mercoledì 17 dicembre 2014

Lo Hobbit - La Battaglia delle Cinque Armate

Un buon finale per una saga epica


Smaug, risvegliato dai Nani, attacca Pontelagolungo, dove semina morte e distruzione. Bard riesce però nell'impresa di ucciderlo, scagliando la freccia nera nell'unico punto scoperto della corazza del mostro. La notizia della sconfitta del Drago si sparge rapidamente, ed Elfi e Uomini arrivano alla Montagna Solitaria per reclamare una parte del tesoro. Thorin, tuttavia, totalmente soggiogato dalla malia del tesoro del Drago, rifiuta qualunque concessione, portando i tre popoli sull'orlo della guerra. Nel frattempo gli Orchi di Sauron marciano sulla montagna, pronti a uccidere tutti i nemici dell'Oscuro Signore.

E così siamo arrivati alla fine: dopo sei film Peter Jackson scrive la parola fine sulla sua rivisitazione dell'universo tolkieniano. Alcuni capitoli sono stati intimenticabili (La Compagnia dell'Anello, Il Ritorno del Re), altri rivedibili (La desolazione di Smaug), ma tutti sono accomunati dalla capacità di generare nello spettatore un fanciullesco stupore, trasportandolo in un mondo di fantasia che in cuor nostro vorremmo fosse reale. La Battaglia delle Cinque Armate non fa eccezione, e regala due ore e rotti di emozione e divertimento, tra battaglie, attacchi di creature sovrannaturali e crisi di coscienza. Il film ricorda da vicino Le Due Torri, il film della Trilogia dell'Anello caratterizzato dalla presenza incombente, massiccia e spettacolare della battaglia del Fosso di Helm. Il film ha un sapore decisamente marziale, diviso com'è tra battaglie di diversa natura e motivazione: c'è quella degli abitanti di Pontelagolungo per la sopravvivenza, quella tra Elfi e Nani per le ricchezze della Montagna, quella che unisce questi ultimi e gli Uomini contro la comune minaccia degli Orchi; c'è la battaglia di Thorin contro il malefico incanto dell'oro del Drago, quella di Bilbo per evitare una guerra fratricida, quella del Bianco Consiglio contro Sauron rivelato.

Jackson si districa tra i vari momenti con la consueta maestria e abilità, regalando alcuni momenti di grande spettacolo (battaglia di Dol Guldur e attacco del Drago su tutti) e una scena di grande maturità artistica quando mette Thorin di fronte ai suoi spettri e alle sue contraddizioni. La lotta interiore del Nano viene resa in modo originale, con il suo inconscio e i suoi demoni incarnati dall'ombra del Drago, che aleggia sia sul suo oro sia sul suo cuore, in un richiamo esplicito dei miti nordici cui Tolkien si è ispirato per creare la Terra di Mezzo.
Gli attori svolgono il loro compito in modo egregio, con Martin Freeman che conferma ancora una volta di essere un Bilbo perfetto, e Richard Armitage che dona un accresciuto spessore al personaggio di Thorin.

Si arriva così al finale, che strappa una lacrima ai fan della prima ora grazie a una ring composition da manuale, con Bilbo che finisce il suo racconto là dove inizia la grande avventura di suo nipote Frodo. La Battaglia delle Cinque Armate è una degna conclusione di una trilogia certamente in tono minore rispetto a quella dell'Anello, ma comunque in grado di emozionare ancora una volta gli spettatori, risvegliando quell'infantile piacere di stare ad occhi spalancati mentre la storia prende vita di fronte a noi.

***

Pier

Nota a margine da fan intransigente: peste e maledizioni sul traduttore italiano, che non si è nemmeno premurato di verificare che "Five Armies" è sempre stato tradotto con "Cinque Eserciti".

lunedì 15 dicembre 2014

Pride

La forza gentile degli emarginati


Londra, 1984. I minatori gallesi sono ormai allo stremo mentre si prolunga lo sciopero contro le politiche del governo Thatcher. In loro aiuto accorre inaspettattamente un'associazione per i diritti omosessuali, Lesbian and Gays Support the Miners, guidata dal giovane attivista Mark. Dopo qualche iniziale diffidenza, i due gruppi cominceranno a collaborare in modo efficace, creando un patto di solidarietà a favore del cambiamento sociale e contro tutte le discriminazioni.

Ci voleva, un film come Pride, in un periodo come questo, dove la crisi che ha messo in ginocchio tante persone sta generando una situazione paradossale, in cui i poveri e gli emarginati si fanno la guerra tra loro mentre i ricchi godono. Ci voleva, in un'epoca in cui solidarietà è spesso una parola vuota, quasi fastidiosa, questa storia vera del rapporto tra associazioni omosessuali e minatori gallesi, inizialmente divisi da reciproche diffidenze, ma poi uniti contro il nemico comune, che vuole privarli di lavoro e dignità. Ci voleva la storia di Mark e dei suoi amici, un idealista alla testa di un'armata Brancaleone di sognatori, un'armata disorganizzata, imperfetta, ingestibile, ma proprio per questo umana e capace di grandi cose.

Pride è una commedia drammatica da manuale, in cui risata e lacrime, divertimento e riflessione vanno di pari passo, non lasciando mai veramente spazio l'uno all'altro, ma procedendo in parallelo a costruire una grande storia vera. La forza vitale dei LGSM, contrapposta alla burbera cordialità dei minatori, crea momenti di ilarità irresistibili, ma sullo sfondo aleggiano sempre i fantasmi che perseguitano i due gruppi di protagonisti: da una parte l'AIDS, che in quegli anni comincia a mietere le sue vittime, e dall'altra la disoccupazione e la fame.

Il cast è perfetto, umano, vivo, corale, coinvolge e avvince con storie di ordinaria umanità, di emancipazione e di rivendicazioni. Su tutti spicca la coppia composta da Dominic West e Andrew Scott, che colpisce per verità, intimità e voglia di vivere appieno il proprio amore, contro la malattia e le convenzioni imposte dalla società.

Pride è un gioiellino, una commedia che sembra scritta dal Ken Loach degli esordi, in cui risata e impegno sociale si uniscono in un matrimonio perfetto e in cui la salvezza dei mani nel mondo è ancora nella mano tesa dei nostri compagni di sventura. Da non perdere.

**** 1/2

Pier

sabato 13 dicembre 2014

Magic in the Moonlight

Divertimento in tono minore



Europa,1928. Stanley Crawford è un celebre prestigiatore che, sotto lo pseudonimo e le vesti del cinese Wei Ling Soo, incanta le platee di tutto il Vecchio Continente. Crawford è un gentiluomo inglese snob e dalla battuta tagliente, così conscio della propria intelligenza da risultare spesso arrogante e saccente. Quando un amico gli propone di aiutarlo a smascherare una presunta medium che ha circuito il giovane rampollo di una ricca famiglia americana, Crawford accetta senza indugio, desideroso di mostrare la propria superiorità. Si reca quindi in Costa Azzurra, dove si spaccia per un uomo d'affari. L'incontro con la medium, la giovane Sophie Baker, ha però un effetto inaspettato su Crawford: per la prima volta in vita sua, capisce cosa sia l'amore.

Dopo i toni cupi Blue Jasmine, Woody torna alla commedia sofisticata e leggera che tanto spesso ha esplorato negli ultimi dieci anni. Lo fa con un film all'apparenza leggero e scanzonato, che racconta la storia di un burbero misantropo che viene cambiato dall'amore. Sotto la superficie, tuttavia, si intravedono tematiche più profonde: Allen ritrae lo splendore dei roaring twenties, tra feste, abiti da cocktail, jazz e charleston, ma ambienta il film un anno prima del crack in borsa che distruggerà quel sogno; mostra l'incanto e lo sfarzo dell'Europa, ma fa anche intravedere le prime crepe che portarono al nazismo e al secondo conflitto mondiale; celebra l'amore, ma fa anche intendere che l'amore, come tutti i sentimenti, non è altro che un illusione che aiuta l'uomo ad andare avanti in questa valle di lacrime.

Il pessimismo cosmico e il cinismo alleniano si incarnano alla perfezione nella figura di Stanely Crawford, un personaggio che sembra scritto su misura per Colin Firth, che lo interpreta con quell'altezzosità e quel distaccato disprezzo per il resto dell'umanità di cui solo lui sa essere capace. Accanto a lui brilla Emma Stone, deliziosa nel ruolo della protagonista, cui dona un irresistibile mix di innocenza e malizia che rende il personaggio credibile e interessante.
Da notare, come sempre nei film di Allen, una colonna sonora d'epoca semplicemente perfetta, tra jazz, swing e ballate romantiche.

Magic in the Moonlight non passerà alla storia come il miglior film di Woody Allen, ma è una commedia gradevole e divertente, una farsa in tono minore che fa sorridere più che ridere, con una grazia e una leggerezza che, se non lo rendono memorabile né originale, di certo regalano un'ora e mezzo spensierata allo spettatore.

***

Pier