sabato 25 ottobre 2025

Bugonia

La morte dell'umanità


In Matrix, uscito nel 1999, l’agente Smith definiva gli esseri umani dei parassiti, una specie capace solo di sfruttare il proprio ospite fino a portarlo alla morte. Se questo punto di vista sembrava allora eccessivamente cinico, oggi ci ritroviamo di fronte alla sua inconfutabile verità. Consumiamo più risorse di quante la Terra possa produrne, specie animali si estinguono a causa nostra, e guerre pretestuose mirano ad annichilire interi popoli. Il pianeta è in fiamme, e i piromani siamo noi.

Su questa premessa si fonda anche Bugonia, il nuovo film di Yorgos Lanthimos, remake di un film coreano del 2003, Save the Green Planet!. Bugonia è un film cinico, in cui anche le corse in bici di spielberghiana memoria perdono ogni fascino e divengono lame taglienti e disperate. Un film che unisce il Lanthimos degli esordi a quello “hollywoodiano”, trovando una sintesi cupa e disperata ma anche deliziosamente grottesca, che riesce a fondere sperimentazione e linearità narrativa. Lanthimos sviscera la stupidità umana in tutte le sue forme: dall’incapacità di non cedere ai propri impulsi primari alla totale mancanza di spirito critico; dalla bellicosità alla totale noncuranza per le altre creature che abitano il pianeta con noi, passando per il progressivo asservimento alla logica del profitto a tutti i costi.

La genialità di Lanthimos sta nel fatto che, a differenza di altre film con tematiche simili, non c’è un paladino del bene che si batte contro un’umanità cieca e corrotta. Tutti i protagonisti sono portatori sia di idee positive, sia di deliri autodistruttivi che spaziano da quello di onnipotenza a una credulità e irresponsabilità bambinesca. Tutti i protagonisti, tuttavia, credono di essere i paladini del bene. La totale incapacità di accettare le proprie colpe, la certezza incrollabile di essere nel giusto anche di fronte all’evidenza del contrario, la necessità di dover trovare un nemico, un colpevole per le proprie sofferenze guidano sia Teddy che Michelle, per quanto siano animati da motivazioni diametralmente opposte.

In Bugonia non c’è nemmeno la catarsi tipica della tragedia greca (una delle grandi ispirazioni del cinema di Lanthimos), quantomeno per i suoi protagonisti: la cecità li porta all’autodistruzione senza nemmeno rendersene conto, e solo un deus ex machina può evitare che questa distruzione si estenda anche al pianeta. Non c’è pentimento, non c’è redenzione: solo una spirale di follia. Il reale e il fantastico si inseguono per tutto il film, in un gioco di disvelazioni che, alla fine, non ha vincitori, e che mette in dubbio il concetto stesso di reale.

Questo aspetto si riflette anche nell’aspetto visivo, dove Lanthimos sceglie una fotografia realistica costellata di momenti surreali e alieni, creando un senso di straniamento che rispecchia e rinforza la tensione narrativa. Ad aiutarlo contribuiscono anche le prove eccezionali di Jesse Plemons, concentrato di fragilità, effetto Dunning-Kruger, e sadismo, e Emma Stone, affascinante e respingente al tempo stesso, e manipolatrice come solo un’aliena o un’amministratice delegata di Big Pharma potrebbero essere.

Bugonia è un film ipnotico, che si nutre di opposti: una tragedia in cui si ride, un film senza speranza che mira a risvegliare le coscienze, una storia in cui il villain non è nessuno e, al tempo stesso, siamo tutti noi, con un finale che pietrifica e, al tempo stesso, lascia con un senso di giustizia compiuta. Lanthimos realizza un’opera che entra dentro il cuore e l’anima e li diliania lentamente, lasciando dietro di sé solo silenzio – un silenzio che, forse, rappresenta un nuovo inizio.

**** 1/2

Pier

Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

giovedì 23 ottobre 2025

After the Hunt

Bulimia autoriale


Alma Himoff insegna Filosofia a Yale, dove sta per ottenere la tanto attesa cattedra. È stimata da tutti, ma ha dei segreti: un problema di salute di cui non parla con nessuno, e un passato che sembra infestare i suoi ricordi. Una notte, la sua dottoranda, Maggie, si presenta a casa sua raccontandole di essere stata molestata da Hank, un altro docente. A questo punto, Alma si trova in preda a un dilemma etico: credere alla sua studentessa, o concedere il beneficio del dubbio al suo collega. 

Esiste un problema di bulimia artistica? Può un regista finire per divorare se stesso? Possono troppi film in poco tempo danneggiare l'ispirazione? La risposta varia varia da regista a regista (Woody Allen ha fatto un film all'anno per molti anni la varianza era tra "gradevole" e "grandissimo film"), ma è evidente che, per la maggior parte, la risposta è "sì": Terrence Malick, per dirne uno, ha pagato il suo unico periodo di iperprolificità con i suoi film peggiori o comunque meno ispirati. 

Nella trappola sembra essere ora finito anche Luca Guadagnino, al suo terzo film negli ultimi tre anni, quarto negli ultimi quattro: e non è un caso che quello che è di gran lunga il migliore sia il primo di questo tour de force autoimposto, Bones and all; e che quello meno salvabile sia proprio questo After the Hunt, in cui il regista ha poche idee e pure confuse.

Per correttezza va evidenziato che il problema principale risiede nella sceneggiatura di Nora Garrett, che vuol fare The social network ma senza avere il senso della narrazione e la brillantezza dei dialoghi di Aaron Sorkin. L'idea sarebbe di fare un thriller psicologico del quotidiano, un racconto sulla banalità e ambiguità del male sulla cifra di quello perfettamente realizzato dal connubio Fincher-Sorkin. Il risultato è una storia sfilacciata e inconcludente a livello sia tematico che narrativo, con dialoghi pomposi e verbosi. In The social network la tensione si tagliava con il coltello, la freddezza entrava nelle ossa: qui la tensione è inesistente, la freddezza è solo forma senza sostanza, e il coltello vorrebbero averlo gli spettatori.

Quella che dovrebbe essere una riflessione su un tema etico importante e attualissimo (quello della tensione tra credere alle vittime e il principio giuridico della presunzione di innocenza) risulta solo un esercizio retorico poco stratificato, che offre solo pochi spunti di riflessione. La tensione è quasi del tutto assente, e arriva solo grazie alla buona prova di Julia Roberts e alle musiche (bellissime, anche se spesso fuori posto) di Reznor e Ross. 

Guadagnino dona al film i suoi momenti più interessanti grazie a una regia claustrofobica e un'ottima direzione degli attori, ma a volte aggiunge problemi, anziché risolverne, soprattutto quando si perde in inquadrature inspiegabili (lunghi momenti fuori fuoco, la camera a mano, la fissazione per le mani). Questi momenti sembrano puro esercizio di stile, l'espressione di un desiderio hitchockiano di restituire lo sguardo dei personaggi che però non ha alcuna connessione con il tessuto narrativo. Il "ricciolo" di Vertigo era collegato alla trama, funzionale al racconto: Guadagnino qui pare esserselo dimenticato, perso in un vortice di mani e mal di mare (dello spettatore).

After the Hunt è un film democristiano nel senso più deteriore del termine, che sembra guidato da un desiderio furbetto di essere anti-anticonformista più che dall'avere un messaggio da comunicare. Il film si fa paladino del "non si può più dire niente" e critica i giovani mollaccioni, ma poi scivola spesso e volentieri in quella che sembra una parodia dei boomer degna di quelle che si trovano sui social media. 

In breve si può dire che After the Hunt è un film pavido, sfiatato, che non ha il coraggio di prendere posizione nè riesce a far passare l'ambiguità tematica di cui vorrebbe, forse, farsi portatore, e anzi finisce per divorarla, come Crono con i propri figli. Al paziente-regista il medico prescrive un rewatch del lavoro di Sorkin e riposo, tanto riposo.

** 1/2

Pier