Kolima e Gagarin sono due giovani membri della comunità Urka, di origine siberiana ma deportata in Transnistria, in Moldavia, ai tempi di Stalin. Gli Urka sono una comunità di criminali, governata da un complesso sistema di regole non scritte e da un codice d'onore da cui non è possibile derogare, pena l'espulsione. Il custode della traduzione è il nonno di Kolima, Kuzja, povero ma rispettato da tutti, che trasmette al nipote e al suo amico tutte le tradizioni e i codici di comportamento della comunità, basati sulla solidarietà e l'aiuto reciproco.
Catturato a seguito di un furto, Gagarin finisce in prigione. Tornerà molti anni dopo, profondamente cambiato e ormai lontano da quei valori e da quelle tradizioni in cui invece Kolima è ancora immerso e crede fermamente.
Salvatores lascia l'Italia e si trasferisce all'estero per girare questa storia di onore e codici di comportamento criminali basata sul romanzo omonimo di Nicolai Lilin. Il regista realizza scene di struggente bellezza, fatte di paesaggi, di metafore, di sguardi. Ogni parola di nonno Kuzja è pura poesia, ogni suo racconto una riflessione sulla vita. L'insistenza sui corpi dei personaggi, e in particolare su quei tatuaggi che ne raccontano la vita, dona al film una forza espressiva e una verità all'altezza delle Promesse dell'Assassino di Cronenberg. Supportato da un cast perfetto e da una fotografia e una musica di altissimo livello, il regista realizza un piccolo capolavoro visivo e interpretativo.
Il film manca però di struttura, e questo finisce per penalizzare la potenza del messaggio e delle immagini. La sceneggiatura è approssimativa e mal congegnata: ogni scena sembra indipendente dalle altre, quando in realtà i simboli e le metafore si inseguono e si influenzano a vicenda per tutto il film. Il tutto però è lasciato allo spettatore, che deve sforzarsi di decodificare quello che la sceneggiatura non sviluppa, di collegare quello che la sceneggiatura non collega. Prendiamo il racconto dei due lupi, un insegnamento di vita e metafora del rapporto tra Kolima e Gagarin. E' una scena forte e potente, dove un John Malkovich già bravissimo raggiunge vette sublimi di interpretazione e trasmette il messaggio chiave del film: chi pensa di essere libero, come Gagarin, è in realtà schiavo, perchè la vera libertà è quella dell'anima.Eppure la sceneggiatura lo lascia cadere, facendolo rimanere sullo sfondo anzichè esplicitarne il profondo significato e quello che rappresenta nella storia dei protagonisti.
Questo difetto strutturale del film rende vana la poesia, indebolisce la potenza espressiva, svilisce, insomma, la grande materia visiva creata da Salvatores, riducendo la vicenda a una sorta di versione dal vivo di Red e Toby ambientato in Russia. Un vero peccato, perchè il regista milanese, ancora una volta, aveva dimostrato una sensibilità visiva e narrativa molto personale ed elaborata, realizzando un film poetico ed epico, che la sceneggiatura finisce però per azzoppare.
**1/2
Pier
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