosi quando, forse, avrebbero potuto essere qualcosa di più.

La fotografia e l'integrazione tra recitato e materiali d'archivio sono ottimi, come sempre nei film di Marcello, e funziona anche il tentativo di parlare dell'orrore della guerra e della medicina sperata (l'arte, il teatro) da Duse e D'Annunzio, rispetto a quella realmente arrivata (l'olio di ricino del fascismo). Ma è poco, troppo poco, per salvare il film: la magia di Martin Eden è qui del tutto assente, ed è difficile non pensare a quanto invece fosse stata azzeccata la scelta di Marinelli in quel caso.

Duse è, a conti fatti, come una bella automobile senza motore: la carrozzeria può essere perfetta e ben disegnata, gli interni pregiati, ma l'auto rimarrà immobile, destinata alla polvere e all'oblio.

**

Pier