
Oltre i pinguini niente
Da sinistra Elio Germano nei panni di «Quattro formaggi» e Filippo Timi (Il padre «adottivo) |
Ispirato a un romanzo fluviale di Niccolò Ammaniti, il film ne espunge molti personaggi e avvenimenti per concentrarsi sul tormentato rapporto di Rino Zena (Filippo Timi) col figlio vero Cristiano (Alvaro Caleca, al suo esordio) e quello «adottivo » Quattro Formaggi (Elio Germano). Il primo è un adolescente cupo e ombroso, succube verso il genitore di cui ha assorbito il vitalismo apocalittico e oltranzista; il secondo è un ex compagno di lavoro di Rino, menomato da un incidente sul lavoro che l’ha fatto regredire a uno stato para-infantile. Il terzetto vive in un paese montano senza nome del Nord-Est italiano, ognuno rabbiosamente alle prese con i problemi quotidiani: Rino alla ricerca di un lavoro che non trova e che vede sparire ogni giorno di più per la concorrenza di «negri e slavi»; Cristiano nel tentativo di mascherare la sua vera anima e le sue vere idee di fronte a insegnanti e compagni da cui si sente distantissimo; e Quattro Formaggi all’inseguimento di un suo mondo di fantasie e desideri che carica di troppe aspettative.
Gabriele Salvatores |
C’è come un sovraccarico di disvalori, un incupimento eccessivo del quadro che può trovare una giustificazione in certi fatti di cronaca ma che nella logica del racconto cinematografico finisce per sembrare eccessivo, fin troppo sgradevole, volutamente esasperato, così da togliere (e non si capisce perché) ogni possibilità di immedesimazione con qualcuno dei protagonisti. In questo modo, l’inevitabile dramma che scoppia in una notte troppo piena di metafore (lampi, pioggia, fango, sentieri solitari) rischia di non appassionare e di essere vista come l’epilogo «inevitabile» di fronte ai comportamenti di tre emarginati «destinati» alla tragedia.
Nel film ogni personaggio si comporta come da manuale: Quattro Formaggi confonde tragicamente una ragazza (Angelica Leo) con l’oggetto delle sue fantasie erotiche, Rino mescola ancora una volta rabbia e paternalismo (vuole aiutare l’amico ma finisce per restare, involontariamente, coinvolto) e il piccolo Cristiano si sforza come sempre di conciliare senso del dovere e senso di obbedienza, bisogno d’affetto e paura reverenziale.
Germano interpreta un giovane che dopo un incidente sul lavoro regredisce a uno stato para-infantile |
Così la scelta di adeguare completamente stile e narrazione a un codice realistico (senza per esempio gli squarci favolistico-ecologici che spezzavano la tensione di Io non ho paura) finisce per schiacciare tutto — la storia di un delitto di provincia, il ritratto di tre personaggi senza speranza, il quadro di una società egoistica e violenta—sotto una cappa di disperazione e di sociologia dove tutto sembra preda di un «male» metafisico e indistinguibile, troppo apocalittico quando accenna a un mondo ostile e vendicativo o superficialmente assolutorio quando invece si chiude solo sul rapporto tra padre e figlio.
Paolo Mereghetti
12 dicembre 2008