lunedì 24 marzo 2025

La Città Proibita

L'urlo di Mainetti terrorizza anche l'occidente


Cina, anni Novanta. Mei è una secondogenita che non potrebbe esistere, vista la rigida politica del figlio unico in vigore nel paese. Vent'anni dopo, Mei si ritrova a Roma alla disperata ricerca della sorella Yun, sparita senza lasciare traccia. La sua caccia la porta a incrociare la sua strada con quella di Marcello, cuoco nel ristorante romano gestito da sua madre e di proprietà di suo padre, appena fuggito con un'altra donna.

Guardando La città proibita è impossibile non pensare al terzo (di quattro e mezzo) film con protagonista Bruce Lee, parafrasato nel titolo della recensione (The Way of the Dragon in inglese): Mainetti lo cita esplicitamente nell'ossatura: artista marziale cinese arriva a Roma e si scontra con la mafia locale a causa di un ristorante. L'omaggio (non l'unico ai kung fu movie presente nel film), tuttavia, rimane tale, e non si riduce a mera scopiazzatura. Mainetti dimostra infatti di aver bene imparato la lezione di Tarantino, e si muove alla perfezione tra citazionismo e originalità, confezionando un omaggio al cinema di genere che però ha una sua anima ben distinta, ottenuta grazie a un'ibridazione con la commedia drammatica italiana e la recente tendenza a esplorare la multietnicità delle città nostrane. 

Il risultato è un film sfaccettato e con molteplici livelli di lettura: La città proibita è un film di arti marziali, certo, ma è anche un film sul multiculturalismo, sul cambiamento - sia personale che sociale - e sulle difficoltà che questo cambiamento comporta; è un film sugli affetti familiari, vero cuore pulsante della trama, e su come possano essere al tempo stesso fondamentali per definire chi siamo e un legaccio che impedisce di crescere; è, infine, una storia d'amore sui generis, fatta dall'incontro di due solitudini che faticano a comunicare a parole e sanno esprimersi molto meglio con altri linguaggi (il combattimento per Mei, la cucina per Marcello).

La sfaccettatura del film non arriva, però, a discapito della coesione: Mainetti miscela gli ingredienti alla perfezione, realizzando una ricetta originale ma al tempo stesso familiare, un piatto esotico che però ricorda la cucina della nonna. Le scene di azione (girate splendidamente, si vede la mano di uno stunt coordinator esperto come Trayan Milenov-Troy) sono perfettamente integrate con quelle comiche e quelle da "dramma da tinello", peraltro rese molto meglio che nel 99% della produzione nostrana che ad esse dedica l'interezza della trama. L'integrazione delle diverse anime del film è un'impresa non da poco, con cui Mainetti dimostra di essere cresciuto come regista (pur mantenendo un curioso penchant per i malavitosi/villain che amano il canto): La città proibita è un film registicamente migliore e più ambizioso di Lo chiamavano Jeeg Robot, anche se forse gli mancano i picchi di genialità di quel film; e meno ambizioso ma più coeso di Freaks Out (che a parere di chi scrive rimane uno dei film migliori e più ingiustamente bistrattati dalla critica italiana degli ultimi anni).

Yaxi Liu, stunt-woman alla prima prova da attrice, porta non solo grande sapienza tecnica, ma anche un'inaspettata forza emotiva che dona energia e vitalità al film, e conferma la capacità di Mainetti di scovare semi-esordienti di talento dopo l'ottimo esordio di Aurora Giovinazzo in Freaks Out. Enrico Borello è la forza gentile del film, a volte forse troppo, ma la sua normalità serve a far risaltare un contorno del tutto delirante, da un boss cinese orgogliosissimo del figlio rapper che però non vuole avere a che fare con lui al piccolo faccendiere criminale/amico di famiglia interpretato da Marco Giallini, palesemente a suo agio nel ruolo del criminale un po' cialtrone incapace di accettare il cambiamento. Nessuna prova resterà memorabile come quelle di Luca Marinelli e di Franz Rogowski, ma tutti sono perfettamente funzionali alla riuscita del film. 

La città proibita è un film molto riuscito, che riesce anche a superare l'orrida etichetta di "kung fu all'amatriciana" e addirittura ad abbracciarla con orgoglio, omaggiando esplicitamente le sue radici ma distaccandosene per trovare la sua strada, esattamente come i suoi protagonisti. Un film in cui Mainetti si libera definitivamente dall'odiosa frase "per essere italiano", realizzando un kung fu movie che funziona, diverte, e ha respiro internazionale. Avercene.

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Pier

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