Dracula è il personaggio più esplorato dalla cinematografia mondiale. Di tutte le innumerevoli versioni, tuttavia, solo tre hanno finora segnato la storia del cinema: una "ufficiale", quella di Francis Ford Coppola, e due spurie, i Nosferatu di Murnau (1922) e Herzog (1979). Quello di Murnau, con i nomi cambiati per aggirare il diritto d'autore, è diventato talmente iconico da meritarsi prima il remake di Herzog, e oggi quello di Eggers: è una decisione cinefila, ma anche stilistica, molto in linea con la cinematografia del regista newyorkese.
Se il Dracula di Coppola privilegiava infatti l'aspetto romantico dell'opera di Bram Stoker, sia a livello narrativo che estetico, con costumi e fotografia estremamente barocche e teatrali, Eggers sceglie di concentrarsi sull'aspetto più orrorifico, come Murnau ed Herzog prima di lui, esaltando però ulteriormente l'elemento di folklore del mito del vampiro: le sue origini popolari come spiegazioni della pestilenza, e la ritualità est-europea nel cercare di affrontarlo.
Eggers non è interessato alla natura romantica e maledetta del vampiro, ma a quella malefica. Il vampiro è la morte e la sua negazione, un abominio che sovverte le leggi naturali che pensiamo di conoscere e fa a pezzi le fragili certezze della scienza. È il Male incarnato, e Eggers vuole esplorarne le origini o, meglio, come si infiltra nel mondo, nella nostra vita di tutti i giorni. Il film si presta a vari livelli di lettura, dal racconto metaforico della depressione alla rivisitazione del peccato originale.
Spicca però un messaggio politico-sociale, racchiuso nelle parole di Von Franz/Van Helsing: bisogna conoscere l'oscurità per poterla combattere. Così come la Germania iper-razionalista e scientifica si trova più impreparata dei superstiziosi contadini dei Carpazi nel combattere il vampiro, così le idee più tossiche trovano terreno fertile in società democratiche, che dopo decenni senza guerre si sono illuse che il Male non le toccherà mai più, che le barbarie della guerra e delle dittature siano ricordi lontani e sopiti. È successo negli anni Trenta, e sta succedendo ancora ora: il sonno della ragione genera mostri, ma la fede cieca nella ragione è solo un'altra forma di fanatismo, che ci rende ciechi e imbelli di fronte ai mostri che già esistono.
Questi mostri vengono evocati da persone fragili, ai margini di una società che li tratta come pazzi o isterici; persone che, per disperazione e solitudine, sono disposte ad accogliere qualunque cosa le faccia sentire meno sole, meno incomprese, meno inutili. Il personaggio di Ellen, interpretato in maniera ipnotica da Lily-Rose Depp, rappresenta la "porta di ingresso" di chi riporta il Male nella società, anche senza volerlo (Eggers è bravissimo a non rendere Ellen una colpevole, ma una vittima che decide di reagire).
La ricchezza tematica del film non è tuttavia supportata da una lettura profonda e nuova degli iconici personaggi e delle loro vicende. Eggers osserva i suoi protagonisti con sguardo da scienzato, da entomologo, freddo e distante, e non dà alcuna lettura sanguigna e creativa del mito del vampiro, come se avesse avuto paura di "contaminare" il suo esperimento portando una sua visione personale. Manca anche qualcosa che trasformi le sofferenze dei personaggi, e in particolare della protagonista Ellen, in un qualcosa di vero, autentico, che crei empatia nello spettatore - quel qualcosa che invece era riuscito benissimo a Eggers in The Northman. A questo contribuisce anche la scelta di dare a Orlok un accento molto marcato, scelta che finisce per "allontanare" ulteriormente lo spettatore. Tenere così lontano lo spettatore a livello emotivo rischia di far percepire il tutto come un esercizio di stile, depotenziando anche il messaggio che il film vorrebbe veicolare.
A livello visivo il film è una gioia per gli occhi. Eggers riprende l'estetica espressionista, fatta di ombre e oscurità, e la accompagna con la sua passione per la fotografia in luce naturale, alternando momenti di oscurità tangibile, viscerale e primordiale (la scena nella locanda) ad altri più alienanti, onirici e allucinati, con colori talmente desaturati da richiamare il bianco e nero dell'opera di Murnau (la scena dell'arrivo nel castello di Orlok. L'orrore è più suggerito che mostrato, e anche le poche scene granguignolesche servono a esaltare l'asetticità dei momenti chiave, in cui l'ombra striscia nelle case e violenta le menti prima ancora che i corpi.
Nosferatu non è il film più riuscito di Eggers, ma è senza dubbio quello più ambizioso a livello stilistico e tematico, un confronto con i grandi del passato da cui Eggers esce, se non vincitore, quantomeno non sconfitto, rileggendo il mito del vampiro per i nostri tempi cupi, in cui il Male è ovunque e l'oscurità incombe e minaccia di spegnere ogni luce. È un film che parla alla testa e, a tratti, alle viscere, ma non al cuore - e il cuore è quel che manca per avvincere davvero lo spettatore e rimanere saldo nel suo immaginario e nei suoi ricordi: per essere, insomma, un vero capolavoro.
*** 1/2
Pier
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