La sindrome di Balto
Manitas del Monte, boss di un potente cartello messicano, ha deciso di cambiare radicalmente vita, e abbracciare il genere cui sente di appartenere: vuole affrontare l'operazione per diventare donna. Per realizzare questo suo desiderio, fa rapire Rita Moro Castro, brillante avvocatessa, affinché organizzi la sua sparizione e la sua nuova vita. Tutto va per il meglio, e Manitas diventa Emilia. Dopo qualche anno, tuttavia, le strade di Emilia e Rita si incrociano nuovamente, e la vicenda, inevitabilmente, si complica.
Emilia Pérez è un film sul cambiamento, sulla trasformazione, sul trovare e ritrovare un'identità - sessuale, ma anche famigliare, professionale, sociale. Audiard abbraccia questa tematica anche a livello metanarrativo, realizzando un film cangiante, multiforme, che si muove tra generi (musical, thriller, romantico) e stili con una libertà invigorente e creativa.
Per gran parte del film, questa scelta paga: la narrazione muta, si trasforma, sorprende, supportata anche da una regia inventiva e da una fotografia capace di alternare colori saturati a scene buie e cupe, campi larghi che abbracciano coreografie elaborate e primissimi piani che catturano confessioni emozionanti. Lo spettatore non sa mai dove si andrà a parare, e la sua attenzione è dunque completamente catturata dallo spettacolo messo in scena da regista e attrici, con Zoe Saldana alla miglior prova in carriera e Karla Sofía Gascón che mette corpo e anima nella parte, risultando il cuore emotivo del film.
Anche le musiche contribuiscono a questo risultato. Le canzoni, composte dalla cantautrice francese Camille, sembrano aver imparato la lezione di Lil-Manuel Miranda ibridandola con quella di Stephen Sondheim. Le melodie uniscono tonalità da musical tradizionale a rap e hip-hop, e si fondono al parlato. Iniziano, ma non finiscono, integrandosi con la trama e i dialoghi in maniera più "sporca" ma anche più naturale, replicando così a livello sonoro la natura ibrida della narrazione.
Tuttavia, alla lungo il gioco comincia a mostrare la corda, cadendo preda della "sindrome di Balto": a furia di cercare di essere sempre qualcosa di diverso, finisce per sapere solo quello che non è. La trama si sfilaccia, e prende direzioni poco ispirate o veri e propri vicoli ciechi che non aggiungo nulla alla vicenda. L'emozione si perde, e si finisce per guardare ai personaggi come pedine mosse per far avanzare la trama, e non come persone guidate da sentimenti ed emozioni (ne ha ben parlato Richard Brody nella sua recensione per il New Yorker). Lo stesso problema, per fare un esempio recente, lo aveva esibito anche Damien Chazelle con Babylon, altro film ambiziosissimo, che ibrida generi, linguaggi, toni con creatività e coraggio ma finisce per perdersi a livello narrativo ed emotivo.
Questo è vero soprattutto nei momenti che dovrebbero essere più emotivi, e in particolare nel finale, derivativo a livello visivo (Audiard per l'assedio notturno guarda al Villeneuve di Sicario, ma forse avrebbe potuto trovare qualcosa di più originale come fece nel bellissimo duello de I fratelli Sisters) e poco efficace a livello emotivo.
Emilia Pérez resta comunque un film ad alto impatto creativo, capace di divertire e intrattenere senza rinunciare alla sua ambizione artistica, e dimostra ancora una volta come Jacques Audiard sia uno dei cineasti più ispirati e non convenzionali del panorama europeo. Per usare una metafora, è un film che sembra confezionato dal sarto per avere successo nella awards season - più che un sarto, un grande stilista: attento all'estetica, alla forma creativa, al sorprendere il pubblico, ma poco attento alla funzionalità narrativa ed emotiva.
*** 1/2
Pier
PS: Non entrerò nella polemica sulla rappresentazione stereotipata delle persone transessuali e del Messico, o in quella sugli accenti che, a sentire i messicani, sono l'equivalente di quelli italiani di Lady Gaga & co in Gucci: se vi interessa leggerne, qui trovate un buon riassunto e delle fonti. Personalmente ritengo di non avere gli strumenti e le competenze per affrontare questi argomenti, e posso solo limitarmi a evidenziare che l'accento di Selena Gomez è parso posticcio anche a un orecchio poco allenato come il mio.
A me il film è piaciuto. Riguardo la stereotipizzazione dei personaggi, mi pare evidente che si tratti comunque di "fiction" e che in ogni caso tutto è finalizzato alla storia. Non penso che Audiard avesse l'intento e l'ambizione di rappresentarci il Messico a tutto tondo (del resto l'intero film è stato girato in Francia, in studio: più "finto" di così...)
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