sabato 27 luglio 2024

Deadpool & Wolverine

Il finto stupido


Wade Wilson ha smesso di essere Deadpool, ma la sua vita non ha preso una bella piega. Vanessa lo ha lasciato, e il suo lavoro come venditore di auto arranca. Un giorno viene però rapito dalla TVA, che gli comunica che la sua linea temporale sta per morire. Ma Deadpool non ha intenzione di lasciare che accada. Per salvare coloro che ama ha però bisogno dell'aiuto del compagno più improbabile che ci sia: Wolverine.

C'è un archetipo letterario che è particolarmente amato dal cinema e dalla televisione, quello del finto stupido: il personaggio che sembra ingenuo e idiota, un bonaccione incapace di alcuna furbizia o sottigliezza, e che si rivela invece un passo avanti agli altri, dotato di una profondità impossibile da intuire alla vista. Da Kaiser Soze ad Hanamichi Sakuragi, gli esempi si sprecano. Deadpool è un finto stupido da manuale, e una delle grandi intuizioni di Ryan Reynolds è stata quella di tradurre questa caratteristica a livello metanarrativo, costruendo due film che all'apparenza erano solo degli ottovolanti colorati, fracassoni, e politicamente scorretti, ma in realtà raccontavano (soprattutto il primo) traumi, perdite, senso di inadeguatezza molto meglio di film molto più celebrati e "seri."

In Deadpool & Wolverine questa operazione viene portata alle sue estreme conseguenze: Shawn Levy firma un film iperstratificato che a tratti arriva a essere meta-metanarrativo - un meta al quadrato in cui si racconta non solo l'atto del narrare, ma il contesto che circonda il narratore, la macchina produttiva in cui si trova immerso. Deadpool è Ryan Reynolds, e viceversa, e questa identità non viene nascosta ma diviene parte del punto di vista del mercenario più loquace di sempre, il narratore che ci porta a spasso per il Multiverso, e in particolare nella sua parte ormai morta: l'universo Fox.

Finto stupido, olio su tela

Deadpool & Wolverine è infatti, prima di tutto, una lettera d'amore a un genere e a un'epoca, quella Fox, che è stata superata dal nuovo corso dei cinecomic, fatti di universi condivisi, crossover, e storie che compongono un puzzle più grande. Nel celebrare queste storie, il "finto stupido" tira stilettate non indifferenti a chi le ha fatte finire del Vuoto, pronte a essere divorate dal MCU Disney, qui impersonato da Alioth, mostro che condanna all'oblio. Se questo riferimento non fosse abbastanza, la villain, Cassandra Nova (interpretata da un'eccellente Emma Corrin) è una telepate che mette le mani nei ricordi ed è in grado di alterarli, modificarli, riplasmarli a suo piacimento: anche qui, il riferimento a Disney e alla sua operazione di ri-costruzione di un universo, con conseguente accantonamento di tutto ciò che non può essere integrato, è abbastanza palese. 
L'amore di Reynolds e Levy per il materiale si vede anche nella scelta dei cameo, mai scontati né dettati dalla popolarità, ma solo da un genuino amore per ciò che è stato e ciò che poteva essere, errori e passi falsi compresi. 

Al centro della narrazione c'è il simbolo di questo universo morente, nonché sua unica speranza di salvezza: quel Wolverine/Logan che avevamo salutato in una sua incarnazione nello splendido Logan (qui omaggiato in modo irriverente e, dunque, paradossalmente rispettoso) e che torna in quella che forse è la sua apparizione più vicina alla sua controparte fumettistica. La venerazione di Reynolds per Hugh Jackman è quella dei fan, che lo amano per aver sempre dato tutto se stesso al personaggio, anche nei film peggiori, anche quando era ormai un attore affermato. Ma è anche quella di Deadpool stesso, in un gioco di incroci meta che non stanca ma rafforza ogni suo elemento, rendendolo godibile e facendo esultare spettatori e personaggi all'unisono in momenti di fan service mai gratuiti, ma sempre integrali alla trama. Jackman risponde regalando una prestazione stellare, divertente, dolente, rabbiosa, accettando di prendersi in giro e, al tempo stesso, prendendo tutto tremendamente sul serio.


È in questo bilanciamento tra scanzonatura e serietà, parodia e omaggio, fan service e attenzione alle esigenze narrative che sta la forza di Deadpool & Wolverine: dietro una patina di volgarità, violenza, e battute demenziali si nasconde un film pieno di cuore e amore per i personaggi, nonché il film che ha saputo utilizzare meglio il concetto di Multiverso a fini narrativi, superando anche altri tentativi ben riusciti come No Way Home (dove però il Multiverso era solo un "pericolo incombente") e il secondo Doctor Strange (dove il Multiverso era solo un'ambientazione, per quanto ben sfruttata). Non tutto funziona alla perfezione, con qualche lungaggine evitabile e alcuni punti di trama (il rapporto tra Deadpool e Vanessa) affrontati troppo rapidamente, ma il risultato è comunque eccellente - un piatto che soddisfa nonostante la molteplicità di ingredienti buttati nella pentola, solo apparentemente a casaccio. 

Deadpool & Wolverine è divertente, fracassone, e lascerà i fan a bocca aperta con le sue invenzioni, i suoi combattimenti (quello sulle note di Like a Prayer è già da antologia) e le sue battute. Tuttavia, è anche qualcosa di più: un omaggio a un'epoca e a dei personaggi che hanno suscitato emozioni e raccontato storie che rimarranno con gli appassionati; un inno al potere della memoria e dei legami personali, unica costante in un universo in continuo cambiamento. Un finto stupido, appunto, che tocca le corde emotive dello spettatore molto più in profondità di quanto faccia intendere.

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Pier

venerdì 26 luglio 2024

Fuga in Normandia (In pillole #28)

Fare i conti con il passato


La storia (vera) della rocambolesca fuga in Normandia di un veterano inglese del D-day residente in casa di riposo è in realtà un pretesto per parlare di uno dei temi più presenti e, evidentemente, pressanti del cinema contemporaneo: la memoria. Il racconto del viaggio si interseca infatti con i ricordi di Bernard, che in Normandia ci andò ben due volte, e di Rene, che ricorda il loro incontro, il dolore nel vederlo partire, e la loro vita insieme. Ma si interseca anche con la memoria di interi popoli e nazioni, rappresentati dalle persone che Bernard incontra durante il suo viaggio: altri reduci, tormentati da ricordi indelebili, da colpe irrimediabili per cui l'unica speranza sono l'assoluzione e il dolce balsamo dell'oblio.

Fuga in Normandia è anche un film che parla di pace, di dialogo, dell'orrore della guerra che travolge persone che si trovano per puro caso dalle due parti opposte della barricata, e che in tempi normali potrebbero condividere una birra, e che sono unite da un dolore immenso, che può però divenire occasione di riconciliazione, come suggerito in una delle scene più riuscite del film.

Il grande merito di William Ivory (sceneggiatore) e Oliver Parker (regista) è quello di riuscire ad affrontare questi temi senza retorica e senza indulgere nello sdolcinato, ma alternando sapientemente momenti divertenti a momenti di grande potenza emotiva. A sostenerli ci sono le superbe prove di Michael Caine e Glenda Jackson, che si offrono alla macchina da presa senza aver paura di mostrare i segni della vecchiaia, regalandoci una coppia memorabile per complicità e realismo, e mostrando al pubblico il vero significato della parola "amore." 

Questo film, che sarà per entrambi il loro ultimo lavoro, (Caine ha annunciato il ritiro dalle scene, mentre Jackson è morta poco dopo la fine delle riprese) è un testamento perfetto a due carriere esemplari, e a una storia finora sconosciuta ma che invece ha tanto da insegnarci sui lati più oscuri e più brillanti della natura umana.

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Pier

sabato 20 luglio 2024

Fremont

Poesia della solitudine


Costretta a lasciare l'Afghanistan, dove lavorava come interprete per l'esercito USA, dopo il ritorno al potere dei Talebani, Donya ora vive a Fremont e lavora a San Francisco in un'azienda che produce biscotti della fortuna. La ragazza cerca di ricostruirsi una vita, facendosi strada tra i traumi del passato che le impediscono di dormire e personaggi bizzarri ma ricchi di cuore.

Ci sono film che ti fanno uscire dal cinema con il cuore pieno di bellezza e poesia, un sorriso stampato sul volto. Fremont è uno di quei film: un film all'apparenza semplice, senza pretese, che però entra sotto pelle per la sua capacità di trattare temi complessi senza pietismo né retorica, ma semplicemente attraverso immagini, dialoghi, e personaggi cui è impossibile non affezionarsi. 

Babak Jalali, coadiuvato alla scrittura dalla milanese Carolina Cavalli, firma un'opera che ricorda il Jarmush delle origini, sia per lo splendido bianco e nero con cui viene fotografata, sia per una storia i cui ingredienti sono una spolverata di humor dell'assurdo e tante solitudini che si incontrano quasi per caso e si riconoscono, rispettando i dolori e i non detti l'uno dell'altra e trovando una connessione umana ed emotiva.

Donya è straniata, fa parte di più mondi senza appartenere davvero a nessuno: alcuni afghani della sua comunità la respingono perché ha collaborato con il nemico, la moglie del suo capo non si fida di lei perché non è cinese, e non riesce (e forse non vuole) a integrarsi nella società statunitense. Il suo passato è fatto di traumi, e solo nelle sedute psicologiche con l'eccentrico dottor Anthony riesce a far emergere ciò che ha a lungo sopito, i mostri che intuiamo dai suoi lunghi ma eloquentissimi silenzi. Jalali tuttavia non indulge nel dramma, ma si focalizza sulle relazioni, sui legami sottili e poi sempre più spessi che portano Donya a uscire dal suo isolamento, a ritrovare la sua socialità, come lo Zanna Bianca spesso citato dal dottor Anthony durante le sedute. 

Oltre al dottore, ad aiutarla ci sono un capo cinese dallo humor particolare che vede la produzione di biscotti della fortuna come un'arte che va affinata e coltivata, e ha imparato nel tempo a leggere il cuore delle persone; una collega in cerca di amore e dalla voce d'angelo; un conterraneo generoso; e un meccanico intrappolato in una solitudine malinconica, ancora più inesorabile di quella di Donya. Quest'ultimo, interpretato magistralmente da Jeremy Allen White (il Carmy Berzatto di The Bear), con poche scene ci fa intuire un mondo fatto di isolamento, lavoro, e disperato desiderio di una connessione umana.

Fremont è una piccola perla poetica, dolce, esistenzialista, che racconta con efficacia la solitudine e la battaglia invisibile che molti affrontano per sconfiggerla: parla di temi drammatici senza essere un dramma e, anzi, flirtando a tratti con la commedia. È un film pieno di silenzi, ma parla con forza al cuore. È un film fatto di niente, ma racconta tutto. Non perdetelo. 

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Pier