lunedì 19 febbraio 2018

Chiamami col tuo nome

Molto rumore per nulla



Nel 1983, Elio Perlman, un giovane diciassettenne italoamericano, trascorre un'estate oziosa nella campagna intorno a Crema insieme ai suoi genitori. A loro si unisce Oliver, uno studente universitario che lavora con il padre di Elio alla sua tesi di dottorato. Tra Elio e Oliver si instaura un rapporto che cambierà la vita di entrambi.

Cosa è un regista se abdica alla sua visione? È ciò che viene da chiedersi vedendo Chiamami col tuo nome, un film in cui Luca Guadagnino rinuncia a ogni pretesa di autorialità e originalità girando un film che sembra un condensato di sguardi altrui. Se a Sorrentino si rimprovera spesso (e spesso a torto) di “voler fare Fellini”, cosa dire allora di Guadagnino, che è talmente schiacciato dai suoi modelli di riferimento da non riuscire mai a discostarsene se non per brevi, meravigliosi attimi di respiro autonomo: dall'estetismo di sapore classico di Visconti alla gioventù sovversiva di Bertolucci, fino al fitto sottobosco della vita di provincia di Risi, non c'è modello che Guadagnino non citi e riutilizzi in modo ossequioso e quasi servile. Il risultato è un film ben girato ma anonimo, che potrebbe essere di Guadagnino come di qualunque altro regista, in cui persino le scene bucoliche sanno di già visto (Le Meraviglie di Alice Rohrwacher era ben più ispirato, in tal senso) e nessuna immagine resta stampata nella memoria.

Tuttavia, sarebbe ingeneroso non riconoscere il grande lavoro fatto da Guadagnino per rendere filmabile e credibile la sceneggiatura ingessata, anzi, bitumata di James Ivory: una sceneggiatura che mette in bocca a degli adolescenti degli anni Ottanta dei dialoghi che sembrerebbero troppo forbiti in bocca alla nobiltà vittoriana di cui di solito Ivory tratta nei suoi tormenti filmici; una sceneggiatura che tormenta lo spettatore con momenti lirici che risultano solo noiosi, con un ritmo fiacco ed esasperante; una sceneggiatura, insomma, arrogante e tronfia nel suo essere totalmente disconnessa dalla realtà, e che infatti sta ricevendo il plauso di quella critica terrazzesca e salottiera che la realtà l'ha persa di vista da almeno tre lustri. L'emblema di questa sceneggiatura è il monologo finale del padre di Elio, che Ivory indubbiamente vedeva come profondo ma risulta essere invece una trista morale della storia degna di un libro di fiabe di livello scadente, intriso di retorica e talmente incredibile da divenire ridicola, e che viene salvato solo dal fatto di essere affidato a un interprete straordinario come Michael Stuhlbarg.

Guadagnino si dibatte in questa sceneggiatura come un uomo in fiume prigioniero di un'armatura elegante ma troppo pesante e, pur con fatica, riesce a trascinarsi a riva grazie a un paio di felici intuizioni: la prima, depotenziare tutte le scene eccessivamente retoriche con un uso semplice della macchina da presa, evitando di sovraccaricare gli orpelli ivoriani con ulteriori artifizi filmici; la seconda, affidarsi alla straordinaria bravura dei suoi attori, Armie Hammer e Timothée Chalamet, tanto naturali e spontanei da riuscire a rendere (quasi) credibili le odi pastorali che Ivory ha scritto spacciandole per dialoghi. Non per nulla le scena più riuscite sono quelle di intimità tra i due, in cui i dialoghi sono rarefatti e quasi del tutto assenti, ed è il linguaggio dei corpi a parlare, comunicare e, perché no, commuovere. Esemplare in questo senso è l'ultima scena del film, forse l'unica in cui vediamo la creatività del regista emergere con prepotenza, quasi con liberazione: Guadagnino decide di lasciare la scena a Chalamet, che lo ripaga con una sequenza semplice ma di fortissimo impatto emotivo.

Chiamami con il tuo nome è un film onesto, diretto con perizia, con un'ottima colonna sonora e splendidamente interpretato, ma molto lontano dal capolavoro di cui si urla oltreoceano, dove ha probabilmente guadagnato attenzione grazie alla tematica e a una regia che negli USA passa per autoriale, ma che qui in Europa fatica a distinguersi da mille altre viste nei maggiori festival cinematografici. È, soprattutto, molto lontano dall'essere il miglior lavoro di Guadagnino: come potrebbe, quando di Guadagnino e della sua poetica c'è poco o nulla?

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Pier

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