Torna la rubrica “I dimenticati”, dedicata a quei personaggi che hanno fatto grande il cinema, ma non godono della giusta celebrità tra il grande pubblico.
Oggi parliamo di Yasujiro Ozu, regista giapponese nato il 12
dicembre 1903 a Tokyo.
Ozu sviluppa un amore per il cinema fin dalla giovane età, ma inizia
la sua avventura professionale nel settore grazie a uno zio, che lo raccomanda
al direttore della casa di produzione Shochiku.
Comincia così a lavorare per il grande studio, nonostante all’inizio
debba accontentarsi del ruolo di assistente cameraman (lavoro ritenuto poco
rispettabile all'epoca).
Dopo essere diventato assistente alla regia di Tadamoto Okubo,
mette insieme il suo primo script e gira il suo primo film, La spada della
penitenza (Zange no yaiba, 1927),
andato purtroppo perduto. Prima di completarlo viene però chiamato alle armi,
e il film viene terminato da Torajiro
Sato.
I film di Yasujiro Ozu esaminano le lotte basilari che caratterizzano
la vita e la società: i cicli di nascita e morte, il passaggio dall'infanzia
all'età adulta e la tensione tra tradizione e modernità. I titoli spesso
enfatizzano il cambiamento delle stagioni, sfondo simbolico delle transizioni
evolutive delle esperienze umane. Vista nel suo insieme, l'opera di Ozu risulta
una delle più profonde descrizioni della vita familiare nella storia del
cinema.
La carriera di Ozu si può dividere in due parti, pre e post II
Guerra Mondiale. Nei primi lavori si scorge l'influenza dei melodrammi di
Hollywood: Ozu in particolare si sarebbe ispirato a Ernst Lubitsch, anche se
più volte avrebbe affermato l'assoluta 'indipendenza' dei suoi lungometraggi.
Nelle opere più mature, invece, spicca uno stile più contemplativo e
'semplice', con la rinuncia quasi totale a tutti gli stilemi classici della
grammatica cinematografica.
Days Of Youth (Wakaki Hi, 1929) è la più vecchia
pellicola di Ozu arrivata ai giorni nostri (delle sette precedenti non rimane
traccia). Si tratta di una commedia, dallo stile registico ancora acerbo, nella
quale due studenti universitari, in gita sulle nevi, prendono una cotta per la
stessa ragazza.
E' del 1932 quello che è generalmente riconosciuto come il primo
film importante di Ozu, Sono nato, ma... (Umarete wa Mita keredo…),
che ottiene grande successo di pubblico e critica in Giappone. La pellicola inizia
come una commedia keatoniana ma si trasforma presto in un confronto tra
l'innocenza dell'infanzia e l'ipocrisia degli adulti.
Negli anni '30 i protagonisti di Ozu sono tutti esponenti della classe media. In questo periodo, in Giappone è molto apprezzato per l'onestà e l'attualità il genere shomin-geki ("dramma con persone come te e me"). La povertà - assieme alle differenze di classe - è la rovina di questi personaggi, ma già nel 1934 Ozu insegna che l'accettazione è la chiave di tutto. Storia di erbe fluttuanti (Ukigusa Monogatari) vede il leader di un piccolo gruppo di attori girovaghi incontrare il figlio, nato anni prima da una vecchia relazione. Ozu trasforma un racconto dal sapore melodrammatico in uno studio suggestivo ed intenso sulle certezze e sul futuro.
Un anno dopo, Ozu mostra la depressione che ha colpito il Giappone
in Una locanda di Tokyo (Tokyo no Yado, 1935), una delle sue
opere più commoventi. Un padre e il giovane figlio arrancano per i vicoli di
Tokyo in cerca di lavoro e, con i loro pochi averi, devono scegliere ogni
giorno tra il cibo e un riparo. La pellicola per molti versi anticipa il
neorealismo del De Sica di Ladri di biciclette (1948), ma qui il finale
è ancora più potente.
Sebbene il sonoro avesse raggiunto il Giappone nel 1935, Ozu, come
Chaplin, preferisce ancora il muto, non rinunciando però all'utilizzo della
musica.
Durante la guerra, Ozu realizza solo due film, Fratelli e
sorelle della famiglia Toda (Toda-ke no Kyodai, 1941) e C'era un
padre (Chichi Ariki, 1942), diventato poi un classico del cinema
giapponese. Dopo sei mesi in un campo di
prigionia britannico vicino a Singapore, Ozu nel 1946 torna nella Tokyo ancora
ferita e gira Tarda primavera (Banshun, 1949), un film che
rifarà, con 'variazioni sul tema', molte volte in seguito. Una giovane donna
(Setsuko Hara) che vive felicemente con il padre vedovo (Chishu Ryu), non
prende in considerazione il matrimonio, preferendo il suo stato di dipendenza,
che non comporta le responsabilità derivanti dalla gravidanza e dai doveri
domestici. Il padre, temendo per la figlia una vita solitaria, la porta quindi
a credere che intende risposarsi, 'affrancandola' così dalle sue preoccupazioni.
Alla fine del 1940 si fa più forte in Ozu la volontà di
minimizzare la propria tecnica. Riduce quindi a zero i movimenti di macchina,
introduce la "regola a 360 gradi" (in cui si incrociano gli assi
immaginari disegnati tra due attori che parlano tra loro) e porta ogni
personaggio a guardare dritto in macchina durante le conversazioni, ponendo lo
spettatore nel centro delle stesse. Inoltre, decide di ridurre gli effetti di
transizione, concentrando così l'attenzione sui personaggi ed esasperando la
loro umanità.
Un primo esempio di questo cambiamento
di stile è Il tempo del raccolto del grano del 1951 (Bakushu).
Il è incentrato su una giovane donna che si ribella alla famiglia e decide di
scegliere da sola il proprio marito. Attraverso storie parallele, Ozu osserva
meticolosamente anche le vite di altri19 personaggi, espandendo i confini della
trama principale del film, dimostrando una padronanza straordinaria nell'uso di
spazio e tempo per costruire il ritmo della narrazione.
Il capolavoro di Ozu è però
generalmente considerato Viaggio a Tokyo (Tokyo Monogatari,
1953), racconto del conflitto generazionale tra una coppia di anziani in visita
a Tokyo e i loro figli, che rivelano tutta la loro indifferenza verso i
genitori. L'ingratitudine servirà a rivelare differenze emotive inconciliabili,
che tuttavia i genitori accettano serenamente prima di far ritorno a casa. Ozu
esamina la lenta frattura nella famiglia giapponese, ma mostra come la quieta
rassegnazione e l'accettazione portino alla consapevolezza che la tradizione è
soggetta a mutamenti. Qui la forma cinematografica di Ozu raggiunge il suo
zenit. L'apparente mancanza di trama (non di storia, ma di eventi) è sostituita
da una serie di momenti che hanno un effetto cumulativo e di ellissi. Ozu
prepara lo spettatore ad una scena e poi semplicemente elide l'intero evento,
mantenendone il mood e il tono senza bisogno di rappresentare gli eventi
eliminati.
Inizio di primavera (Soshun, 1956) è il film più lungo di Ozu (144') e racconta di un giovane impiegato di Tokyo annoiato dal lavoro e dalla moglie. Ha una storia clandestina con una collega, che porta a un litigio con la consorte, e alla fine accetta un trasferimento in un piccolo centro. Così come inVivere (Ikiru) di Akira Kurosawa (1952), anche qui si mette in discussione il senso di passare tutta la tua vita dietro a una scrivania.
Nel 1958, Ozu fa il grande salto nel mondo del cinema a colori con
Fiori d'equinozio (Higan-Bana), ennesimo approfondimento della
vita familiare, presentato dal punto di vista delle giovani generazioni. L'uso
del colore dà tono al film ed esalta la bellezza della protagonista, Fujiko
Yamamoto.
Tutti i film successivi saranno a colori, e tra questi va senza
dubbio ricordato Erbe fluttuanti (Ukigusa, 1959), per il quale
Ozu si avvale di Kazuo Miyagawa, uno dei più grandi direttori della fotografia
del Giappone, autore tra gli altri di Rashomon (1951) e Yojimbo (1961)
di Kurosawa e di Ugetsu Monogatari (1953) di Mizoguchi.
In Tardo Autunno (Akibiyori, 1960) una giovane donna e la madre, con la quale vive, sono alle prese con tre amici del marito/padre defunto che provano a convincerle a farsi una nuova vita. Il film contiene alcuni dei momenti più divertenti dell'intera cinematografia di Ozu e presenta un personaggio femminile insolitamente schietto (quello di Mariko Okada), riflesso della moderna donna giapponese nel 1960.
L'ultimo film di Ozu, che morirà l'anno successivo per un cancro
alla gola, è Il gusto del sakè (Sanma no aji, 1962), pellicola
senza dubbio influenzata dalla morte, avvenuta durante le riprese, della madre.
Si tratta di una meditazione serena sull'invecchiamento e la solitudine, in cui
fanno capolino alcune sequenze più leggere.
La filmografia di Yasujiro Ozu ci presenta un incredibile studio della famiglia giapponese e dei cambiamenti da questa affrontati negli anni. Il nobilitare la monotonia del mondo in cui vive la famiglia borghese ha portato Ozu a essere etichettato come “il più giapponese” tra i registi giapponesi tradizionali e, proprio per questo motivo, i suoi film sono stati sdoganati in Occidente solo negli anni '70, poiché ritenuti poco fruibili o interessanti per il pubblico medio di questa parte del mondo.
Lo spettatore che intende imbarcarsi in questa doverosa riscoperta
scoprirà una sensibilità e una visione del mondo uniche e peculiari, raccontate
da un punto di vista disincantato, ma anche rilassato e pacifico. I film di Ozu
non si limitano a una semplice riflessione sulla morte, ma toccano tutti gli
aspetti della vita, costituendo una sorta di risposta emotiva alla bellezza
della natura, alla transitorietà della vita e al dolore della morte.
Alessandro G.
Alessandro G.
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