venerdì 3 maggio 2024

Challengers

Luca, spostati e fammi vedere il film


Challengers è un piatto con ingredienti di altissima qualità (con un'eccezione, ci torneremo). La fotografia è scultorea, vibrante, e unisce la vitalità delle statue greche a un dinamismo futurista, ritraendo corpi in movimento, sensuali, plastici, inafferrabili. Gli interpreti sono semplicemente perfetti, semidei sportivi che trasudano competizione, erotismo, vita. Josh O' Connor ruba la scena con un perfetto cialtrone di talento, Zendaya ci rivela come sarebbe una Lady Macbeth con l'ossessione per il tennis, anziché per il potere, e Mike Faist è ottimo nella parte di un finto cerebrale in balia delle proprie emozioni. La colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross è un capolavoro, un incedere inesorabile di ritmi elettronici che fa battere il cuore del film e lo trascina in avanti, accompagnato da un montaggio insistente, visibile e creativo a opera di Marco Costa.

Eppure. Eppure qualcosa, nella cucina, non funziona. In primo luogo, la sceneggiatura, l'unico ingrediente fuori posto, come l'ananas sulla pizza: troppo ellittica, che costringe il montatore agli straordinari, con continui taglio di montaggio che, pur ben gestiti a livello tecnico, sono talmente abbondanti che a tratti sembra di assistere alla parodia di un film di Christopher Nolan. I continui saltabecchi temporali finiscono per confondere lo spettatore e, ancor peggio, allontanarlo emotivamente dalla vicenda narrata. I personaggi sembrano sballottati da una scena all'altra e, spesso, mancano di reali motivazioni: se non fosse per la bravura degli interpreti, le loro azioni risulterebbero forzate o addirittura insensate, soprattutto per quanto riguarda il personaggio interpretato da Mike Faist: un tennista vincente che non vediamo mai vincere, un innamorato che non vediamo mai palpitare di passione. La scena finale, che molti hanno trovato commovente (e potrebbe esserlo, se solo percepissimo una vera tensione tra i protagonisti) è semplicemente insensata dal punto di vista sportivo.

In secondo luogo, la regia. Guadagnino perde completamente il controllo del dosaggio degli ingredienti, a partire dalla fotografia. Guadagnino, che con Chiamami col tuo nome e Bones and all sembrava aver imparato a tenere sotto controllo gli eccessi estetizzanti degli esordi (le api impollinatrici di Io sono l'amore infestano ancora gli incubi dei cinefili di mezzo mondo), mettendo il suo ottimo occhio al servizio della storia, anziché il contrario, ricade nell'antico vizio come un alcolista recidivo, esibendosi in una prova di sorrentinismo deteriore, dove l'estetica prevale sul contenuto al punto di strozzarlo e ucciderlo (e, aggiungiamo, senza raggiungere le vette estetiche di cui è comunque capace Sorrentino). Le sequenze di tennis sono a tratti splendide, olimpiche, ma a tratti tremendamente confuse a causa di un uso sconsiderato della soggettiva - sia dei personaggi, sia della pallina stessa: un puro esercizio di stile, che però distrugge il pathos costruito in altri momenti.

La fotografia non è l'unico ingrediente che Guadagnino sbaglia a dosare. La musica è onnipresente, sparata a tutto volume a coprire anche i dialoghi: una scelta ben precisa, ma di cui si fatica a capire il senso, e che contribuisce ancora una volta a eliminare ogni parvenza di realismo e, di conseguenza, a non percepire la tensione che dovrebbe divorare i personaggi.

Challengers è comunque un film soddisfacente. È cinetico, plastico, ha un buon ritmo e intrattiene. È forse il film più "commerciale" (in senso buono) della cinematografia di Guadagnino. Eppure lascia una sensazione di occasione sprecata, di un potenziale capolavoro travolto da un peccato di hubris che fa sì che l'aggregato sia inferiore alla somma delle parti, e che lo spettatore voglia rivolgere al regista la richiesta che Dino Risi rivolgeva al Nanni Moretti regista agli esordi: "Nanni, bravo, ma ora spostati e fammi vedere il film."

***

Pier 

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