Perché? Questa è la domanda che martella incessantemente la testa del fan incrollabile di Tim Burton, quello che lo aveva difeso anche dopo Alice, che aveva trovato Dark Shadows un interessante divertissement, che si era rinfrancato di fronte a Frankenweenie; quello, insomma, che non voleva credere che il regista di tanti capolavori (su tutti: Big Fish, uno dei dieci film preferiti di chi scrive) avesse definitivamente perso lo smalto.
Miss Peregrine: La casa dei ragazzi speciali distrugge tutte le speranze, calpestandole senza ritegno, sputazzandole come nemmeno Brancaleone con Teofilatto. Burton riesce infatti a rovinare un materiale che sembra fatto su misura per lui, sia a livello estetico (il libro alterna la narrazione all'uso di vere fotografie d'epoca (qui e qui) che sembrano uscite dalla fantasia di Burton) che narrativo (perché usare solo il primo libro della trilogia per poi doverlo chiudere in quattro e quattr'otto come se fosse un capitolo unico?), realizzando un film superficiale, che non emoziona, non spaventa e non fa sognare.
Si salvano Eva Green, come sempre eccellente, e qualche trovata, soprattutto sul finale, ma è davvero troppo poco.
Livello di sconsiglio: Medio-Alto (***1/2)
venerdì 30 dicembre 2016
giovedì 29 dicembre 2016
Oceania
Sulle spalle dei giganti
Vaiana è la giovane principessa di un'isola della Polinesia. Da sempre attratta dal mare, si scontra con i divieti alla navigazione imposti dal padre. Quando una misteriosa carestia si abbatterà sull'isola, tuttavia, toccherà a lei prendere il largo per sistemare le cose: dovrà trovare Maui, il semidio del pantheon polinesiano, e aiutarlo a riportare a Te Fiti, dea della Natura, il cuore che egli le ha sottratto secoli fa.
Ron Clements e John Musker sono stati i registi simbolo del cosiddetto Rinascimento Disney dei primi anni Novanta. I due hanno infatti firmato la regia di successi di pubblico e critica come La sirenetta, Aladdin, ed Hercules. Nonostante il successo, Clements e Musker hanno sempre dimostrato un'inesauribile desiderio di innovare il loro linguaggio filmico e, in generale, di testare i limiti dell'animazione. Questo li ha portati a realizzare un film come Il pianeta del tesoro, profondamente lontano dai canoni Disney e, forse per questo, penalizzato dal pubblico, nonché quello che è stato il (meraviglioso) canto del cigno dell'animazione tradizionale made in Disney, quel La Principessa e il Ranocchio che, pur ammantato dei classici stilemi dell'animazione disneyana, li reinventava con delicatezza e poesia.
Oceania (Moana in originale) costituisce la summa dei precedenti esperimenti della coppia, un punto di arrivo e (speriamo) di partenza per portare l'animazione Disney al livello successivo senza però perdere di vista quegli elementi che l'hanno resa grande. In Oceania ritroviamo la principessa con un sogno, le canzoni, gli animali da compagnia, e altri archetipi che fanno parte delle storie della casa di Topolino fin dal 1939, anno di realizzazione di Biancaneve e i sette nani. Allo stesso tempo, tuttavia, il film si discosta profondamente dalla tradizione: la storia d'amore, già marginale in Frozen, è qui del tutto assente; la storia non è ispirata a una fiaba, ma alla mitologia polinesiana; la spalla di Vaiana, Maui, non costituisce solo il classico alleggerimento comico, ma ha un suo personale arco narrativo, legato eppure indipendente da quello della protagonista; l'animale da compagnia che accompagna il viaggio di Vaiana è un pollo muto e inespressivo, erede più della comicità di Buster Keaton che della tradizione Disney (e quello che sembra il classico "animale Disney", il porcellino amico della protagonista, viene abbandonato dopo pochi minuti di film).
Clements e Musker mescolano tradizioni diverse, creando un buon amalgama che riesce nell'impresa più difficile: creare qualcosa di nuovo all'interno degli stringenti paletti della Disney, che ha pur sempre l'esigenza di "salvaguardare" il marchio e accontentare i gusti del pubblico. I due registi si muovono con fantasia e creatività all'interno dei limiti impostigli, e riescono a realizzare un film che diverte e, al tempo stesso, porta in avanti la narrativa e la tradizione visiva disneyana. Particolarmente riuscita, in questo senso, è la decisione di fare del mare e, più in generale, della natura un personaggio attivo, e non solo lo sfondo delle avventure della protagonista, creando momenti di comicità e riflessione che sarebbero stati impossibili con un approccio più convenzionale. I registi, alla prima esperienza con la computer grafica, sfruttano appieno le potenzialità del mezzo, rinunciando al fotorealismo della Pixar per privilegiare quel look "da cartone animato" che è alla base dei principi dell'animazione Disney, secondo un'ottica in cui il racconto e l'espressività, piuttosto che il realismo, sono al primo posto. Allo stesso tempo, tuttavia, è impossibile non notare come Oceania sia il primo film in cui sia la protagonista che i personaggi di contorno hanno un corpo e delle proporzioni "normali", e non le irreali misure che spesso hanno attirato critiche alla Disney: la scelta di uscire dalla fiaba per "calarsi" nel mondo reale, per quanto popolato di creature mitiche, porta giustamente con sé un aggiustamento visivo che si spera possa diventare una lezione per i film futuri.
Le musiche, composte da Mark Mancina con Lil-Manuel Miranda e Opetaia Foa'i, sono un innovativo mix di generi e tradizioni musicali diverse, che spaziano dal classico "I want moment" disneyano (How far I'll go) ai suoni del Pacifico del Sud (We know the way), a pezzi più swing degni del Genio di Aladdin (You're welcome, cantata dal sorprendente Dwayne Johnson/The Rock), al pop sperimentale di David Bowie (Shiny, forse il pezzo più originale di tutti per sonorità). La colonna sonora è forse l'elemento migliore del film, e non presenta punti morti come invece accadeva in Frozen, dove ad alcune canzoni eccellenti se ne alternavano altre decisamente dimenticabili.
Oceania è una bella scommessa vinta da quelli che sono forse gli ultimi testimoni dell'animazione "classica", di cui riescono a salvaguardare i principi pur rinunciando al mezzo che li ha resi celebri, attuando un'operazione simile a quella con cui John Lasseter, ormai 21 anni fa, riuscì a portare al successo il primo film realizzato in computer grafica, Toy Story. Oceania non può ovviamente essere altrettanto rivoluzionario, ma riesce comunque a rinnovare un genere, quello della "fiaba di formazione" che nemmeno sette anni fa tutti davano per morto, indulgendo anche in perfetti momenti di autoparodia e citazionismo. L'animazione disneyana è invece viva e vegeta, e speriamo possa allietarci per molti anni ancora.
****
Pier
Vaiana è la giovane principessa di un'isola della Polinesia. Da sempre attratta dal mare, si scontra con i divieti alla navigazione imposti dal padre. Quando una misteriosa carestia si abbatterà sull'isola, tuttavia, toccherà a lei prendere il largo per sistemare le cose: dovrà trovare Maui, il semidio del pantheon polinesiano, e aiutarlo a riportare a Te Fiti, dea della Natura, il cuore che egli le ha sottratto secoli fa.
Ron Clements e John Musker sono stati i registi simbolo del cosiddetto Rinascimento Disney dei primi anni Novanta. I due hanno infatti firmato la regia di successi di pubblico e critica come La sirenetta, Aladdin, ed Hercules. Nonostante il successo, Clements e Musker hanno sempre dimostrato un'inesauribile desiderio di innovare il loro linguaggio filmico e, in generale, di testare i limiti dell'animazione. Questo li ha portati a realizzare un film come Il pianeta del tesoro, profondamente lontano dai canoni Disney e, forse per questo, penalizzato dal pubblico, nonché quello che è stato il (meraviglioso) canto del cigno dell'animazione tradizionale made in Disney, quel La Principessa e il Ranocchio che, pur ammantato dei classici stilemi dell'animazione disneyana, li reinventava con delicatezza e poesia.
Oceania (Moana in originale) costituisce la summa dei precedenti esperimenti della coppia, un punto di arrivo e (speriamo) di partenza per portare l'animazione Disney al livello successivo senza però perdere di vista quegli elementi che l'hanno resa grande. In Oceania ritroviamo la principessa con un sogno, le canzoni, gli animali da compagnia, e altri archetipi che fanno parte delle storie della casa di Topolino fin dal 1939, anno di realizzazione di Biancaneve e i sette nani. Allo stesso tempo, tuttavia, il film si discosta profondamente dalla tradizione: la storia d'amore, già marginale in Frozen, è qui del tutto assente; la storia non è ispirata a una fiaba, ma alla mitologia polinesiana; la spalla di Vaiana, Maui, non costituisce solo il classico alleggerimento comico, ma ha un suo personale arco narrativo, legato eppure indipendente da quello della protagonista; l'animale da compagnia che accompagna il viaggio di Vaiana è un pollo muto e inespressivo, erede più della comicità di Buster Keaton che della tradizione Disney (e quello che sembra il classico "animale Disney", il porcellino amico della protagonista, viene abbandonato dopo pochi minuti di film).
Clements e Musker mescolano tradizioni diverse, creando un buon amalgama che riesce nell'impresa più difficile: creare qualcosa di nuovo all'interno degli stringenti paletti della Disney, che ha pur sempre l'esigenza di "salvaguardare" il marchio e accontentare i gusti del pubblico. I due registi si muovono con fantasia e creatività all'interno dei limiti impostigli, e riescono a realizzare un film che diverte e, al tempo stesso, porta in avanti la narrativa e la tradizione visiva disneyana. Particolarmente riuscita, in questo senso, è la decisione di fare del mare e, più in generale, della natura un personaggio attivo, e non solo lo sfondo delle avventure della protagonista, creando momenti di comicità e riflessione che sarebbero stati impossibili con un approccio più convenzionale. I registi, alla prima esperienza con la computer grafica, sfruttano appieno le potenzialità del mezzo, rinunciando al fotorealismo della Pixar per privilegiare quel look "da cartone animato" che è alla base dei principi dell'animazione Disney, secondo un'ottica in cui il racconto e l'espressività, piuttosto che il realismo, sono al primo posto. Allo stesso tempo, tuttavia, è impossibile non notare come Oceania sia il primo film in cui sia la protagonista che i personaggi di contorno hanno un corpo e delle proporzioni "normali", e non le irreali misure che spesso hanno attirato critiche alla Disney: la scelta di uscire dalla fiaba per "calarsi" nel mondo reale, per quanto popolato di creature mitiche, porta giustamente con sé un aggiustamento visivo che si spera possa diventare una lezione per i film futuri.
Le musiche, composte da Mark Mancina con Lil-Manuel Miranda e Opetaia Foa'i, sono un innovativo mix di generi e tradizioni musicali diverse, che spaziano dal classico "I want moment" disneyano (How far I'll go) ai suoni del Pacifico del Sud (We know the way), a pezzi più swing degni del Genio di Aladdin (You're welcome, cantata dal sorprendente Dwayne Johnson/The Rock), al pop sperimentale di David Bowie (Shiny, forse il pezzo più originale di tutti per sonorità). La colonna sonora è forse l'elemento migliore del film, e non presenta punti morti come invece accadeva in Frozen, dove ad alcune canzoni eccellenti se ne alternavano altre decisamente dimenticabili.
Oceania è una bella scommessa vinta da quelli che sono forse gli ultimi testimoni dell'animazione "classica", di cui riescono a salvaguardare i principi pur rinunciando al mezzo che li ha resi celebri, attuando un'operazione simile a quella con cui John Lasseter, ormai 21 anni fa, riuscì a portare al successo il primo film realizzato in computer grafica, Toy Story. Oceania non può ovviamente essere altrettanto rivoluzionario, ma riesce comunque a rinnovare un genere, quello della "fiaba di formazione" che nemmeno sette anni fa tutti davano per morto, indulgendo anche in perfetti momenti di autoparodia e citazionismo. L'animazione disneyana è invece viva e vegeta, e speriamo possa allietarci per molti anni ancora.
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Pier
giovedì 15 dicembre 2016
Rogue One: A Star Wars Story
Tra passato e presente
Jyn Erso è una ragazza che vive di espedienti da quando, quindici anni prima, l'Impero ha ucciso sua madre e rapito suo padre Galen, un ingegnere, per costruire un'arma di distruzione di massa. Quindici anni dopo, l'Alleanza Ribelle viene a sapere che l'arma, la Morte Nera, è pronta e sta per diventare operativa. L'ultima speranza risiede in un messaggio che Galen ha affidato a un pilota disertore dell'Impero, che si trova attualmente nelle mani di Saw Gerrera, carismatico leader di una fazione di ribelli indipendente dall'alleanza e vecchio amico di Galen.
La prima trilogia di Guerre Stellari è costruita, fin dal titolo del primo film, sul concetto di speranza. E' la speranza a sostenere le forze ribelli nella loro lotta apparentemente impari contro l'Impero; è la speranza a guidare Luke durante il suo addestramento Jedi e a permettergli di superare tutte le sconvolgenti scoperte sul suo passato. Quella speranza non era caduta dal cielo, ma era prima di tutto frutto del sacrificio e dell'abnegazione di uno sparuto gruppo di ribelli. Rogue One racconta la loro storia, e lo fa con grande efficacia narrativa, con una trama che non perde mai ritmo e ci trasporta in una galassia dove la speranza è quasi scomparsa, schiacciata dall'opprimente avanzata dell'esercito imperiale, in un viaggio tra mondi nuovi e famigliari che risulta forse il capitolo più riuscito a livello visivo dell'intera saga.
I nuovi personaggi sono ben caratterizzati e interessanti, una brancaleonesca accozzaglia di emarginati che si imbarca in una missione che sembra del tutto al di là delle loro possibilità. Il film, tuttavia, non ci fa spendere abbastanza tempo con loro per affezionarci per davvero, schiacciato com'è del desiderio/necessità di far comparire personaggi della saga storica: come già nell'Episodio VII, il passato finisce per soffocare il presente, impedendogli di respirare a fondo, e lasciando solo abbozzati degli spunti che avrebbero potuto rendere Rogue One il capitolo più riuscito dell'intera saga. Il film sembra quasi costretto a guardarsi indietro, con richiami continui allo storico film di cui narra gli antefatti: e se alcuni riferimenti sono interessanti e gettano luce su alcuni aspetti della storia originale, altri sono del tutto marginali, e avrebbero potuto avere meno spazio.
Il film resta comunque eccezionale, sorretto anche da prove attoriali di altissimo livello, da una Felicity Jones determinata e combattiva a un Forest Whitaker perfettamente a suo agio nei panni del vecchio leone all'ultima battaglia (il suo è forse il personaggio più sacrificato), passando per Donnie Yen (protagonista dello spettacolare Ip Man), il personaggio cui ci si affeziona di più per la sua incrollabile fede nella Forza che gli consente di combattere come uno Jedi pur essendo cieco e avendo a sua disposizione solo un bastone.
La nota forse più positiva del film è la regia di Gareth Edwards, che dimostra un amore per la materia e un'abilità tecnica di altissimo livello: dall'uso sapiente della prospettiva e delle dimensioni per rendere la grandezza di un oggetto alle scena d'apertura che ricorda quella di Inglorious Basterds per la capacità di costruire la tensione di un duello verbale, Edwards naviga i mari di Star Wars con mano da veterano. Il suo meglio lo dà nelle scene di battaglia, mai così spettacolari, e soprattutto in quella per le strade impolverate di Jedha, in cui si riconosce l'eco delle immagini delle odierne guerre in Medio Oriente, e in cui Edwards sembra connotare il film di un messaggio politico non banale. Da menzionare, infine, anche le ottime musiche di Giacchino, lui sì in grado di trovare un ottimo equilibrio tra citazionismo e originalità.
Rogue One è un ottimo nuovo capitolo della saga di Guerre Stellari, a parere di chi scrive inferiore solamente ai primi due film per capacità inventiva e forza espressiva. Rimane tuttavia un piccolo rammarico per un'occasione persa: il film avrebbe potuto serenamente essere il migliore di sempre se la produzione non avesse sacrificato la coesione narrativa, lo sviluppo dei personaggi e parte della capacità di emozionare sull'altare del fan service, dimenticando che ciò che ha reso grande Guerre Stellari sono proprio i personaggi. Un vero peccato, che rende solo "buono" un film che aveva tutto il potenziale per essere un piccolo capolavoro nel suo genere.
****
Pier
Jyn Erso è una ragazza che vive di espedienti da quando, quindici anni prima, l'Impero ha ucciso sua madre e rapito suo padre Galen, un ingegnere, per costruire un'arma di distruzione di massa. Quindici anni dopo, l'Alleanza Ribelle viene a sapere che l'arma, la Morte Nera, è pronta e sta per diventare operativa. L'ultima speranza risiede in un messaggio che Galen ha affidato a un pilota disertore dell'Impero, che si trova attualmente nelle mani di Saw Gerrera, carismatico leader di una fazione di ribelli indipendente dall'alleanza e vecchio amico di Galen.
La prima trilogia di Guerre Stellari è costruita, fin dal titolo del primo film, sul concetto di speranza. E' la speranza a sostenere le forze ribelli nella loro lotta apparentemente impari contro l'Impero; è la speranza a guidare Luke durante il suo addestramento Jedi e a permettergli di superare tutte le sconvolgenti scoperte sul suo passato. Quella speranza non era caduta dal cielo, ma era prima di tutto frutto del sacrificio e dell'abnegazione di uno sparuto gruppo di ribelli. Rogue One racconta la loro storia, e lo fa con grande efficacia narrativa, con una trama che non perde mai ritmo e ci trasporta in una galassia dove la speranza è quasi scomparsa, schiacciata dall'opprimente avanzata dell'esercito imperiale, in un viaggio tra mondi nuovi e famigliari che risulta forse il capitolo più riuscito a livello visivo dell'intera saga.
I nuovi personaggi sono ben caratterizzati e interessanti, una brancaleonesca accozzaglia di emarginati che si imbarca in una missione che sembra del tutto al di là delle loro possibilità. Il film, tuttavia, non ci fa spendere abbastanza tempo con loro per affezionarci per davvero, schiacciato com'è del desiderio/necessità di far comparire personaggi della saga storica: come già nell'Episodio VII, il passato finisce per soffocare il presente, impedendogli di respirare a fondo, e lasciando solo abbozzati degli spunti che avrebbero potuto rendere Rogue One il capitolo più riuscito dell'intera saga. Il film sembra quasi costretto a guardarsi indietro, con richiami continui allo storico film di cui narra gli antefatti: e se alcuni riferimenti sono interessanti e gettano luce su alcuni aspetti della storia originale, altri sono del tutto marginali, e avrebbero potuto avere meno spazio.
Il film resta comunque eccezionale, sorretto anche da prove attoriali di altissimo livello, da una Felicity Jones determinata e combattiva a un Forest Whitaker perfettamente a suo agio nei panni del vecchio leone all'ultima battaglia (il suo è forse il personaggio più sacrificato), passando per Donnie Yen (protagonista dello spettacolare Ip Man), il personaggio cui ci si affeziona di più per la sua incrollabile fede nella Forza che gli consente di combattere come uno Jedi pur essendo cieco e avendo a sua disposizione solo un bastone.
La nota forse più positiva del film è la regia di Gareth Edwards, che dimostra un amore per la materia e un'abilità tecnica di altissimo livello: dall'uso sapiente della prospettiva e delle dimensioni per rendere la grandezza di un oggetto alle scena d'apertura che ricorda quella di Inglorious Basterds per la capacità di costruire la tensione di un duello verbale, Edwards naviga i mari di Star Wars con mano da veterano. Il suo meglio lo dà nelle scene di battaglia, mai così spettacolari, e soprattutto in quella per le strade impolverate di Jedha, in cui si riconosce l'eco delle immagini delle odierne guerre in Medio Oriente, e in cui Edwards sembra connotare il film di un messaggio politico non banale. Da menzionare, infine, anche le ottime musiche di Giacchino, lui sì in grado di trovare un ottimo equilibrio tra citazionismo e originalità.
Rogue One è un ottimo nuovo capitolo della saga di Guerre Stellari, a parere di chi scrive inferiore solamente ai primi due film per capacità inventiva e forza espressiva. Rimane tuttavia un piccolo rammarico per un'occasione persa: il film avrebbe potuto serenamente essere il migliore di sempre se la produzione non avesse sacrificato la coesione narrativa, lo sviluppo dei personaggi e parte della capacità di emozionare sull'altare del fan service, dimenticando che ciò che ha reso grande Guerre Stellari sono proprio i personaggi. Un vero peccato, che rende solo "buono" un film che aveva tutto il potenziale per essere un piccolo capolavoro nel suo genere.
****
Pier
giovedì 8 dicembre 2016
Animali fantastici e dove trovarli
Expecto Sorpresam
New York, fine anni Venti. Newt Scamander è un esperto di creature magiche, che porta sempre con sè in una valigia. Cacciato da Hogwarts, arriva in America per liberare una delle sue creature. Per errore, scambia la sua valigia con quella di un non-mago, Jacob Kowalski, dando vita a una serie di incidenti che finiscono per inasprire una situazione già tesa: il mago oscuro Gellert Grinderwalt è evaso, e la città è sull'orlo di una guerra tra maghi e non-maghi.
E chi l'avrebbe mai detto? All'uscita del trailer non avrei scommesso un centesimo sul nuovo film ambientato nel mondo creato da JK Rowling, il primo senza Harry Potter e il primo scritto direttamente dall'autrice. Invece la Rowling riesce in pieno nell'impresa, partendo da quanto già fatto nei libri e costruendo un mondo familiare ma nuovo. La Rowling dà pieno sfogo al suo estro creativo non solo nell'invenzione delle diverse creature di Scamander, ma anche e soprattutto nell'ambientazione, suo punto di forza anche nei libri. La New York magica degli anni Venti sembra uscita da un libro di Fitzgerald in preda a delirio allucinatorio, e il parallelo tra reale e fantastico è al livello, e in alcuni casi supera, quello di Harry Potter per intelligenza e arguzia.
L'autrice non rinuncia nemmeno a dare un messaggio "sociale", come spesso accade nelle sue opere: rifiuto, repressione, bigottismo, e la consueta revanche degli ultimi sono solo alcuni tra i temi affrontati con grande delicatezza e abilità. I collegamenti con la trama della sua creatura più famosa sono disseminati con grande abilità, in una caccia al tesoro stimolante anziché tediosa.
Se la riuscita tematica è indubbia, qualche dubbio in più lo destano i personaggi : la Rowling fa centro con Scamander, creando un protagonista decisamente diverso da Harry, con punte di autismo e nessuna dote particolare per la magia, che si trova calato in una situazione decisamente al di là delle sue possibilità. I personaggi di contorno, però, sono scialbi e facilmente dimenticabili, soprattutto per quanto riguarda le due protagoniste femminili, di cui sfido chiunque a ricordarsi il nome al termine della visione. Rispetto a ciò cui ci aveva abituato la Rowling, un deciso passo indietro in termini di caratterizzazione.
Il tasto dolente resta comunque la regia di Yates, un miracolato della sua professione che, nonostante la direzione sciapa e incolore degli ultimi quattro capitoli della saga di Harry Potter (caratterizzati anche da alcune evidenti sgrammaticature inaccettabili per film di questo livello), viene richiamato alla regia di questo primo capitolo della nuova serie, e arriva appena alla sufficienza, salvato dalle invenzioni visive della Rowling (le creature su tutte) ma non riuscendo mai a uscire dai confini della mediocrità a livello di fotografia e, soprattutto, ritmo e tensione: lo splendido lavoro di Alfonso Cuaron nel Prigioniero di Azkaban è purtroppo solo un lontano ricordo.
Animali fantastici è un buon primo capitolo, capace di gettare le basi per un mondo nuovo e, al tempo stesso, familiare, vicino ai nostri ricordi ma in grado di liberarsene per esplorare territori inesplorati. Sinceramente, non era così facile aspettarselo.
*** 1/2
Pier
New York, fine anni Venti. Newt Scamander è un esperto di creature magiche, che porta sempre con sè in una valigia. Cacciato da Hogwarts, arriva in America per liberare una delle sue creature. Per errore, scambia la sua valigia con quella di un non-mago, Jacob Kowalski, dando vita a una serie di incidenti che finiscono per inasprire una situazione già tesa: il mago oscuro Gellert Grinderwalt è evaso, e la città è sull'orlo di una guerra tra maghi e non-maghi.
E chi l'avrebbe mai detto? All'uscita del trailer non avrei scommesso un centesimo sul nuovo film ambientato nel mondo creato da JK Rowling, il primo senza Harry Potter e il primo scritto direttamente dall'autrice. Invece la Rowling riesce in pieno nell'impresa, partendo da quanto già fatto nei libri e costruendo un mondo familiare ma nuovo. La Rowling dà pieno sfogo al suo estro creativo non solo nell'invenzione delle diverse creature di Scamander, ma anche e soprattutto nell'ambientazione, suo punto di forza anche nei libri. La New York magica degli anni Venti sembra uscita da un libro di Fitzgerald in preda a delirio allucinatorio, e il parallelo tra reale e fantastico è al livello, e in alcuni casi supera, quello di Harry Potter per intelligenza e arguzia.
L'autrice non rinuncia nemmeno a dare un messaggio "sociale", come spesso accade nelle sue opere: rifiuto, repressione, bigottismo, e la consueta revanche degli ultimi sono solo alcuni tra i temi affrontati con grande delicatezza e abilità. I collegamenti con la trama della sua creatura più famosa sono disseminati con grande abilità, in una caccia al tesoro stimolante anziché tediosa.
Se la riuscita tematica è indubbia, qualche dubbio in più lo destano i personaggi : la Rowling fa centro con Scamander, creando un protagonista decisamente diverso da Harry, con punte di autismo e nessuna dote particolare per la magia, che si trova calato in una situazione decisamente al di là delle sue possibilità. I personaggi di contorno, però, sono scialbi e facilmente dimenticabili, soprattutto per quanto riguarda le due protagoniste femminili, di cui sfido chiunque a ricordarsi il nome al termine della visione. Rispetto a ciò cui ci aveva abituato la Rowling, un deciso passo indietro in termini di caratterizzazione.
Il tasto dolente resta comunque la regia di Yates, un miracolato della sua professione che, nonostante la direzione sciapa e incolore degli ultimi quattro capitoli della saga di Harry Potter (caratterizzati anche da alcune evidenti sgrammaticature inaccettabili per film di questo livello), viene richiamato alla regia di questo primo capitolo della nuova serie, e arriva appena alla sufficienza, salvato dalle invenzioni visive della Rowling (le creature su tutte) ma non riuscendo mai a uscire dai confini della mediocrità a livello di fotografia e, soprattutto, ritmo e tensione: lo splendido lavoro di Alfonso Cuaron nel Prigioniero di Azkaban è purtroppo solo un lontano ricordo.
Animali fantastici è un buon primo capitolo, capace di gettare le basi per un mondo nuovo e, al tempo stesso, familiare, vicino ai nostri ricordi ma in grado di liberarsene per esplorare territori inesplorati. Sinceramente, non era così facile aspettarselo.
*** 1/2
Pier
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