mercoledì 5 febbraio 2025

The Brutalist

Il tormento e l'estasi


USA, anni Quaranta: László Tóth, architetto ebreo ungherese della scuola Bauhaus, sbarca a New York in cerca di una nuova vita, in fuga dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Sua moglie Erzsébet, tuttavia, non ha potuto seguirlo. László è costretto dapprima a lavorare come arredatore d’interni, fino a quando non viene notato da un magnate, Harrison Lee Van Buren, che gli commissiona un edificio in memoria della defunta di sua madre.

Partiamo dalla fine: The Brutalist è un film per cui non è fuori luogo l’abusata parola “capolavoro”. Corbet ha realizzato un’opera destinata a fare la storia della settima arte, un film creativo, emotivo, cerebrale, che toglie il fiato per ambizione, portata, complessità a qualunque livello – narrativo, visivo, musicale, sonoro. È uno di quei rari film che, attraverso il racconto di una micro-storia (quella di László, ma anche di Erzsébet e Van Buren), racconta la Storia: quella di un’epoca, ma anche della condizione umana. Corbet si muove a suo agio in un territorio finora battuto solo da mostri sacri come Welles (Quarto Potere), Leone (C’era una Volta in America), Anderson (Il Petroliere), Nolan (Oppenheimer), realizzando un’opera sinfonica, in cui diversi temi emergono durante il film, si intrecciano, si inseguono, scompaiono, ritornano.

Il tema centrale - ricorrente nella ristretta ma ricchissima cinematografia di Brady Corbet - è quello del trauma, e delle sue conseguenze a lungo termine. Nella sua splendida opera prima, Childhood of a leader, vedevamo il processo di creazione del trauma, per poi scoprirne, in pochi, folgoranti secondi finali, le terribili conseguenze per il protagonista e per il mondo; in Vox Lux, come in The Brutalist, il trauma è invece un fatto compiuto, di cui vediamo le conseguenze e scopriamo, a poco a poco, la profondità. Il trauma individuale qui si fa anche trauma collettivo, raccontando l’Olocausto da un’angolazione nuova: non la sua manifestazione, ma le sue conseguenze, le terribili, indelebili ferite che ha lasciato nel corpo e nella psiche delle sue vittime.

Corbet però non si limita a questa tematica. Il suo film parla anche di ambizione creativa – un’ambizione divorante, totalizzante, che porta all’annullamento del sé; di memoria, intesa sia come ricordo del passato, sia come desiderio di lasciare una traccia indelebile nel futuro; del Sogno Americano, e del suo lato oscuro, l'anima nera del capitalismo, che foraggia l'arte ma poi deve possederla, farla sua, annullando e sottomettendo l'artista e rendendo tutto commercio, transazione, in un processo di cannibalismo che si autoalimenta e tutto divora.


Il film parla, infine, d’amore, invidia, avidità, lussuria – tutte le emozioni umane, messe a nudo con un realismo che colpisce, stordisce, travolge. Come le opere di László, anche The Brutalist ha una confezione cerebrale, razionale che nasconde un cuore emotivo potente, che pulsa invisibile ma sempre presente per tutti i trent’anni della vita di László che vediamo sullo schermo. Al suo interno si alternano orrore e poesia, risate e lacrime, tormento ed estasi, i punti più alti dell’uomo e quelli più bassi, vili e meschini.

La fotografia di Lol Crawley, che aveva già lavorato con Corbet nei suoi primi due film, è perfetta nel tradurre in immagini le due anime del film, e regala immagini stordenti e commoventi, riuscendo a essere virtuosa senza risultare mai invasiva. Difficile indicare una sequenza particolarmente memorabile, dato che tutte o quasi evocano il sublime kantiano nell’animo dello spettatore, ma la parte del film che si svolge a Carrara e le sequenze che si tuffano nelle viscere nell’erigenda opera di László sono forse quelle di maggiore impatto.

La riuscita del film è anche merito del cast, capitanato da un Adrien Brody eccezionale, che dona al suo László un’ironia tagliente e smargiassa ma anche una grande fragilità: in alcuni momenti László sembra solido come i suoi edifici di cemento armato, in altri sembra che un soffio di vento potrebbe distruggerlo per sempre. Accanto a lui brillano anche Felicity Jones, che arriva tardi nel film ma offre due dei momenti di più alto impatto emotivo, e Guy Pearce: il suo Van Buren è il perfetto contraltare di László, e il loro complesso rapporto è il centro emotivo e narrativo del film.

Corbet amalgama tutti questi ingredienti con mano saldissima, realizzando un film perfetto, che dura tre ore e mezza (con intervallo “incluso”) ma sembra durarne due per quanto è compatto, teso, senza un momento, una battuta, un’inquadratura di troppo nonostante la sua ricchezza tematica e visiva. Un capolavoro, appunto, che attraverso il particolare ci parla dell’universale, ricordandoci che dall’orrore può anche nascere bellezza, e che la bellezza può nascondere l’orrore.


*****

Pier

Nota: parte di questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

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