lunedì 28 gennaio 2013

Frankenweenie

Il cuore e la scienza



Victor è un bambino brillante ma poco socievole, il cui migliore amico è il cagnolino Sparky. Quando questi muore investito da un'auto, Victor sfrutta le sue conoscenze scientifiche sull'elettricità e riesce a riportarlo in vita. Victor cerca di tenere nascosta la notizia, e per qualche tempo ci riesce. Un giorno, tuttavia, la resurrezione di Sparky viene scoperta da alcuni compagni di classe del bambino, con conseguenze del tutto inattese.

Tratto da un corto girato dallo stesso Burton nel 1984, Frankenweenie rappresenta le radici cinematografiche del regista. Tutti i temi chiave della poetica burtoniana sono già presenti, dall'amore per gli animali al protagonista diverso e asociale, ma intimamente buono e sensibile. L'insegnante di scienze di Victor gli dice che gli esperimenti, per funzionare, devono essere fatti con il cuore: la stessa cosa sembra vera per i film di Burton, e questo film lo dimostra. L'amore del regista per questa fiaba gotica, riproposizione in chiave infantile del mito di Frankestein, fa sì che il film sia permeato da una dolcezza e da una poesia uniche, capace di coinvolgere lo spettatore e di rendere credibile l'incredibile. La storia di Victor ricorda da vicino quella di Edward Mani di Forbice, ed è caratterizzata dalla stessa dicotomia tra bellezza dell'anima e bellezza esteriore. Sparky, antenato dello Zero di Nightmare Before Christmas e del Briciolo de La sposa cadavere, è il simbolo dell'innocenza dell'infanzia, della nostalgia per un'età in cui si pensa che tutto sia possibile se lo si desidera veramente.

La nostalgia per l'infanzia si traduce in nostalgia per il cinema delle origini, cui il film rende chiaramente omaggio sia nella scelta del genere horror, sia nell'uso di un bianco e nero utilizzato con fare espressionista, attraverso giochi d'ombre e chiaroscuri. La fotografia e l'animazione sono di altissimo livello, e conferiscono al film quell'atmosfera d'altri tempi, un po' spettrale e un po' onirica, che ne costituisce il tratto distintivo. Burton torna a realizzare un film a cui tiene veramente, in cui si riconosce non solo per lo "stile", ma anche per le tematiche e per l'identificazione nel protagonista. Non è un caso che i suoi film meno riusciti, come Alice e Il pianeta delle scimmie, fossero storie non originali, più esercizi "visivi" di maniera che opere vicine alla sua poetica.

Frankenweenie ci insegna che a generare mostri non è il sonno della ragione, ma quello del cuore, che mira solo al conseguimento di un premio e di un obiettivo, senza curarsi degli affetti e dei sogni. Il messaggio è valido non solo per lo spettatore, ma anche per il regista, che torna finalmente a realizzare un film che fa sognare non solo per l'estetica, ma anche per i contenuti.

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Pier


sabato 26 gennaio 2013

Operazione Zero Dark Thirty

La lentezza di un'ossessione



Dopo l'attacco alle Torri Gemelle, gli Stati Uniti hanno iniziato una guerra senza quartiere contro Al-Qaeda, e in particolare contro il suo esponente di punta, lo sceicco Osama Bin Laden. La caccia all'uomo si è protratta per quasi dieci anni, fino a quando il covo di Bin Laden è stato identificato in un complesso residenziale in Pakistan, grazie al lavoro ininterrotto di una coraggiosa agente CIA, che ha seguito una pista che molti credevano essere senza speranza.

Nel tentativo di fugare le accuse di misoginia (poche donne produttrici di spicco, poche donne regista) che da anni le piovono addosso senza sosta, Hollywood ha di recente intrapreso un'opera di ristrutturazione della sua immagine pubblica, nel tentativo di mostrare apertura e considerazione verso il mondo femminile. Di quest'opera hanno beneficiato in tante, tra cui Sofia Coppola, autrice di un primo tempo eccezionale (Lost in Translation) e di un secondo tempo e di una manciata di film che è difficile definire più che mediocri.

La vera miracolata di questa operazione di restyling dell'immagine di Hollywood e dell'Academy è però Kathryn Bigelow. Intendiamoci, la regista statunitense è brava e realizza film intensi e forti, toccando temi che altri non osano affrontare. Il suo uso della macchina da presa, tuttavia, non è nulla di eccezionale. Ciononostante, ha vinto una valanga di Oscar in quello che doveva essere l'anno del trionfo di Avatar. Il film non è particolarmente amato dal sottoscritto, ma solitamente film di questo tipo (qualcuno ha detto Titanic?) vengono sempre ricoperti di statuette. Invece, l'Academy ha deciso di far vincere un film indipendente sulla guerra in Iraq, passato quasi inosservato alla Mostra del Cinema di Venezia, casualmente diretto dalla ex moglie di Cameron, facendo così fiorire una selva di commenti sulla forza delle donne, sull'indipendenza femminile, sulla "moglie che batte l'ex marito fedifrago", e via andando di stereotipi.

Perchè questo cappello introduttivo? Perchè Operazione Zero Dark Thirty è, come The Hurt Locker, un film sopravvalutato, che però ha fatto incetta di nomination. Certo, la regia è solida e curata, e le scene di tortura sono raccontate con una durezza e una forza non comuni. E certo, Jessica Chastain conferma ancora una volta di essere un'attrice eccellente, capace di mille sfumature all'interno della stessa scena (perfetta in questo senso la sequenza finale) e di dominare lo schermo con la forza delle sue intenzioni. Il film però non va oltre uno scolastico tentativo di raccontare l' "ossessione Osama", attraverso scene disconnesse tra loro e ripetitive, con un ritmo quasi assente nella prima parte e zoppicante nella seconda.

L'evoluzione del personaggio della Chastain è rigida e procede a scatti, e manca totalmente dell'approfondimento psicologico che aveva invece ricevuto il personaggio di Jeremy Renner in The Hurt Locker. Il film soffre di una scrittura ripetitiva ed autocompiaciuta, che ha breve guizzi di vita in alcuni dialoghi tra la Chastain e altri agenti CIA, ma che per il resto soffre di una totale incapacità di creare tensione ed interesse nello spettatore, che rischia anzi spesso di cadere vittima del torpore che sembra attanagliare anche alcuni membri CIA. Il film è inoltre ricco di stereotipi cari al cinema di genere, dalla giovane donna che combatte il maschilismo e il testosterone dei capi, all'amica morta da vendicare, passando per i militari USA che, anche se torturano i prigionieri, in fondo non fanno altro che "compiere il proprio lavoro", e rimangono comunque dei bravi esseri umani.

Operazione Zero Dark Thirty è un film dignitoso, ma assolutamente lontano dagli standard di qualità che dovrebbe avere un film indipendente nominato agli Oscar: l'Academy solitamente "perdona" i difetti solo con i grandi blockbuster come Titanic o lo stesso Avatar, ma premia la qualità degli indipendenti, come dimostrano le vittorie degli ultimi due anni. Viene quindi il sospetto che, ancora una volta, la Bigelow benefici del suo essere donna nell'ottenere considerazione, in una sorta di misoginia al contrario, un'applicazione delle "quote rosa" al cinema che, personalmente, trovo ancora più odioso della discriminazione che vorrebbe combattere.

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Pier



giovedì 10 gennaio 2013

The Master

L'epica del potere



Freddie Quell è un reduce dellla Seconda Guerra Mondiale. La guerra lo ha segnato profondamente a livello psicologico, e ogni tentativo di cura e reinserimento nella società sembra destinato a fallire. Ossessionato da sesso e alcool, che distilla anche in proprio, Freddie sembra destinato a una vita da emarginato, fino a quando non incontra Lancaster Dodd, un intellettuale poliedrico a capo di un movimento parareligioso, che sostiene di poter aiutare Freddie. Inizialmente attratto dal nuovo metodo e dalle sue capacità introspettive, la recalcitranza di Freddie a ogni tipo di autorità diverrà al tempo stesso motivo di contrasto e di fascinazione per Dodd, nonostante le proteste della moglie, energico braccio destro dell'intellettuale, decisa a difendere a ogni costo le idee del marito dalle critiche.

Dopo l'epica del denaro e dell'avidità de Il Petroliere, Paul Thomas Anderson usa la storia della fondazione di una setta religiosa come pretesto per indagare il ruolo che il potere ricopre nelle nostre vite. Chi cercava un film su Scientology rimarrà probabilmente deluso: Anderson non è interessato alla setta in quanto tale, ma alle motivazioni che portano gli uomini a cercare qualcuno che li comandi. Dodd, in grado di attrarre a sè e di convincere a seguirlo migliaia di persone, è affascinato da Quell per la sua capacità di vivere senza sottostare a nessuno, per la sua capacità di essere un cavallo selvaggio in un mondo di recinti. La scena della "gara" in motocicletta rappresenta alla perfezione il rapporto tra i due, con Freddie che cerca di seguire i dettami di Dodd, ma finisce invece per rompere le briglie e far sì che sia Dodd a voler seguire lui.
Nell'analisi dei rapporti di potere centrale è anche la moglie di Dodd, vero e proprio "master" della setta, eminenza grigia che con mano sicura guida il marito nelle sue uscite pubbliche e difende la setta da ogni attacco, con mezzi più o meno leciti. Per lei Freddie è un pericolo, una variabile impazzita all'interno della perfetta equazione che ha disegnato intorno al marito: non è affascinata da lui, ma è preccupata dalla pericolosa influenza che sembra esercitare su Dodd, influenza che potrebbe privarla del suo potere su di lui.

"Tutti hanno bisogno di un capo", dice Dodd a Freddie, perchè tutti hanno bisogno di qualcosa o qualcuno da seguire. I due protagonisti seguono due strade speculari, con Freddie che cerca disperatamente di integrarsi, di far parte di qualcosa, mentre Dodd anela a quella libertà che predica, ma che per lui è soltanto un ricordo. Il fallimento di entrambi i loro percorsi sembra preludere a una fine e a un nuovo inizio, che però Anderson, attraverso la tecnica della ring composition, fa coincidere con l'inizio di tutta la vicenda. Come ne Il Petroliere, i protagonisti sono parte di grandi scene drammatiche e preda di titaniche forze che non riescono a controllare, eroi di un poema epico moderno in cui la grande impresa non è più conquistare un tesoro o una città, ma conquistare se stessi.

Gli attori offrono una prova sontuosa, con un Joaquin Phoenix inquietante, commovente e stralunato, un Hoffman pacato ma tormentato, e un'Amy Adams nel ruolo per lei inedito di un personaggio duro, direttivo e calcolatore. Sarebbe davvero sorprendente se nessuno dei tre venisse premiato con un Oscar.
La realizzazione è praticamente perfetta a livello tecnico, con fotografia, montaggio e sonoro che si uniscono armonicamente per rappresentare le due anime dei protagonisti, frustrate nel loro tentativo di autorealizzazione. La trama è un po' troppo diluita, con il ritmo che rallenta un po' in alcuni punti, ma senza per questo intaccare la maestosità dell'insieme. Resta tuttavia il dubbio che una maggiore concisione avrebbe giovato alla forza del messaggio, enfatizzando i punti centrali del racconto e mantenendo l'attenzione dello spettatore.

The Master è un film forte e potente che, seppur inferiore al Petroliere, pone l'accento su un tema centrale per le società di ogni tempo, e per quella contemporanea in particolare. L'abilità di Anderson nell'analizzare le grandi passioni umane del nostro tempo si dimostra intatta, e la forza del messaggio arriva con meno violenza che ne Il Petroliere, ma entra comunque dentro e accompagna le riflessioni dello spettatore.

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Pier