sabato 21 giugno 2025

La Trama Fenicia

Uscire dal capitalismo



A livello superficiale, il cinema di Wes Anderson è conosciuto e riconoscibile per l'aspetto visivo: palette di colori curate al dettaglio, inquadrature simmetriche, scenografie teatrali da casa di bambole (qui il nostro approfondimento sul tema). Tuttavia, Wes Anderson è anche molto altro: è, nella prima fase della carriera, un magnifico creatore di personaggi nevrotici ma vivi, veri, e di cui è quasi impossibile non innamorarsi a prima vista (una dote riconosciutagli, fin dagli esordi, nientemeno che da Martin Scorsese). 

Con il tempo, tuttavia, il suo cinema è diventato sempre più politico, con un forte sostrato di anticapitalismo. Si potrebbe dire che questa tematica è sempre stata presente, vista la sua tendenza a raccontare sognatori che si ribellano a un sistema che pensa solo a numeri, regole e risultati (si pensi a Rushmore o a Le avventure acquatiche di Steve Zissou), però era un tema sotterraneo, strisciante, che passava in secondo piano rispetto alle critiche delle convenzioni borghesi e al suo raccontare solitudini che si incontrano e, almeno per un attimo, trovano un po' di conforto nella compagnia l'uno dell'altro. 

Da Fantastic Mr. Fox il tema emerge con maggiore evidenza, ma è con Grand Budapest Hotel che Anderson passa da una fase del suo cinema all'altra: il film finora più premiato di Anderson rappresenta il punto di passaggio dal primo al secondo Anderson, e ne unisce e sublima ambedue le istanze. Nel secondo Anderson, i personaggi diventano sempre meno persone e sempre più maschere della commedia dell'arte, la cui funzione è far emergere e risaltare una satira sociale ed economica che, nascondendosi dietro un'apparenza patinata, colpisce con la violenza del morso di un cobra. Se il primo Anderson usava la perfezione formale degli ambienti come contrasto all'imperfezione interiore dei suoi protagonisti, il secondo Anderson la sfrutta per sottolineare l'assurdità della realtà, in un impeto beckettiano che mette in luce le storture del sistema economico dominante. Dalla marginalizzazione (L'isola dei cani) alla sete di denaro sfrenata (Grand Budapest), passando per il rapporto tra capitalismo e distruzione dell'ambiente (Mr. Fox), per la morte del giornalismo e la disgregazione del tessuto sociale. (The French Dispatch): il secondo Anderson non risparmia alcun aspetto del sistema socioeconomico in cui viviamo. Dietro la perfezione formale e l'opulenza visiva, si nascondono mostri.

La trama fenicia sublima tutti questi tutti temi nella figura del suo protagonista, Zsa-zsa Korda, un magnate senza scrupoli dotato di una magnifica ironia e capacità di ignorare le atrocità commesse. Korda è il capitalismo (anzi: l'anarcocapitalismo) incarnato: affascinante, seducente senza morale, disinteressato alla propria reputazione e interessato solo alla perpetuazione della propria ricchezza, al punto da mettere a repentaglio la sua stessa sopravvivenza. La violenza, inflitta e subita, è parte intrinseca della sua vita, esattamente come lo è del capitalismo contemporaneo. 


Fin qui sembrerebbe un classico film da "secondo Anderson", ma il regista/sceneggiatore sceglie di ribaltare il tavolo, e tornare a raccontare una storia famigliare: il primo Anderson incontra il secondo, e Zsa-zsa intuisce che qualcosa nel suo stile di vita non funziona, e cerca confusamente di recuperare il rapporto con la figlia Liesl. Inizialmente lei non vuole saperne, ma accetta di seguirlo. E Zsa-zsa, fino a quel momento del tutto impervio al cambiamento (qui Wes Anderson parla proprio di questo tema), inizia a vedere che un'altra vita è possibile.

Così, lentamente ma inesorabilmente, le maschere tornano a essere persone, e nel film fa irruzione il sentimento, con Zsa-zsa che, pur portando avanti le sue macchinazioni finanziarie, mette sempre di più al centro il rapporto con Liesl. Nel finale, fuggiti dalla prigione d'oro del capitalismo, troviamo dei personaggi pienamente da "primo Anderson": strani, buffi, disadattati, ma con il coraggio di seguire le proprie passioni, dall'entomologia alla cucina. Il castello di carte del capitalismo cade, e con esso la perfezione formale: l'ultima scena è asimettrica, caotica, senza una palette di colori pastello: è il mondo reale, in cui Zsa-zsa si trova finalmente a vivere, molto meno ricco ma anche molto più felice.

Il cast è, come sempre, sublime, guidato da un Benicio del Toro stropicciato ma immarcescibile, che offre bombe a mano come fossero caramelle e attraversa la vita con stoico cinismo, fino a quando Liesl (un'ottima Mia Threapleton dal fierissimo cipiglio) non fa breccia nel suo cuore. Attorno a loro, un Michael Cera entomologo con segreti, Tom Hanks e Bryan Cranston improbabili appassionati di pallacanestro, un Cumberbatch che incarna tutti gli stereotipi del villain shakespeariano con stralunata e divertita crudeltà, e Bill Murray che è, semplicemente, Dio.

La trama fenicia è un film divertente e avventuroso, che dietro la patina dell'intrattenimento nasconde però una satira feroce di un sistema economico che è talmente radicato nelle nostre vite che, come Zsa-zsa, pensiamo che sia l'unico sistema possibile. Al tempo stesso è un film profondamente emotivo, in cui la soluzione alla crisi di un sistema che tutto divora è il recupero dei rapporti umani e la capacità di rinunciare al guadagno a tutti i costi per rimettere al centro le passioni e la comunità. Non tutto riesce secondo intenzione (alcune scene sono meno emozionanti di quanto potrebbero essere), ma nel complesso funziona e riesce a toccare mente e (soprattutto sul finale) cuore.

****

Pier

venerdì 13 giugno 2025

Mission: Impossible - The Final Reckoning (In pillole #34)

Meditare sulla fine


Dopo gli eventi di Dead Recknoning, Ethan Hunt si trova a dover affrontare un avversario invisibile ma potentissimo: l'algoritmo, l'intelligenza artificiale malvagia. Un classico del cinema, anche d'autore (si pensi ad Hal 9000 in 2001: Odissea nello Spazio), con una lunga tradizione che McQuarrie cita esplicitamente, ma rendendo il nemico ancora più intangibile e sfuggente, come si addice a un film di spie. Su come questo film possa essere letto come una metafora dello stato del cinema come arte nell'era dell'AI hanno già scritto molto bene altri, cui vi rimando. Ma è impossibile anche non vederci una metafora dell'oggi, con alcuni scenari descritti nel film che appaiono come una versione nemmeno troppo estrema e "fantasiosa" di ciò che stiamo già vivendo.

Il film è, in fondo, una celebrazione dell'umanità, incarnata nel personaggio di Hunt. Innegabilmente egocentrico, da parte di Cruise, ma anche innegabilmente efficace. Hunt è un eroe imperfetto, che le prende di continuo, rischia la morte, ma non molla mai, continuando a correre a perdifiato per il mondo, cercando di tenere in piedi affetti e dovere. Il superomismo di Hunt serve a renderlo più "degno" del ruolo, non a elevarlo al di sopra della massa, ed è molto evidente in questo capitolo, che dedica meno spazio all'azione e più alle relazioni, ai ricordi, ai capitoli chiusi e a quelli che si vorrebbero aprire. 

L'azione, quando arriva, è eccellente, ma distillata, nel capitolo più cinefilo e cinematografico della saga: l'inseguimento in aeroplano cita Hitchcock, il tuffo nelle profondità marine cita grandi classici di fantascienza che ci portano nelle profondità dello spazio e del tempo, dal già citato 2001: Odissea nello Spazio a Gravity, passando per Interestellar. Quest'ultima scena è puro cinema, immagine senza dialogo che racconta la sfida uomo-natura, morte e rinascita. 

The Final Reckoning non è il film migliore della saga (a parere di chi scrive in testa ci sono, a pari merito, il primo capitolo e Fallout): ma è indubbiamente quello con più anima, più capacità di autoriflessione e più investimento emotivo, dove l'azione lascia il passo alla narrazione e alla ricerca del significato ultimo di una carriera, di una vita. Autocelebrativo? Certo. Ma in fondo Cruise e la saga se lo sono meritato, dopo anni di avventure mozzafiato in giro per il mondo.

*** 1/2

Pier