venerdì 25 ottobre 2013

Cose nostre - Malavita

Commedia nera in salsa gangster



Giovanni Manzoni è un boss mafioso che ha deciso di collaborare con la giustizia. I suoi vecchi compagni, che ha contribuito a mandare in galera, lo vogliono morto, e così Giovanni è costretto a muoversi continuamente, assumendo identità fittizie, aiutato dal programma protezione testimoni dell'FBI. Insieme alla moglie e ai due figli arriva così in una cittadina della Normandia. La famiglia, dopo qualche difficoltà iniziale, riuscirà a integrarsi nella realtà locale, ovviamente a modo suo.

Tratto dal romanzo Malavita di Tonino Benacquista, il film di Luc Besson risente fortemente dell'influenza del cinema di Martin Scorsese, qui produttore, ma soprattutto delle più recenti rivisitazioni delle famiglie mafiose italoamericane come I Sopranos. Besson mescola infatti sapientemente humor e sparatorie, commedia nera, thriller e noir, con tocchi tarantiniani e incursioni negli stilemi della commedia adolescenziale.
La miscela è ben riuscita, con ritmi elevati e una trama che, nonostante non brilli per originalità, gioca con intelligenza con gli stereotipi del genere, rielaborandoli con intelligenza e personalità.
La presenza di De Niro regala alcuni momenti di metacinema sottili ma esilaranti, soprattutto quando il suo personaggio si ritrova a dover commentare Quei Bravi Ragazzi con un sorriso divertito sul volto: dove inizia Giovanni Manzoni, e dove finisce il De Niro attore?

Il cast regala un'ottima prova corale, da De Niro alla moglie-madre di famiglia della Pfeiffer, passando per due figli adolescenti con attitudine all'estorsione e alla violenza, interpretati da Dianna Agron, reduce di Glee, e il promettente John D´Leo, che il truccatore dota di neo à-la-De Niro. Su tutti spicca però il federale disilluso ed esasperato di Tommy Lee-Jones, perfetto come sempre nel sottile equilibrio tra durezza e gelida ironia.

Cose nostre - Malavita (ma c'era davvero bisogno della solito, inutile "aggiunta" nel titolo italiano? Malavita non era chiaro?) non brilla per originalità di trama e tematiche, ma ha il pregio di affrontare il genere e rielaborarlo con sapienza e gusto cinematografico, regalando allo spettatore 111 minuti di intrattenimento di alta qualità.

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Pier

lunedì 7 ottobre 2013

Yasujiro Ozu - I dimenticati: puntata 10


Torna la rubrica “I dimenticati”, dedicata a quei personaggi che hanno fatto grande il cinema, ma non godono della giusta celebrità tra il grande pubblico.


Oggi parliamo di Yasujiro Ozu, regista giapponese nato il 12 dicembre 1903 a Tokyo.
Ozu sviluppa un amore per il cinema fin dalla giovane età, ma inizia la sua avventura professionale nel settore grazie a uno zio, che lo raccomanda al direttore della casa di produzione Shochiku.
Comincia così a lavorare per il grande studio, nonostante all’inizio debba accontentarsi del ruolo di assistente cameraman (lavoro ritenuto poco rispettabile all'epoca).
Dopo essere diventato assistente alla regia di Tadamoto Okubo, mette insieme il suo primo script e gira il suo primo film, La spada della penitenza (Zange no yaiba, 1927), andato purtroppo perduto. Prima di completarlo viene però chiamato alle armi, e  il film viene terminato da Torajiro Sato.

I film di Yasujiro Ozu esaminano le lotte basilari che caratterizzano la vita e la società: i cicli di nascita e morte, il passaggio dall'infanzia all'età adulta e la tensione tra tradizione e modernità. I titoli spesso enfatizzano il cambiamento delle stagioni, sfondo simbolico delle transizioni evolutive delle esperienze umane. Vista nel suo insieme, l'opera di Ozu risulta una delle più profonde descrizioni della vita familiare nella storia del cinema.
La carriera di Ozu si può dividere in due parti, pre e post II Guerra Mondiale. Nei primi lavori si scorge l'influenza dei melodrammi di Hollywood: Ozu in particolare si sarebbe ispirato a Ernst Lubitsch, anche se più volte avrebbe affermato l'assoluta 'indipendenza' dei suoi lungometraggi. Nelle opere più mature, invece, spicca uno stile più contemplativo e 'semplice', con la rinuncia quasi totale a tutti gli stilemi classici della grammatica cinematografica.

Days Of Youth (Wakaki Hi, 1929) è la più vecchia pellicola di Ozu arrivata ai giorni nostri (delle sette precedenti non rimane traccia). Si tratta di una commedia, dallo stile registico ancora acerbo, nella quale due studenti universitari, in gita sulle nevi, prendono una cotta per la stessa ragazza.
E' del 1932 quello che è generalmente riconosciuto come il primo film importante di Ozu, Sono nato, ma... (Umarete wa Mita keredo…), che ottiene grande successo di pubblico e critica in Giappone. La pellicola inizia come una commedia keatoniana ma si trasforma presto in un confronto tra l'innocenza dell'infanzia e l'ipocrisia degli adulti. 



Negli anni '30 i protagonisti di Ozu sono tutti esponenti della classe media. In questo periodo, in Giappone è molto apprezzato per l'onestà e l'attualità il genere shomin-geki ("dramma con persone come te e me"). La povertà - assieme alle differenze di classe - è la rovina di questi personaggi, ma già nel 1934 Ozu insegna che l'accettazione è la chiave di tutto. Storia di erbe fluttuanti (Ukigusa Monogatari) vede il leader di un piccolo gruppo di attori girovaghi incontrare il figlio, nato anni prima da una vecchia relazione. Ozu trasforma un racconto dal sapore melodrammatico in uno studio suggestivo ed intenso sulle certezze e sul futuro.
Un anno dopo, Ozu mostra la depressione che ha colpito il Giappone in Una locanda di Tokyo (Tokyo no Yado, 1935), una delle sue opere più commoventi. Un padre e il giovane figlio arrancano per i vicoli di Tokyo in cerca di lavoro e, con i loro pochi averi, devono scegliere ogni giorno tra il cibo e un riparo. La pellicola per molti versi anticipa il neorealismo del De Sica di Ladri di biciclette (1948), ma qui il finale è ancora più potente.
Sebbene il sonoro avesse raggiunto il Giappone nel 1935, Ozu, come Chaplin, preferisce ancora il muto, non rinunciando però all'utilizzo della musica.


Durante la guerra, Ozu realizza solo due film, Fratelli e sorelle della famiglia Toda (Toda-ke no Kyodai, 1941) e C'era un padre (Chichi Ariki, 1942), diventato poi un classico del cinema giapponese. Dopo  sei mesi in un campo di prigionia britannico vicino a Singapore, Ozu nel 1946 torna nella Tokyo ancora ferita e gira Tarda primavera (Banshun, 1949), un film che rifarà, con 'variazioni sul tema', molte volte in seguito. Una giovane donna (Setsuko Hara) che vive felicemente con il padre vedovo (Chishu Ryu), non prende in considerazione il matrimonio, preferendo il suo stato di dipendenza, che non comporta le responsabilità derivanti dalla gravidanza e dai doveri domestici. Il padre, temendo per la figlia una vita solitaria, la porta quindi a credere che intende risposarsi, 'affrancandola' così dalle sue preoccupazioni.
Alla fine del 1940 si fa più forte in Ozu la volontà di minimizzare la propria tecnica. Riduce quindi a zero i movimenti di macchina, introduce la "regola a 360 gradi" (in cui si incrociano gli assi immaginari disegnati tra due attori che parlano tra loro) e porta ogni personaggio a guardare dritto in macchina durante le conversazioni, ponendo lo spettatore nel centro delle stesse. Inoltre, decide di ridurre gli effetti di transizione, concentrando così l'attenzione sui personaggi ed esasperando la loro umanità.
Un primo esempio di questo cambiamento di stile è Il tempo del raccolto del grano del 1951 (Bakushu). Il è incentrato su una giovane donna che si ribella alla famiglia e decide di scegliere da sola il proprio marito. Attraverso storie parallele, Ozu osserva meticolosamente anche le vite di altri19 personaggi, espandendo i confini della trama principale del film, dimostrando una padronanza straordinaria nell'uso di spazio e tempo per costruire il ritmo della narrazione.

Il capolavoro di Ozu è  però generalmente considerato Viaggio a Tokyo (Tokyo Monogatari, 1953), racconto del conflitto generazionale tra una coppia di anziani in visita a Tokyo e i loro figli, che rivelano tutta la loro indifferenza verso i genitori. L'ingratitudine servirà a rivelare differenze emotive inconciliabili, che tuttavia i genitori accettano serenamente prima di far ritorno a casa. Ozu esamina la lenta frattura nella famiglia giapponese, ma mostra come la quieta rassegnazione e l'accettazione portino alla consapevolezza che la tradizione è soggetta a mutamenti. Qui la forma cinematografica di Ozu raggiunge il suo zenit. L'apparente mancanza di trama (non di storia, ma di eventi) è sostituita da una serie di momenti che hanno un effetto cumulativo e di ellissi. Ozu prepara lo spettatore ad una scena e poi semplicemente elide l'intero evento, mantenendone il mood e il tono senza bisogno di rappresentare gli eventi eliminati.


Inizio di primavera (Soshun, 1956) è il film più lungo di Ozu (144') e racconta di un giovane impiegato di Tokyo annoiato dal lavoro e dalla moglie. Ha una storia clandestina con una collega, che porta a un litigio con la consorte, e alla fine accetta un trasferimento in un piccolo centro. Così come inVivere (Ikiru) di Akira Kurosawa (1952), anche qui si mette in discussione il senso di passare tutta la tua vita dietro a una scrivania.
Nel 1958, Ozu fa il grande salto nel mondo del cinema a colori con Fiori d'equinozio (Higan-Bana), ennesimo approfondimento della vita familiare, presentato dal punto di vista delle giovani generazioni. L'uso del colore dà tono al film ed esalta la bellezza della protagonista, Fujiko Yamamoto.
Tutti i film successivi saranno a colori, e tra questi va senza dubbio ricordato Erbe fluttuanti (Ukigusa, 1959), per il quale Ozu si avvale di Kazuo Miyagawa, uno dei più grandi direttori della fotografia del Giappone, autore tra gli altri di Rashomon (1951) e Yojimbo (1961) di Kurosawa e di Ugetsu Monogatari (1953) di Mizoguchi.

In Tardo Autunno (Akibiyori, 1960) una giovane donna e la madre, con la quale vive, sono alle prese con tre amici del marito/padre defunto che provano a convincerle a farsi una nuova vita. Il film contiene alcuni dei momenti più divertenti dell'intera cinematografia di Ozu e presenta un personaggio femminile insolitamente schietto (quello di Mariko Okada), riflesso della moderna donna giapponese nel 1960.
L'ultimo film di Ozu, che morirà l'anno successivo per un cancro alla gola, è Il gusto del sakè (Sanma no aji, 1962), pellicola senza dubbio influenzata dalla morte, avvenuta durante le riprese, della madre. Si tratta di una meditazione serena sull'invecchiamento e la solitudine, in cui fanno capolino alcune sequenze più leggere.




La filmografia di Yasujiro Ozu ci presenta un incredibile studio della famiglia giapponese e dei cambiamenti da questa affrontati negli anni. Il nobilitare la monotonia del mondo in cui vive la famiglia borghese ha portato Ozu a essere etichettato come “il più giapponese” tra i registi giapponesi tradizionali e, proprio per questo motivo, i suoi film sono stati sdoganati in Occidente solo negli anni '70, poiché ritenuti poco fruibili o interessanti per il pubblico medio di questa parte del mondo.
Lo spettatore che intende imbarcarsi in questa doverosa riscoperta scoprirà una sensibilità e una visione del mondo uniche e peculiari, raccontate da un punto di vista disincantato, ma anche rilassato e pacifico. I film di Ozu non si limitano a una semplice riflessione sulla morte, ma toccano tutti gli aspetti della vita, costituendo una sorta di risposta emotiva alla bellezza della natura, alla transitorietà della vita e al dolore della morte. 

Alessandro G.

venerdì 4 ottobre 2013

Gravity

Immagini dallo spazio profondo



Ryan Stone, una ricercatrice finanziata dalla NASA, si trova nello spazio per raccogliere gli ultimi dati necessari alla sua ricerca. Insieme a lei c'è Matt Kowalsky, astronauta veterano all'ultima missione. Mentre stanno lavorando a delle riparazioni fuori dalla stazione orbitale, i due vengono investiti da una tempesta di meteoriti, che distrugge la stazione e li scaraventa nello spazio. Dovranno trovare il modo di muoversi in assenza di gravità e comunicazioni radio, nel disperato tentativo di raggiungere un'altra stazione spaziale e tornare sulla Terra.

Diciamolo subito: Gravity è un film rivoluzionario. Era dai tempi di 2001 - Odissea nello Spazio che non si assisteva a una tale innovazione dei linguaggi espressivi nel genere fantascientifico, a una tale sorprendente innovazione delle tecniche di ripresa. Attraverso un uso sapiente del 3D, Cuaròn riesce a trasmettere allo spettatore l'infinita profondità dello spazio, l'horror vacui cosmico che attanaglia chi si trova a doverlo affrontare, la totale impotenza di chi ne viene risucchiato. La vera rivoluzione è però nello stile di ripresa, con una camera "no-gravity" che, muovendosi senza avere un punto di posa preciso, simula l'assenza di gravità e restituisce la sensazione straniante che si prova muovendosi nello spazio. 

A supporto di queste innovazioni tecnologiche abbiamo una regia magistrale: Cuaròn segue e sviluppa la sua idea con convinzione e rigore, combinando alla perfezione tutti gli elementi del film, dal sonoro alla fotografia, che regala immagini di rara bellezza dentro (Sandra Bullock che "rinasce" dopo essere riuscita a mettersi momentaneamente in salvo) e fuori dalle stazioni spaziali.
La trama, d'altro canto, è tutt'altro che rivoluzionaria, finendo per essere addirittura scontata in alcuni momenti. La forza visiva delle scene e l'ottima prova dei due protagonisti, tuttavia, riescono a sopperire ai deficit di sceneggiatura, regalando un film intenso, destinato a cambiare radicalmente il modo in cui vengono girati e concepiti i film di fantascienza.

Gravity è un film che colpisce per la forza delle immagini, e che fa riflettere su come le nuove tecnologie digitali, se usate a fini espressivi, e non puramente decorativi, possano arricchire l'arte cinematografica di linguaggi nuovi e inaspettati, aprendo strade che, fino a pochi anni fa, sembravano del tutto impossibili.

****1/2

Pier