mercoledì 21 marzo 2018

Foxtrot

L'assurdo ballo del destino



Quando degli ufficiali dell’esercito bussano alla loro porta di casa, Michael e Dafna intuiscono subito di cosa si tratti: annunciano loro la morte del figlio Jonathan, soldato. Michael e Dafna sono sconvolti, ma è soprattutto Michael a mostrare segni di nervosismo, dovuti soprattutto alla presenza non richiesta di parenti e burocrati eccessivamente zelanti. A questo si aggiunge una notizia tanto assurda da risultare quasi incomprensibile, in questo simile alle surreali esperienze vissute dal figlio come soldato.

Si può sfuggire al proprio destino? Questa domanda, vecchia come il mondo, viene declinata da Maoz in modo classico, e al tempo stesso innovativo. Se l’ispirazione del regista è dichiaratamente la tragedia greca, infatti, il senso di assurda ineluttabilità che pervade il film è di stampo chiaramente ebraico, e richiama le atmosfere e lo humor nero di film come A serious man dei fratelli Coen. La nostra vita è come un ballo, e in particolare un ballo come il foxtrot citato nel titolo: passi fissi, preordinati, che riportano sempre allo stesso punto, allo stesso finale.

Il film brilla e ha i suoi momenti migliori quando racconta la storia di Jonathan e del suo servizio militare: lo fa con toni talmente assurdi da risultare quasi fiabeschi, tra cammelli che spuntano dal nulla, improbabili balli con un fucile, e una baracca che continua a cedere e a inclinarsi, muovendosi inesorabile verso lo sprofondamento. Il posto di blocco di Jonathan è un luogo fuori dal tempo, in cui i soldati sono imprigionati in una futile routine, una noia costante che rischia di generare mostri. Maoz non è infatti interessato solo al destino, ma anche a un tema a lui caro come quello dell’assurdità della guerra, già affrontato in maniera più diretta nel suo primo film, Lebanon, vincitore della Mostra del Cinema nel 2009. Qui non si guarda però al terrore dell’azione bellica, quanto all’inazione e alle sue terribili conseguenze sulla psiche dei soldati.

Le parti con i genitori di Jonathan sono meno convincenti, soprattutto la seconda, ma ricoprono un fondamentale ruolo narrativo, creando una circolarità e un senso di ineluttabilità che amplificano la forza espressiva della parte centrale della pellicola. L’invadenza di parenti e burocrati sembra quasi negare il dolore a Michael nella prima parte, creando una serie di situazioni assurde che esasperano il protagonista e fanno ridere lo spettatore; nel finale invece (introdotto da una splendida e onirica sequenza in animazione), il dolore non viene più negato, ed esplode in un modo che lascia lo spettatore spiazzato, straniato, incapace di comprendere un registro che sembra troppo scanzonato, ma che rappresenta forse la forma di dolore più autentica.

Foxtrot è un film complesso, sia a livello di contenuti che di struttura. Offre molteplici piani di lettura, e accompagna lo spettatore in un percorso che, a una lettura superficiale, sembra riportarci al punto di partenza. In realtà è cambiato tutto, e Maoz ci racconta questo cambiamento con occhio e scrittura da grande autore, in grado di trattare con mano salda una delle domande che tormentano l’uomo fin dall’inizio dei tempi.

Un film meritatamente premiato con il Gran Premio della Giuria alla Mostra del Cinema di quest'anno, che segna un secondo convincente capitolo nella carriera di Samuel Maoz, una carriera che promette di essere davvero radiosa.

****

Pier

recensione originalmente pubblicata su Nonsolocinema 

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