sabato 7 settembre 2024

Venezia 2024 - Il Totoleone

Anche quest'anno siamo giunti al termine della Mostra del Cinema, tra caldo tropicale, biciclette, cene ingollate tra un film e l'altro, e critici buongustai in panama bianco: una Mostra di buon livello medio, con poche vette ma ancor meno delusioni o film che facevano venir voglia di fuggire dalla sala. Anche quest'anno Alberto Barbera ha confezionato un'ottima selezione, corroborando l'entusiasmo con cui molti (compreso chi scrive) avevano accolto la sua riconferma.

È stata una Mostra in cui, come nel 2023, ci sono stati molti film biografici, da Diva Futura ad Ainda Estou Aqui, passando per la Callas di Larrain in Maria. Accanto a questi, molti film di carattere storico, come Campo di Battaglia e The Order, mentre minore è stata la presenza della politica, portata solo (e molto marginalmente) da Youth: Homecoming e The Room Next Door. La Mostra continua a guardare alla realtà, sia passata che presente, ma quest'anno è rispuntata la fantasia, che si è persino permessa di inventare intere biografie (The Brutalist). 

Qui trovate un elenco, con voti, dei film visti. Di seguito, invece, trovate i pronostici, quasi sicuramente sbagliati, per il Leone d'Oro e gli altri premi, corredati come sempre dalle mie preferenze personali.


Premio Mastroianni per il miglior attore emergente
Non ci sono tantissimi candidati papabili al premio Mastroianni quest'anno - vuoi per scarsità di ruoli rilevanti, vuoi per la natura corale della maggior parte dei film con giovani protagonisti. Il pronostico ricade su Martina Scrinzi, giovane protagonista di Vermiglio, mentre la mia scelta personale va a Benjamin Voisin, splendido coprotagonista di The Quiet Son, anche se forse è già troppo lanciato per poter ottenere questo premio.
PronosticoMartina Scrinzi, Vermiglio
Scelta personaleBenjamin Voisin, The Quiet Son

Coppa Volpi maschile
Sfida molto accesa, con tantissimi pretendenti: dal Vincent Lindon di The Quiet Son al Joaquin Phoenix canterino di Joker: Folie à Deux (dopo che con Joker non vinse a causa del regolamento della Mostra che impedisce che il Leone d'Oro prenda altri premi - regola cui pare quest'anno sia possibile ovviare in caso di unanimità in giuria); dall'Adrien Brody di The Brutalist al Nahuel Pérez Biscayart di El Jockey, passando per Daniel Craig in Queer. A Biscayart, dolente e silenzioso, va il mio pronostico, mentre su Brody, potente e fragile, va la mia scelta personale.
PronosticoNahuel Pérez Biscayart, El Jockey
Scelta personale: Adrien Brody, The Brutalist

Coppa Volpi femminile 
Sfida meno accesa di quella per la Coppa maschile, ma comunque ricca di pretendenti qualificate: Angelina Jolie offre la classica prova "da Oscar" in Maria, ma Isabelle Huppert potrebbe preferire prove meno appariscenti e più "contenute" come quelle di Tilda Swinton e Julianne Moore in The Room Next Door o di Fernanda Torres in Ainda Estou Aqui. Sulla Torres, bravissima, ricade il mio pronostico. La mia scelta personale va invece, ex aequo, alle due protagoniste del film di Almodovar, che sarebbe dimenticabile (a dispetto di ciò che dice la critica imparruccata, che non a caso sembra apprezzare un Almodovar più conservatore) se non fosse per la loro straordinaria prova.
Pronostico: Fernanda Torres, Ainda Estou Aqui
Scelta personale: Julianne Moore e Tilda Swinton, The Room Next Door

Leone d'Argento (Miglior Regia) 
Se ci fosse giustizia, The Brutalist avrebbe già il Leone d'Oro. Ma dato che il mondo è buio e freddo, e i capolavori vengono riconosciuti pienamente solo con il tempo, temo che Corbet dovrà "accontentarsi" di questo premio - un risultato comunque notevolissimo per un regista al terzo film. Su di lui ricade il mio pronostico, mentre la mia scelta personale ricade su Todd Phillips, che firma un sequel coraggioso e divisivo, creando una commissione di generi di difficile digestione ma di grande ricchezza e complessità. Piccola menzione anche per Giulia Steigerwalt, che realizza un'opera seconda di rara maturità per composizione, chiarezza tematica, e direzione degli attori: ma il film ha toni da commedia, peccato mortale presso i festival cinematografici e i già citati critici imparruccati.
Pronostico: Brady Corbet, The Brutalist
Scelta personale: Todd Phillips, Joker: Folie à Deux

Gran Premio della Giuria 
Il favorito per il secondo premio più importante sembrerebbe un beniamino dei giudici come Luca Guadagnino. E il suo Queer è indubbiamente un bel film a tutti i livelli: visivo (soprattutto), recitativo, e di scrittura (ancorché troppo lungo). Il problema è che è molto poco originale, e soprattutto è un adattamento pessimo del romanzo breve di Burroughs, e ne tradisce in pieno toni, intenzioni, e stile. Se ci fosse un minimo di attenzione per questi aspetti, il premio dovrebbe andare ad altri: ma temo non sarà così. All'opera più bizzarra, originale, meravigliosamente schizofrenica della Mostra - El Jockey di Luis Ortega - va invece la mia preferenza personale.
Pronostico: Queer
Scelta personaleEl Jockey

Leone d'Oro 
Sfida davvero accesa e incerta, con tutti i film già citati per gli altri premi che potrebbero legittimamente ambire anche al trofeo più prestigioso. Come detto, il mio preferito, nonché unico vero capolavoro della Mostra, è The Brutalist, ma temo non vincerà a favore di The Room Next Door. Un film che piace a chi scambia la verbosità per profondità, che può comunque esibire dei meriti oggettivi (tematica rilevante, attrici ottime, uso del colore splendido). Su Almodovar, dunque, ricade il mio pronostico.
Pronostico: The Room Next Door
Scelta personale: The Brutalist

È tutto anche per quest'anno. Correte in SNAI a scommettere sull'opposto dei miei pronostici, e noi ci risentiamo per l'edizione 2025.

Pier

Telegrammi da Venezia 2024 - #8

Ultimo telegramma da Venezia 2024, con l'elenco di tutti i film visti del concorso e i relativi voti. 


Quando il voto era pari, ho messo davanti il film che ho preferito. Cliccando il titolo potete leggere la recensione breve pubblicata nei Telegrammi precedenti.
  1. The Brutalist, voto 10
  2. El Jockey, voto 8.5
  3. Joker: Folie à Deux, voto 8.5
  4. Diva Futura, voto 8.
  5. Ainda Estou Aqui, voto 7.5
  6. The Quiet Son, voto 7.5
  7. The Order, voto 7.5
  8. Trois amies, voto 7
  9. Vermiglio, voto 7
  10. Maria, voto 7
  11. The Room Next Door, voto 6.5
  12. Queer, voto 6.5
  13. Love, voto 6.5
  14. Youth: Homecoming, voto 6
  15. Campo di Battaglia, voto 5.5
  16. Babygirl, voto 5.5
  17. Harvest, voto 5
Non visti: April, Stranger Eyes, Iddu, Leurs Enfants Aprés Eux.

Per i telegrammi è tutto, a più tardi per i pronostici.

Pier

venerdì 6 settembre 2024

Telegrammi da Venezia 2024 - #7

Settimo telegramma da Venezia 2024, tra rivendicazioni sindacali intrise di misticismo, geniali autoparodie, documentari su Cina e Ucraina, storie di immigrazione, e riflessioni sull'amore.


Sugar Island (Giornate degli Autori), voto 7. La rivendicazione dei diritti dei lavoratori delle piantagioni da zucchero in Repubblica Dominicana si intreccia con il misticismo locale, con un culto matriarcale che cerca di comprendere il corso degli eventi. Al centro, la vicenda di una ragazza senza documenti e identità, condannata ai margini dagli errori del passato che continuano ad avere un impatto sul presente. Non tutto funziona, ma la commistione tra tematica socio-sindacale e mistica è originale e ben costruita.

Broken Rage (Fuori Concorso), voto 8. Kitano realizza un film ferocemente dissacrante, con una prima metà che è un thriller serio e teso, e la seconda che è una spledida parodia della prima. Si ride a crepapelle, ma le risate non nascondono la sublime sensibilità di Kitano per la messa in scena: ogni inquadratura è una piccola opera d'arte.

Youth: Homecoming (Concorso), voto 6. Documentario sulla gioventù cinese e il suo rapporto con il mondo del lavoro, che soffre di un'eccessiva lunghezza e di una scarsa attenzione per chi non conosce bene la società cinese, che fatica a comprendere molti passaggi della vicenda narrata.

Love (Concorso), voto 6.5. Love è un film di buona fattura che, nonostante qualche giro a vuoto, riesce a offrire alcuni momenti di riflessione e lirismo, grazie anche a un ottimo uso della luce, che dipinge momenti, persone, situazioni, stringendoli in un caldo abbraccio che li rende fortemente, irresistibilmente umani. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Songs of Slow Burning Earth (Fuori Concorso), voto 6.5. Interessante documentario che racconta come è cambiata la quotidianità degli Ucraini con la guerra. Immagini interessanti, ma il taglio è forse troppo cronachistico, senza una riflessione o un punto di vista "particolare."

Little Jafna (Settimana della Critica), voto 8. Due gang rivali di origine tamil si affrontano per le strade di Parigi. Il loro paese d'origine (Sri Lanka) domina la scena nonostante la distanza geografica, regalando uno spaccato sociale degli espatriati che intrattiene e fa riflettere.

Pier e Simone

mercoledì 4 settembre 2024

Telegrammi da Venezia 2024 - #6

Sesto telegramma da Venezia 2024, tra celebri villain che si danno al musical, la storia del porno italiano, giovani adulti fissati con le morti celebri, guerre da prospettiva domestica, e folk horror in salsa calabrese.


Diva Futura (Concorso), voto 8. Giulia Steigerwalt, alla sua opera seconda, firma quello che è fin qui il film italiano migliore tra quelli in Concorso, la storia di Diva Futura, l'agenzia di casting e produzione specializzata in pornografia che lanciò, tra le altre, Cicciolina, Moana Pozzi, ed Eva Henger. Steigerwalt firma un'opera fresca, vitale, un inno alla libertà femminile ben girato sia a livello di immagini che di ritmo e direzione degli attori, con un bellissimo finale.  raccontato attraverso Al centro di tutto c'è Riccardo Schicchi, folletto pieno di idee ed energia e di una visione pura e libera del corpo femminile, interpretato magistralmente da Pietro Castellitto. Accanto a lui le sue attrici, ma anche la segretaria Debora Attanasio, coscienza e colonna portante dell'agenzia. Ottima prova corale del cast femminile, tra cui spicca Barbara Ronchi nella parte della Attanasio.

Joker: Folie à Deux (Concorso), voto 8.5. Folie à Deux riparte dal finale di Joker (le rivolte), e racconta il momento in cui una persona diventa un simbolo, un'idea, che prende vita propria e si gonfia, si deforma, diventa sempre più mostruosa. Phillips ancora una volta usa il genere - anzi, i generi - per parlare dell'oggi, della realtà, e dei pericoli del futuro: vedremo se lo staremo a sentire, o se affonderemo, cantando e ballando mentre il mondo va in fiamme. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Paul and Paulette Take a Bath (Settimana della Critica), voto 7.5. Due ragazzi fissati con la storia e le morti famose si incontrano per caso a Parigi. Diventano amici, amanti, qualcosa di difficilmente definibile, mentre cercano se stessi e cercano di elaborare i propri traumi. Il film è uno strano pastiche di opere molto diverse come Harold & Maude e The Dreamers: il risultato, seppur con qualche passaggio a vuoto, funziona, e ci regala una storia divertente, malinconica, vera.

Honeymoon (Biennale College), voto 6.5. Una coppia ucraina decide di non lasciare il proprio paesino, convinti che la guerra non arriverà fin lì. Ovviamente si sbagliano. La vicenda è narrata tutta all'interno dell'appartamento, restituendo un'esperienza claustrofobica della guerra che funziona ma non ottiene un particolare impatto emotivo.

Basileia (Giornate degli Autori - Fuori Concorso), voto 6.5. Dopo una partenza alla Indiana Jones, il film cambia direzione e vira verso il folk horror con note ambientaliste.. La buona idea viene parzialmente affossata dallo scarso budget, che lascia una sensazione da "vorrei ma non posso." Però avercene di film italiani così ambiziosi.

Pier e Simone

martedì 3 settembre 2024

Telegrammi da Venezia 2024 - #5

Quinto telegramma da Venezia 2024, tra figli radicalizzati, documentari geniali su iconiche band, futuri distopici, esperimenti inutili, donne tradite, e donne che risolvono tradimenti.


The Quiet Son (Concorso), voto 7.5. Il racconto della crescente disperazione di un padre che assiste, impotente, alla radicalizzazione del figlio, che aderisce a gruppi di estrema destra. Un film che, pur non brillando per originalità della costruzione, è potente, a tratti devastante dal punto di vista emotivo grazie a una sceneggiatura solida e senza fronzoli e alla prova dolente del sempre bravissimo Vincent Lindon.

Pavements (Orizzonti), voto 8.5. Documentario geniale, non convenzionale, meta-filmico e folle. Insomma, perfettamente in linea con i Pavement, la band che racconta in maniera creativa e originale - talmente originale che non riveliamo il "trucco" per lasciare allo spettatore il piacere della scoperta. Un solo indizio: quella "s" nel titolo è, in parte, rivelatoria dell'approccio caleidoscopico alla narrazione. Parla ai fan, e anche a chi volesse scoprire da zero la storia dell'iconica band.

2073 (Fuori Concorso), voto 3. Immagini di repertorio rielaborate a fini narrativi per raccontare un futuro preconizzato senza alcuna originalità né guizzo creativo.

Possibility of Paradise (Giornate degli Autori - Evento Speciale), voto 2. Esperimento visivo poco riuscito, fatto di continui fermi immagine e immagini fuori fuoco, incomprensibile senza un commento esplicativo del regista.

Mistress Dispeller (Orizzonti), voto 6. Il film racconta una professione realmente esistente nella società cinese, quella di "terminatrice" di relazioni extraconiugali. Tra documentario e finzione, il film rivela un mondo di relazioni sull'orlo della distruzione, e dell'atto di equilibrismo richiesto per ricostruirle.

Don't Cry, Butterfly (Settimana della Critica), voto 8. I tormenti di una donna tradita che si sfoga con amiche e vicine, che le danno consigli bellicosi mentre una misteriosa macchia, visibile solo alle donne, si espande sul soffitto. La dramedy a tinte horror mette a nudo delle verità nascoste, raccontando al tempo stesso una cultura patriarcale in cui le donne devono lottare per il proprio spazio anche in assenza dei mariti.

Simone 

Telegrammi da Venezia 2024 - #4

Quarto telegramma da Venezia 2024, tra eutanasia, villaggi alpini e di campagna, perdita della memoria, e grandi registi che cercano di adattare grandi scrittori, con risultati altalenanti.


The Room Next Door (Concorso), voto 6.5. Almodovar realizza un film sull'eutanasia splendidamente recitato da Swinton e Moore (anche se la scelta di far fare due personaggi alla pur ottima Swinton risulta posticcia anziché efficace) e con una fotografia pittorica. Tuttavia, la sceneggiatura è eccessivamente verbosa, con una serie di monologhi simil-teatrali che riducono la credibilità e il coinvolgimento emotivo.

Vermiglio (Concorso), voto 7. Italia, anni Quaranta. Una famiglia che vive in un paesino sulle Alpi trentine vede la sua quotidianità sconvolta dall'arrivo di un fuggiasco dalla guerra e dalla crescita delle figlie. Film di respiro, fatto di quotidianità e atmosfere, che ricorda i lavori di Giorgio Diritti nella sua indagine del rapporto uomo-natura e delle relazioni umane. Tocca le corde giuste, nonostante una lunghezza eccessiva. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Familiar Touch (Orizzonti), voto 8. Una donna ancora autosufficiente ma con gravi problemi di memoria si trasferisce in una clinica. Toccante e commovente, il film affronta il problema del declino cognitivo dal punto di vista del paziente, ma senza indulgere né negli orrori della malattia né in facili pietismi. La protagonista (seria candidata al premio come migliore attrice della sezione Orizzonti) vive la sua quotidianità con leggerezza e sorrisi, cercando di trovare un raggio di luce nell'ombra che le sta calando nel cervello.

Queer (Concorso), voto 6.5. Guadagnino adatta l'omonimo romanzo di Burroughs, e conferma ancora una volta la difficoltà nel portare al cinema i romanzi della beat generation. La storia è infatti di scarso interesse, perché l'innovazione non sta nel "cosa" racconta Burroughs, ma nel "come": una prosa innovativa, che scardina le convenzioni sia a livello stilistico che narrativo. Guadagnino, invece, gira in modo iper-classico, e non bastano alcune scene allucinatorie per restituire lo stile di Burroughs. In generale, è difficile immaginare un regista meno adatto ad adattare l'autore più geniale del gruppo beat: laddove Burroughs è sporco, sudicio, distrutto, Guadagnino è pulito, lucido, patinato. Bellissima la forma (soprattutto l'uso di luce, debitore anche di Storaro nel finale, e colore); ma la sostanza è davvero poca.

Harvest (Concorso), voto 5. Un villaggio vive in pace con se stesso e la natura, vivendo una vera esistenza comunitaria, fino a quando un cambio nel proprietario terriero sconvolge la quotidianità dei protagonisti. Il film sembra indeciso su che strada prendere, flirtando con il folk horror e con il dramma d'epoca senza però mai prendere una decisione. Il risultato è un film confuso, lento, e sconclusionato, che non può essere salvato da alcune scene molto riuscite e dalla buona prova del cast.

Pier e Simone

domenica 1 settembre 2024

Telegrammi da Venezia 2024 - #3

Terzo telegramma da Venezia, tra film che sembrano canzoni di Jannacci, sparizioni illustri sotto la dittatura, maestri giapponesi, una "buddy cop" comedy rovesciata, e la testimonianza di un momento raro: la nascita di un capolavoro.


La Storia del Frank e della Nina (Orizzonti Extra), voto 8. Una fiaba contemporanea che sembra uscita da una canzone di Jannacci, che racconta gli invisibili (per scelta e per la società) e il disagio di una generazione con dolce creatività, immergendoli in una Milano sconosciuta, lirica, e bellissima.

Miyazaki, Spirito della Natura (Classici Doc), voto 6. Buon documentario per chi vuole conoscere la poetica e l'opera di Miyazaki. Per chi è già esperto nell'opera del maestro giapponese c'è poco, ma i materiali d'archivio sono comunque interessanti.

The Brutalist (Concorso), voto 10. The Brutalist è un film per cui non è fuori luogo l'abusata parola "capolavoro". Corbet ha realizzato un'opera destinata a fare la storia della settima arte, un film creativo, emotivo, cerebrale, che toglie il fiato per ambizione, portata, complessità a qualunque livello - narrativo, visivo, musicale, sonoro. Qui la recensione estesa scritta per Nonsolocinema.

Wolfs (Fuori Concorso), voto 7.5. Bell'incrocio tra gangster movie e cop comedy, con Clooney e Pitt che interpretano due "Mr. Wolf" che risolvono problemi e si trovano a dover collaborare quando vengono chiamati per risolverne uno. Watts scrive e dirige un film divertito e divertente, che gioca con gli stilemi del genere senza risultare banale.

Ainda Estou Aqui (Concorso), voto 7.5. La storia vera del desaparecido Rubens Paiva, fatto sparire dalla dittatura brasiliana negli anni Settanta, vista dal punto di vista di sua moglie, che fa di tutto per scoprire cosa gli sia successo. La forza nel film sta nei minuti iniziali, in cui il regista tratteggia uno splendido ritratto di famiglia, che ci fa affezionare ai protagonisti e rende ancora più straziante il momento del rapimento, e il vuoto, l'incertezza dilaniante che ne conseguono. Un po' sfilacciato sul finale, ma offre comunque un ottimo ritratto dell'epoca.

Pier

sabato 31 agosto 2024

Telegrammi da Venezia 2024 - #2

Secondo telegramma da Venezia, tra film adolescenziali inutili, mondi che finiscono mestamente, cinquanta sfumature di Kidman, amicizie con segreti, obiezioni di coscienza, e sette suprematiste.


Ecco i film visti nel primo giorno e mezzo di Mostra:

To Kill a Mongolian Horse (Giornate degli Autori), voto 7.5. Un allevatore della steppa mongola si guadagna da vivere come cavallerizzo negli spettacoli per turisti. Il film è una triste e lirica ode di un mondo che sta scomparendo, e di chi non si rassegna a lasciarlo andare, e offre una bella meditazione sul rapporto uomo-natura e su come la sua crisi sempre più irreversibile stia distruggendo un patrimonio culturale, oltre che faunistico e paesaggistico.

Diciannove (Orizzonti), voto 3. Un Ecce Bombo che non ce l'ha fatta. Inutile.

Babygirl (Concorso), voto 5.5. Una donna di potere cerca un rapporto di sottomissione nella sfera sessuale, e lo trova con un giovane stagista. Tema potenzialmente interessante ma declinato con desolante banalità. Il film risulta quindi di scarso impatto nonostante la buona prova dei protagonisti, Kidman in testa.

Trois Amies (Concorso), voto 7. Tre amiche che non si confessano tutti si trovano a vivere inaspettati sconvolgimenti nelle loro vite sentimentali. Divertente ma anche abbastanza profondo, il film funziona ed esplora la complessità delle relazioni senza essere mai banale.

Campo di Battaglia (Concorso), voto 5.5. Amelio firma un film che, nonostante un solo attore presentabile (Borghi) e dei dialoghi macchinosi, per metà offre un'interessante meditazione sui dilemmi etici della guerra. Poi si perde, correndo dietro all'influenza spagnola e abbandonando il cuore emotivo e morale del film. Peccato.

The Order (Concorso), voto 7.5. Già il fatto che questa sia una storia vera (setta neonazista che ha terrorizzato gli USA per oltre un anno) fa impressione: il fatto che la storia sembri addirittura attuale è preoccupante. Justin Kurzel firma un film teso e ben eseguito, che richiama True Detective, tra indagini ostacolate dall'omertà della comunità e degli agenti dell'FBI che fanno i conti con il proprio passato, tra cui spicca un ottimo Jude Law.

Pier

venerdì 30 agosto 2024

Telegrammi da Venezia 2024 - #1

Come ogni anno, Film Ora è a Venezia, e vi accompagnerà per tutta la Mostra del Cinema con i suoi telegrammi, recensioni brevi dei film visti nelle varie sezioni. Una Mostra con tantissimi titoli interessanti, che promette belle sorprese e anche qualche inevitabile delusione.


Ecco i film visti nel primo giorno e mezzo di Mostra:

Beetlejuice, Beetlejuice (Fuori Concorso), voto 7. Burton torna all'universo (e al genere) che lo ha reso famoso e firma una dark comedy divertente e divertita, meno dissacrante dell'originale ma con una verve visiva finalmente ritrovata - per quanto in parte già vista -  dopo gli innumerevoli passi falsi disneyani. Tematicamente Beetlejuice, Beetlejuice dimostra un'attenzione maggiore al lato emotivo della narrazione: mentre Keaton gigioneggia adorabilmente, Burton trova il tempo di parlare del male nascosto dei sobborghi USA, di lutto, e di relazioni familiari.

Separated (Fuori Concorso), voto 7.5. Morris firma un efficace documentario sulla family separation policy dell'amministrazione Trump. Lo fa con un piglio di denuncia alla Michael Moore ma uno stile più sobrio, secco, espositivo, che colpisce dritto allo stomaco proprio per la pulizia della narrazione, e viene solo parzialmente sporcato dalla scelta di avere delle parti ricostruite che ondeggiano tra il ridondante e l'inutile. Qui la recensione completa fatta per Nonsolocinema.

Nonostante (Orizzonti), voto 5. Uno spunto potenzialmente geniale - un ospedale abitato dalle anime di chi è in coma - elaborato in maniera pasticciata, confusa, senza né capo né coda. Peccato, perché per ambizione e creatività visiva questa opera seconda da regista di Mastandrea poteva essere molto di più.

El Jockey (Concorso), voto 8.5. Si può parlare di identità (di genere, ma non solo) facendo un film sull’ippica? La risposta è sì. El Jockey è un film sulla necessità di rinnovarsi e sul potere catartico di questo atto di riscoperta, in grado di correggere la rotta di una vita lanciata come un cavallo in corsa, riuscendo a evitare che si schianti sulle balaustre e facendolo invece correre, finalmente, libero, verso un futuro non ancora scritto.Qui la recensione completa fatta per Nonsolocinema.

Maria (Concorso), voto 7. Larrain racconta la Callas in modo patinato, attraverso un melodramma perfettamente confezionato ma scontato, che si concentra sulle sue storie d'amore e sulla sua natura di diva tanto quanto sulla sua musica. Peccato, perché il dramma di una donna che non riesce più a fare ciò che l'ha resa immortale meritava più spazio, così come altri capitoli della sua vita artistica (il rapporto con Visconti e Di Stefano e la sua carriera cinematografica in primis) che potevano sostituire molti inutili siparietti domestici (soprattutto) e alcune delle interazioni con Onassis. Il film risulta comunque ben riuscito grazie a una prova strepitosa di Angelina Jolie, che dà corpo e voce alla fragile divinità della Callas.

Pooja, Sir (Orizzonti), voto 6.5. Il film racconta un indagine su un caso di rapimento in Nepal, sullo sfondo di tensioni etniche e discriminazione di genere. Il film funziona, pur senza guizzi significativi e con una lunghezza forse eccessiva: è teso il giusto e la tematica culturale è affrontata con un taglio umano che conquista.

Pier


sabato 24 agosto 2024

Tesori Nascosti - #9

Torna "Tesori nascosti", la rubrica che segnala film meritevoli di recupero passati inosservati o quasi in Italia.
Ogni film è corredato di voto, informazioni su dove reperire il film, e di un breve commento o un link alla nostra recensione.


1. Sicario, voto 9
Generethriller
Anno: 2015
RegistaDenis Villeneuve
DVD: sì, edizione italiana
Streaming: RaiPlay
Commento: Film imperdibile per gli amanti del poliziesco, Sicario è un thriller teso come una corda di violino ambientato nel mondo dello spaccio al confine con il Messico. Una storia oscura, in cui nessuno è come sembra e l'ombra domina la luce, costringendo tutti a compromessi con la propria coscienza. Villeneuve gira con la solita sapienza tra piani sequenza mozzafiato e chiaroscuri in silhouette che meravigliano e terrorizzano.

2. Eighth Grade, voto 8
Generecommedia
Anno: 2018
RegistaBo Burnham
DVD: no
Streaming: Prime Video, AppleTV (noleggio)
Commento: Il debutto alla regia di Bo Burnham, attore e comico statunitense, è un dolce e divertente racconto degli imbarazzi dell'adolescenza al giorno d'oggi, che potrebbe essere la versione più adulta dell'ultimo capitolo di Inside Out. Burnham racconta alla perfezione anche l'arma a doppio taglio dei social, che possono essere strumento di connessione ma anche di isolamento. Intelligente e mai banale, il film è stato un caso negli USA, ma ha misteriosamente trovato scarsa distribuzione qui in Italia.

3. Impiegati...male, voto 7.5
Genere: commedia
Anno: 1999
Regista: Mike Judge
DVD: sì, edizione italiana
Streaming: Disney+
CommentoUn cult della commedia statunitense, che ha avuto meno successo in Italia, forse a causa dell'orrido titolo in traduzione, Office Space è un'eccellente satira del lavoro d'ufficio, sviscerato in tutte le sue nevrosi e fissazioni. Il desiderio di fuga dei protagonisti è quello di un'intera generazione, e anticipa tematiche contemporanee come le "grandi dimissioni" e il quiet quitting. Imperdibile per chi ama The Office, e in parte anche per i fan di Friends (Jennifer Aniston è la protagonista).

4. The First Slam Dunk, voto 9
Genere: drammatico, sportivo
Anno: 2022
Regista: Takehiko Inoue
DVD: in uscita, edizione italiana
Streaming: Prime Video
Commento: Un capolavoro dell'animazione giapponese e del cinema sportivo, The First Slam Dunk è imperdibile per chi ha amato manga e serie anime, ma riesce a parlare anche a chi scopre ora il mondo dello Shohoku, raccontando la scelta di dolore e redenzione del giovane Ryota e, in parallelo, anche quella dei suoi compagni. Sequenze finali da brividi. Qui trovate la recensione estesa.

5. Shiva Baby, voto 8.
Genere: commedia drammatica
Anno: 2021
Regista: Emma Seligman
DVDsì, edizione italiana
Streaming: Mubi
CommentoFulminante esordio alla regia di Emma Seligman, che racconta un momento di disorientamento della giovane ebrea Danielle. Iscritta all'università ma incapace di continuare, Danielle ha costruito un castello di bugie che rischia di crollare quando i genitori la costringono alla seduta di shiva (rituale di lutto ebraico) di un'amica di famiglia. Seligman realizza un film esilarante ma claustrofobico, con una fotografia sincopata e invadente che rappresenta al meglio il crescente disagio di Danielle, intrappolata in una casa (e in delle aspettative, sia professionali che sentimentali) da cui vorrebbe solo fuggire per poter finalmente essere se stessa.

6. Non pensarci, voto 9.
Genere: commedia drammatica
Anno: 2007
Regista: Gianni Zanasi
DVDsì, edizione italiana
Streaming: RaiPlay
Commento: Un musicista è costretto a tornare a casa dalla famiglia, titolare di una ditta che produce marmellate, dopo averli accuratamente evitati tutta la vita. Gianni Zanasi firma una commedia drammatica da manuale che racconta alla perfezione e con piglio quasi sociologico la provincia italiana in tutti i suoi pregi e difetti. I personaggi sono imperfetti ma ci si affeziona inesorabilmente, portandoci a tifare per il loro successo a dispetto di tutti i loro errori. Cast stellare, con Mastandrea a una delle sue prove migliori in carriera.

Pier

sabato 27 luglio 2024

Deadpool & Wolverine

Il finto stupido


Wade Wilson ha smesso di essere Deadpool, ma la sua vita non ha preso una bella piega. Vanessa lo ha lasciato, e il suo lavoro come venditore di auto arranca. Un giorno viene però rapito dalla TVA, che gli comunica che la sua linea temporale sta per morire. Ma Deadpool non ha intenzione di lasciare che accada. Per salvare coloro che ama ha però bisogno dell'aiuto del compagno più improbabile che ci sia: Wolverine.

C'è un archetipo letterario che è particolarmente amato dal cinema e dalla televisione, quello del finto stupido: il personaggio che sembra ingenuo e idiota, un bonaccione incapace di alcuna furbizia o sottigliezza, e che si rivela invece un passo avanti agli altri, dotato di una profondità impossibile da intuire alla vista. Da Kaiser Soze ad Hanamichi Sakuragi, gli esempi si sprecano. Deadpool è un finto stupido da manuale, e una delle grandi intuizioni di Ryan Reynolds è stata quella di tradurre questa caratteristica a livello metanarrativo, costruendo due film che all'apparenza erano solo degli ottovolanti colorati, fracassoni, e politicamente scorretti, ma in realtà raccontavano (soprattutto il primo) traumi, perdite, senso di inadeguatezza molto meglio di film molto più celebrati e "seri."

In Deadpool & Wolverine questa operazione viene portata alle sue estreme conseguenze: Shawn Levy firma un film iperstratificato che a tratti arriva a essere meta-metanarrativo - un meta al quadrato in cui si racconta non solo l'atto del narrare, ma il contesto che circonda il narratore, la macchina produttiva in cui si trova immerso. Deadpool è Ryan Reynolds, e viceversa, e questa identità non viene nascosta ma diviene parte del punto di vista del mercenario più loquace di sempre, il narratore che ci porta a spasso per il Multiverso, e in particolare nella sua parte ormai morta: l'universo Fox.

Finto stupido, olio su tela

Deadpool & Wolverine è infatti, prima di tutto, una lettera d'amore a un genere e a un'epoca, quella Fox, che è stata superata dal nuovo corso dei cinecomic, fatti di universi condivisi, crossover, e storie che compongono un puzzle più grande. Nel celebrare queste storie, il "finto stupido" tira stilettate non indifferenti a chi le ha fatte finire del Vuoto, pronte a essere divorate dal MCU Disney, qui impersonato da Alioth, mostro che condanna all'oblio. Se questo riferimento non fosse abbastanza, la villain, Cassandra Nova (interpretata da un'eccellente Emma Corrin) è una telepate che mette le mani nei ricordi ed è in grado di alterarli, modificarli, riplasmarli a suo piacimento: anche qui, il riferimento a Disney e alla sua operazione di ri-costruzione di un universo, con conseguente accantonamento di tutto ciò che non può essere integrato, è abbastanza palese. 
L'amore di Reynolds e Levy per il materiale si vede anche nella scelta dei cameo, mai scontati né dettati dalla popolarità, ma solo da un genuino amore per ciò che è stato e ciò che poteva essere, errori e passi falsi compresi. 

Al centro della narrazione c'è il simbolo di questo universo morente, nonché sua unica speranza di salvezza: quel Wolverine/Logan che avevamo salutato in una sua incarnazione nello splendido Logan (qui omaggiato in modo irriverente e, dunque, paradossalmente rispettoso) e che torna in quella che forse è la sua apparizione più vicina alla sua controparte fumettistica. La venerazione di Reynolds per Hugh Jackman è quella dei fan, che lo amano per aver sempre dato tutto se stesso al personaggio, anche nei film peggiori, anche quando era ormai un attore affermato. Ma è anche quella di Deadpool stesso, in un gioco di incroci meta che non stanca ma rafforza ogni suo elemento, rendendolo godibile e facendo esultare spettatori e personaggi all'unisono in momenti di fan service mai gratuiti, ma sempre integrali alla trama. Jackman risponde regalando una prestazione stellare, divertente, dolente, rabbiosa, accettando di prendersi in giro e, al tempo stesso, prendendo tutto tremendamente sul serio.


È in questo bilanciamento tra scanzonatura e serietà, parodia e omaggio, fan service e attenzione alle esigenze narrative che sta la forza di Deadpool & Wolverine: dietro una patina di volgarità, violenza, e battute demenziali si nasconde un film pieno di cuore e amore per i personaggi, nonché il film che ha saputo utilizzare meglio il concetto di Multiverso a fini narrativi, superando anche altri tentativi ben riusciti come No Way Home (dove però il Multiverso era solo un "pericolo incombente") e il secondo Doctor Strange (dove il Multiverso era solo un'ambientazione, per quanto ben sfruttata). Non tutto funziona alla perfezione, con qualche lungaggine evitabile e alcuni punti di trama (il rapporto tra Deadpool e Vanessa) affrontati troppo rapidamente, ma il risultato è comunque eccellente - un piatto che soddisfa nonostante la molteplicità di ingredienti buttati nella pentola, solo apparentemente a casaccio. 

Deadpool & Wolverine è divertente, fracassone, e lascerà i fan a bocca aperta con le sue invenzioni, i suoi combattimenti (quello sulle note di Like a Prayer è già da antologia) e le sue battute. Tuttavia, è anche qualcosa di più: un omaggio a un'epoca e a dei personaggi che hanno suscitato emozioni e raccontato storie che rimarranno con gli appassionati; un inno al potere della memoria e dei legami personali, unica costante in un universo in continuo cambiamento. Un finto stupido, appunto, che tocca le corde emotive dello spettatore molto più in profondità di quanto faccia intendere.

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Pier

venerdì 26 luglio 2024

Fuga in Normandia (In pillole #28)

Fare i conti con il passato


La storia (vera) della rocambolesca fuga in Normandia di un veterano inglese del D-day residente in casa di riposo è in realtà un pretesto per parlare di uno dei temi più presenti e, evidentemente, pressanti del cinema contemporaneo: la memoria. Il racconto del viaggio si interseca infatti con i ricordi di Bernard, che in Normandia ci andò ben due volte, e di Rene, che ricorda il loro incontro, il dolore nel vederlo partire, e la loro vita insieme. Ma si interseca anche con la memoria di interi popoli e nazioni, rappresentati dalle persone che Bernard incontra durante il suo viaggio: altri reduci, tormentati da ricordi indelebili, da colpe irrimediabili per cui l'unica speranza sono l'assoluzione e il dolce balsamo dell'oblio.

Fuga in Normandia è anche un film che parla di pace, di dialogo, dell'orrore della guerra che travolge persone che si trovano per puro caso dalle due parti opposte della barricata, e che in tempi normali potrebbero condividere una birra, e che sono unite da un dolore immenso, che può però divenire occasione di riconciliazione, come suggerito in una delle scene più riuscite del film.

Il grande merito di William Ivory (sceneggiatore) e Oliver Parker (regista) è quello di riuscire ad affrontare questi temi senza retorica e senza indulgere nello sdolcinato, ma alternando sapientemente momenti divertenti a momenti di grande potenza emotiva. A sostenerli ci sono le superbe prove di Michael Caine e Glenda Jackson, che si offrono alla macchina da presa senza aver paura di mostrare i segni della vecchiaia, regalandoci una coppia memorabile per complicità e realismo, e mostrando al pubblico il vero significato della parola "amore." 

Questo film, che sarà per entrambi il loro ultimo lavoro, (Caine ha annunciato il ritiro dalle scene, mentre Jackson è morta poco dopo la fine delle riprese) è un testamento perfetto a due carriere esemplari, e a una storia finora sconosciuta ma che invece ha tanto da insegnarci sui lati più oscuri e più brillanti della natura umana.

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Pier

sabato 20 luglio 2024

Fremont

Poesia della solitudine


Costretta a lasciare l'Afghanistan, dove lavorava come interprete per l'esercito USA, dopo il ritorno al potere dei Talebani, Donya ora vive a Fremont e lavora a San Francisco in un'azienda che produce biscotti della fortuna. La ragazza cerca di ricostruirsi una vita, facendosi strada tra i traumi del passato che le impediscono di dormire e personaggi bizzarri ma ricchi di cuore.

Ci sono film che ti fanno uscire dal cinema con il cuore pieno di bellezza e poesia, un sorriso stampato sul volto. Fremont è uno di quei film: un film all'apparenza semplice, senza pretese, che però entra sotto pelle per la sua capacità di trattare temi complessi senza pietismo né retorica, ma semplicemente attraverso immagini, dialoghi, e personaggi cui è impossibile non affezionarsi. 

Babak Jalali, coadiuvato alla scrittura dalla milanese Carolina Cavalli, firma un'opera che ricorda il Jarmush delle origini, sia per lo splendido bianco e nero con cui viene fotografata, sia per una storia i cui ingredienti sono una spolverata di humor dell'assurdo e tante solitudini che si incontrano quasi per caso e si riconoscono, rispettando i dolori e i non detti l'uno dell'altra e trovando una connessione umana ed emotiva.

Donya è straniata, fa parte di più mondi senza appartenere davvero a nessuno: alcuni afghani della sua comunità la respingono perché ha collaborato con il nemico, la moglie del suo capo non si fida di lei perché non è cinese, e non riesce (e forse non vuole) a integrarsi nella società statunitense. Il suo passato è fatto di traumi, e solo nelle sedute psicologiche con l'eccentrico dottor Anthony riesce a far emergere ciò che ha a lungo sopito, i mostri che intuiamo dai suoi lunghi ma eloquentissimi silenzi. Jalali tuttavia non indulge nel dramma, ma si focalizza sulle relazioni, sui legami sottili e poi sempre più spessi che portano Donya a uscire dal suo isolamento, a ritrovare la sua socialità, come lo Zanna Bianca spesso citato dal dottor Anthony durante le sedute. 

Oltre al dottore, ad aiutarla ci sono un capo cinese dallo humor particolare che vede la produzione di biscotti della fortuna come un'arte che va affinata e coltivata, e ha imparato nel tempo a leggere il cuore delle persone; una collega in cerca di amore e dalla voce d'angelo; un conterraneo generoso; e un meccanico intrappolato in una solitudine malinconica, ancora più inesorabile di quella di Donya. Quest'ultimo, interpretato magistralmente da Jeremy Allen White (il Carmy Berzatto di The Bear), con poche scene ci fa intuire un mondo fatto di isolamento, lavoro, e disperato desiderio di una connessione umana.

Fremont è una piccola perla poetica, dolce, esistenzialista, che racconta con efficacia la solitudine e la battaglia invisibile che molti affrontano per sconfiggerla: parla di temi drammatici senza essere un dramma e, anzi, flirtando a tratti con la commedia. È un film pieno di silenzi, ma parla con forza al cuore. È un film fatto di niente, ma racconta tutto. Non perdetelo. 

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Pier






mercoledì 19 giugno 2024

Inside Out 2

La complessità del Sé


La vita di Riley scorre tranquilla, fino a quando, un giorno, non diventa ufficialmente una teenager. Nuove emozioni affollano la sala di controllo, e il passaggio al liceo e un camp estivo di hockey mettono in crisi il concetto di Sé di Riley e, con essa, anche Gioia e la sua visione del mondo, travolta dalla forza dirompente di Ansia, decisa a far sì che Riley si integri nel suo nuovo ambiente - a qualunque costo.

Chi siamo? La domanda delle domande, che cominciamo a porci davvero durante l'adolescenza e cui, man mano che si cresce, diviene sempre più complesso rispondere. Dall'immagine chiara, bidimensionale, ben definita dell'infanzia passiamo gradualmente a un poligono a più facce, una miscela in continua evoluzione che può essere tutto e il contrario di tutto: l'essere umano, in fondo, è fatto di contraddizione.

Intorno a questa domanda e a questo passaggio ruota il seguito di Inside Out: se il primo capitolo si concentrava sull'importanza di accettare la complessità emotiva (anche la tristezza è importante per crescere e essere persone complete), il secondo punta sull'importanza di accettare la complessità del Sé, in tutte le sue sfaccettature. Riley cresce, e con la crescita arrivano le prime pressioni sociali, i primi traumi, e le prime ansie: ansia di essere inadeguata, ansia di deludere le persone care, ansia di rimanere sola. 

Non è un caso che Ansia sia la nuova emozione che domina la scena e che prende il controllo della "console" che guida le azioni e reazioni di Riley, strappandola a Gioia. Accanto a lei ci sono Imbarazzo, Invidia, ed Ennui/Noia: emozioni più complesse, adulte, e "sociali" rispetto a quelle basilari che caratterizzavano il primo film. Inside Out 2 è anche un film sulla socialità adolescenziale, e su come possa mettere in crisi ragazzi e ragazze ancora fragili e insicure: nessuna delle potenziali compagne di hockey di Riley ha atteggiamenti da bullo, eppure Riley va comunque in crisi, stretta com'è tra il desiderio di essere accettata e la paura paralizzante di non essere all'altezza. 

Kelsey Mann (che sostituisce Pete Docter alla regia), Meg LeFauve (già sceneggiatrice del primo capitolo) e Dave Holstein non tremano di fronte alla titanica impresa di dare un seguito a uno dei capolavori della Casa della Lampadina, anzi: danno sfogo a tutta la loro creatività per restituire a livello narrativo e visivo concetti complessi come l'attacco di panico, il sarcasmo (battuta eccezionale che si perde nella traduzione italiana), il concetto di sè, l'inconscio, la soppressione di emozioni e ricordi, dando vita a un caleidoscopio inventivo che non ha nulla da invidiare a quanto fatto nel primo film, cui però ovviamente resta debitore. 


La trama scorre che è un piacere, e il percorso di (ri)costruzione e accettazione del Sè di Riley tocca tutte le corde emotive giuste, commuovendo e facendo riflettere lo spettatore, culminando in una scena finale semplice ma tremendamente efficace. Il film ha anche un altissimo valore pedagogico, sia per i ragazzi che per i genitori, in quanto racconta efficacemente le pressioni sociali e l'ansia che attanagliano la nostra epoca, e i giovani (e ormai non più giovani, come direbbe Zerocalcare) in particolare, e insegnano l'importanza di accettare chi si è in modo completo, senza cercare forzatamente di nascondere i nostri lati meno nobili: un messaggio universale che, nell'era dell'apparire e del mito della performance esibita ed esaltata, risuona ancora più forte.

Le nuove emozioni si inseriscono alla perfezione senza sacrificare quelle che già conosciamo. Se Ansia fa la parte del leone e ha probabilmente la scena più potente e di impatto del film, Imbarazzo conquista per la sua dolcezza e spirito di iniziativa, ed Ennui è la perfetta rappresentazione del tedio adolescenziale, persino nel modo in cui interagisce con la console. Tra le vecchie conoscenze, a brillare questa volta è Gioia, finalmente liberata da quell'aspetto da "prima della classe" e costretta ad affrontare le sue insicurezze e a mettere in discussione la sua visione del mondo.

Il comparto tecnico supera ancora una volta se stesso: la fluidità di movimenti e inseguimenti è perfetta, e la resa delle emozioni come un insieme di particelle brillanti ed evanescenti, in continuo movimento, stupisce per pulizia e realismo della texture. Tuttavia, Inside Out 2 non si limita alla ormai abituale eccellenza visiva e cromatica nell'uso della computer grafica. Come nel primo film, ci sono scene realizzate con tecniche di animazioni differenti, dall'animazione tradizionale alla stop motion con la tecnica del paper cut, che si inseriscono perfettamente nella narrazione e restituiscono una diversità creativa che eleva valore artistico del film. 

Inside Out 2 conquista la palma di miglior secondo capitolo Pixar dai tempi di Toy Story 2, e lo fa grazie a una storia che segue naturalmente e fluidamente quella del primo capitolo, arricchendolo di complessità senza tradirne lo spirito. Non può, ovviamente, raggiungere la dirompente originalità dell'originale, ma non ci va lontano, e racconta una storia che intratterrà i più piccoli e lascerà i più grandi con gli occhi aperti e gonfi di emozioni: gioia, tristezza, ansia, e stupore e, perché no, nostalgia.

**** 1/2

Pier

lunedì 3 giugno 2024

Furiosa - A Mad Max Saga

Dall'ira funesta al multiforme ingegno


Da qualche parte nel deserto postatomico c'è un luogo verde. Una bambina viene strappata da questo piccolo Eden, e trascinata nelle Terre Desolate dagli uomini di Dementus, un signore della guerra dal fare teatrale dotato di quella crudeltà che deriva dal nichilismo. La bambina inizia così una lotta pluriennale per tornare a casa. Il suo nome: Furiosa.

Sono passati nove anni dall'uscita di Mad Max: Fury Road, eppure sembrano passati pochi mesi, tanto forte è stata la presa di quel film sull'immaginario collettivo. Miller tornava a girare un film della saga che lo aveva reso famoso con un film di puro Cinema, fatto di immagini  che raccontavano una storia senza bisogno delle parole: il sogno di Alfred Hitchcock, ma traslato in un futuro postapocalittico steampunk dai colori ipersaturati (ma anche la versione in bianco e nero era memorabile) e dal ritmo ipercinetico, un inno al movimento che avrebbe fatto la gioia dei futuristi. Il cinema d'autore che incontra il genere, lo stravolge, e ne ridefinisce canoni e immaginario, creando un'epica.

Ma di che epica parliamo? Miller con Mad Max: Fury Road realizzava la sua personale Iliade, la storia di una battaglia furiosa che si svolgeva sulla strada anziché intorno alle mura di una città. Fury Road raccontava una storia fatta di urla, strepidi, grida, ire funeste, e ratti di fanciulle; una storia fatta di sangue, forza, armi e morti nobili e meno nobili. Con Furiosa Miller cambia poema omerico, e passa all'Odissea, narrando una storia di sopravvivenza, resilienza, astuzia; la storia di un travagliato ritorno a casa, fatto di qualche passo avanti e tanti passi indietro, un ritorno che si concluderà solo nell'ultimo capitolo che costituisce una delle sottotrame di Fury Road.


Prima e dopo

Che Miller veda i suoi racconti come dei poemi epici del futuro è evidente non solo dalle sue parole (qui trovate una bella intervista), ma anche dalle scelte narrative: uno dei personaggi chiave di Furiosa è un aedo aborigeno, un cantastorie che conserva la memoria di ciò che fu e plasma quella di ciò che sarà. La sua Odisseo è Furiosa, che vediamo strappata alla sua casa e, attraverso gli anni e i capitoli, cercare più volte di ritornarci, i suoi tentativi ogni volta frustrati da mostri terribilmente umani. Alyla Browne prima e Anya Taylor-Joy la incarnano alla perfezione, ritratto dello stoicismo e dell'astuta determinazione a sopravvivere, guidate da un sogno e da una vendetta. 

Al posto di Scilla e Cariddi, Furiosa incontra tempeste di sabbia; al posto del mare, il deserto; al posto di Polifemo, il mostruoso figlio di Immortan Joe. Al posto di Poseidone, il villain principale dell'Odissea, troviamo Dementus, che ricompare regolarmente ogni volta che Furiosa sembra aver trovato un minimo di serenità. Dementus è uno specchio distorto della protagonista, segnato da traumi simili che però lo portano a scelte completamente diverse. È un agente del caos, un fool shakespeariano fattosi re, destinato a portare devastazione in terre già desolate a causa del suo fatale mix di crudeltà e incompetenza, perfettamente incarnate da un Chris Hemsworth gigione ma terrificante. Il contrasto tra Dementus e Immortan Joe è forse uno dei punti più interessanti di un film che, come Fury Road, ne contiene almeno altri cinque - storie che ci piacerebbe esplorare, conoscere, ma che vengono solo accennate, contribuendo alla profondità del mondo immaginato da Miller. Dementus e Immortan Joe, dicevamo: due tiranni crudeli, così simili nei metodi ma così diversi sotto una dimensione, quella della competenza. Laddove Dementus manda in malora tutto quello che tocca, Immortan Joe riesce a mantenere ordine nella Cittadella: un caveat su come l'incompetenza, oltre alla crudeltà, sia ciò che può causare guerre e la morte dell'umanità.


Il cambio di modello epico si riflette in un ritmo del racconto più riflessivo, per quanto nella seconda metà raggiunga i livelli cinetici del suo predecessore. Questo non vuol dire, tuttavia, che ci sia maggior spazio per le parole: Furiosa dice 35 battute in tutto il film. A parlare sono sempre le immagini, e ancora una volta, nonostante le fiamme in CGI, sono uno spettacolo per gli occhi. Ogni inquadratura offre una cornucopia di dettagli, tra bighe-motocicletta, alianti che sembrano enormi polipi volanti, e poveri coltivatori di vermi. Ogni combattimento e inseguimento è una masterclass di come si dovrebbe girare un film d'azione per immergere lo spettatore nella vicenda, senza fargli perdere nemmeno un dettaglio. 

Miller sa quello che vuole raccontare, e lo racconta con una sicurezza e un'inventiva incredibili, senza indulgere mai nel citazionismo (il film è pienamente godibile anche da chi non avesse mai visto un film della saga) ma arricchendo ulteriormente un universo che è già iconico ma continua a rinnovarsi e a espandersi, creando nuovi riferimenti e nuove icone. Quella di Miller, come quella di Omero, è di fatto un'unica storia, che dietro personaggi formidabili e avventure incredibili cela un messaggio ben chiaro su quanto gli uomini siano la causa della propria rovina con la loro sete di potere e incapacità di collaborare. Sopravvive solo chi riesce a sacrificarsi per gli altri, a trovare una causa in cui credere per diventare protagonista di una storia che le Muse canteranno per l'eternità, nel Valhalla e oltre.

Ancora una volta: ammiratelo.


**** 1/2

Pier

venerdì 3 maggio 2024

Challengers

Luca, spostati e fammi vedere il film


Challengers è un piatto con ingredienti di altissima qualità (con un'eccezione, ci torneremo). La fotografia è scultorea, vibrante, e unisce la vitalità delle statue greche a un dinamismo futurista, ritraendo corpi in movimento, sensuali, plastici, inafferrabili. Gli interpreti sono semplicemente perfetti, semidei sportivi che trasudano competizione, erotismo, vita. Josh O' Connor ruba la scena con un perfetto cialtrone di talento, Zendaya ci rivela come sarebbe una Lady Macbeth con l'ossessione per il tennis, anziché per il potere, e Mike Faist è ottimo nella parte di un finto cerebrale in balia delle proprie emozioni. La colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross è un capolavoro, un incedere inesorabile di ritmi elettronici che fa battere il cuore del film e lo trascina in avanti, accompagnato da un montaggio insistente, visibile e creativo a opera di Marco Costa.

Eppure. Eppure qualcosa, nella cucina, non funziona. In primo luogo, la sceneggiatura, l'unico ingrediente fuori posto, come l'ananas sulla pizza: troppo ellittica, che costringe il montatore agli straordinari, con continui taglio di montaggio che, pur ben gestiti a livello tecnico, sono talmente abbondanti che a tratti sembra di assistere alla parodia di un film di Christopher Nolan. I continui saltabecchi temporali finiscono per confondere lo spettatore e, ancor peggio, allontanarlo emotivamente dalla vicenda narrata. I personaggi sembrano sballottati da una scena all'altra e, spesso, mancano di reali motivazioni: se non fosse per la bravura degli interpreti, le loro azioni risulterebbero forzate o addirittura insensate, soprattutto per quanto riguarda il personaggio interpretato da Mike Faist: un tennista vincente che non vediamo mai vincere, un innamorato che non vediamo mai palpitare di passione. La scena finale, che molti hanno trovato commovente (e potrebbe esserlo, se solo percepissimo una vera tensione tra i protagonisti) è semplicemente insensata dal punto di vista sportivo.

In secondo luogo, la regia. Guadagnino perde completamente il controllo del dosaggio degli ingredienti, a partire dalla fotografia. Guadagnino, che con Chiamami col tuo nome e Bones and all sembrava aver imparato a tenere sotto controllo gli eccessi estetizzanti degli esordi (le api impollinatrici di Io sono l'amore infestano ancora gli incubi dei cinefili di mezzo mondo), mettendo il suo ottimo occhio al servizio della storia, anziché il contrario, ricade nell'antico vizio come un alcolista recidivo, esibendosi in una prova di sorrentinismo deteriore, dove l'estetica prevale sul contenuto al punto di strozzarlo e ucciderlo (e, aggiungiamo, senza raggiungere le vette estetiche di cui è comunque capace Sorrentino). Le sequenze di tennis sono a tratti splendide, olimpiche, ma a tratti tremendamente confuse a causa di un uso sconsiderato della soggettiva - sia dei personaggi, sia della pallina stessa: un puro esercizio di stile, che però distrugge il pathos costruito in altri momenti.

La fotografia non è l'unico ingrediente che Guadagnino sbaglia a dosare. La musica è onnipresente, sparata a tutto volume a coprire anche i dialoghi: una scelta ben precisa, ma di cui si fatica a capire il senso, e che contribuisce ancora una volta a eliminare ogni parvenza di realismo e, di conseguenza, a non percepire la tensione che dovrebbe divorare i personaggi.

Challengers è comunque un film soddisfacente. È cinetico, plastico, ha un buon ritmo e intrattiene. È forse il film più "commerciale" (in senso buono) della cinematografia di Guadagnino. Eppure lascia una sensazione di occasione sprecata, di un potenziale capolavoro travolto da un peccato di hubris che fa sì che l'aggregato sia inferiore alla somma delle parti, e che lo spettatore voglia rivolgere al regista la richiesta che Dino Risi rivolgeva al Nanni Moretti regista agli esordi: "Nanni, bravo, ma ora spostati e fammi vedere il film."

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Pier 

sabato 13 aprile 2024

C'è vita lontano da Roma

Buone notizie dal cinema italiano

Italia, anno 2024: in sala ci sono tre film italiani che stanno incassando bene e stanno anche avendo un ottimo riscontro anche dalla critica.


No, non è la trama di un film distopico, ma la realtà: in rigoroso ordine di uscita, Un mondo a parte, di Riccardo Milani (voto 7), Zamora (voto 9), esordio alla regia di Neri Marcoré, e Gloria! (voto 8) esordio alla regia dell'attrice e cantante Margherita Vicario, stanno riscuotendo successo sia tra il pubblico che tra gli addetti ai lavori. Al frequentatore delle sale e conoscitore del cinema italiano degli ultimi decenni salta subito all'occhio un dettaglio, un'anomalia quantistica: nessuno di questi tre film è ambientato a Roma.

Si è spesso discusso del romanocentrismo del cinema italiano, discorso scivoloso che spesso sfocia nel campanilismo se non in una vera e propria discriminazione territoriale. Proprio per questo, il discorso è stato spesso sterile, e si è concentrato su un sintomo anziché sul problema. Il sintomo era la presenza di tantissime maestranze romane, dai registi e gli autori ad attori e attrici, con conseguente prevalenza di una parlata locale e localizzata. Da qui, inutili strali contro gli eccessi di daje, famo, annamo, da una parte, e la difesa della storica centralità di Roma per il cinema italiano dall'altra. 

La serie di sketch "A piedi scarzi", di Emanuela Fanelli, parodizza il romanocentrismo del cinema italiano

Il problema, tuttavia, non erano le maestranze: se ambienti un film a Roma è normale, anzi, sacrosanto che le voci, i volti, e i temi riflettano l'ambientazione stessa. Il problema erano le idee di partenza, una certa ripetitività tematica che tutti riconoscevano, ma che nessuno, nemmeno i critici del romanocentrismo, attribuiva alla poca varianza nelle location. I luoghi, tuttavia, non sono meri sfondi, ambientazioni: sono anche l'ispirazione delle storie, o addirittura co-protagonisti delle stesse. Impossibile pensare a I soliti ignoti al di fuori del contesto romano, o a Chiedimi se sono felice senza lo sfondo milanese, o a È stata la mano di Dio senza Napoli. Il problema era, dunque, che a una ripetitività di location corrispondeva una ripetitività di temi, che però portava a sua volta a perpetuare la ripetitività di location (perché tutti siamo ispirati da ciò che ci vediamo e ci circonda), in un circolo vizioso che a volte produceva comunque grandi successi (C'è ancora domani su tutti) ma nella maggior parte dei casi portava all'ennesima versione della solita minestra.

"Fuggendo" da Roma, affrancandosi da una forma mentis dominante che portava a un omogenizzazione del dove, e dunque del "cosa", Milani, Marcoré, e Vicario sono riusciti a trovare voci e storie nuove, fresche, originali, e al tempo stesso sbugiardare il falso problema dell'origine geografica degli autori: Milani e Vicario sono, infatti, romani, e Marcoré (marchigiano) vive a Roma ormai da otto anni.


Un mondo a parte
inizia proprio come una fuga dalla capitale del protagonista, l'insegnante delle elementari interpretato da Antonio Albanese: una fuga alla ricerca di se stessi, di una vita più vera, di uno sguardo nuovo, che sembra un riflesso di quella operata da Riccardo Milani, che dopo un'intera carriera spesa all'ombra del Cupolone, in Abruzzo ha trovato una storia nuova eppure antica, che parla al passato ma anche al futuro: la storia di un paese a rischio di morte, ma che trova sempre la forza di sopravvivere, tra crisi emotive ed espedienti esilaranti. Un mondo a parte parla del nostro complesso rapporto con la natura e con i luoghi da cui veniamo - un tema ineludibile, fatto di felicità e sofferenza, di gente che parte e gente che resta, e che non troverà mai una facile soluzione. Il film ha un andamento sincopato, con alcuni episodi che sembrano fuori posto e distonici, ma nel complesso funziona e cattura grazie alla sua capacità di parlare all'attualità e alla simpatia dei protagonisti, sia giovani (tutti non attori dei luoghi dove è girato il film, intorno a Pescasseroli) che esperti, con Virginia Raffaele che strappa la maggior parte delle risate. 


Marcoré e Vicario fuggono più lontano, sia nello spazio che nel tempo. Il primo ci porta a Milano (e Vigevano) negli anni Sessanta, con una storia delicata e poetica che si muove tra il primo Pupi Avati ed Ermanno Olmi (gli echi de Il posto sono evidenti) e che racconta l'emancipazione emotiva e sentimentale di un ragazzo che diventa uomo e si apre al mondo, imparando - letteralmente e metaforicamente - a tuffarsi. La storia è divertente e commovente, molto ben scritta, e non scontata, nemmeno nel finale. Offre uno splendido sguardo sulla Milano (e sull'Italia) dell'epoca, tra capitani d'industria con la passione per il calcio e fantozziane partite scapoli-ammogliati, la paura di spostarsi nella grande città, un mostro lontano e quasi mitologico, e il sottobosco umano cantato da Gaber (cui coincidenza vuole che Riccardo Milani abbia dedicato un ottimo documentario) e Jannacci. 
Marcoré azzecca in pieno anche il casting, con un giusto mix tra facce fresche e volti noti della comicità milanese. Tra i primi spiccano il protagonista Alberto Paradossi, perfetto per il ruolo, Anna Ferraioli, splendida nel ruolo di sua sorella, e Marta Gastini, che interpreta uno degli interessi amorosi più interessanti e ben scritti visti al cinema negli ultimi anni. I secondi sfoggiano qualche "gloria di Internet" (due membri de Il terzo segreto di Satira, ambedue perfettamente in parte) e vecchi leoni capitanati da Marcoré stesso e da Ale, Franz, Giovanni (Storti) e Giacomo (Poretti) - quest'ultimo presente solo in un cameo che però vale da solo il prezzo del biglietto.


Vicario invece ci porta a Venezia, a inizio Ottocento, e ci racconta la storia dimenticata degli istituti musicali per giovani orfane, che venivano avviate alla musica e alla composizione, chiusi da Napoleone nel 1807. Anche Vicario racconta una storia di emancipazione e ribellione, un racconto fanta-storico con geniali anacronismi musicali alla Maria Antonietta, che però vengono calati realisticamente nella trama e nella tradizione musicale d'epoca: uno sforzo creativo notevole, che però lascia forse un po' di rammarico pensando a cosa avrebbe potuto essere se Vicario avesse sciolto del tutto le briglie della fantastoria, facendo la sua versione "musicale" del finale di Bastardi senza gloria. Il risultato è comunque splendido, grazie a un fatto storico poco noto ma ricco di spunti, una regia già molto solida e originale (il film era, meritatamente, in concorso all'ultima Berlinale), e soprattutto a personaggi che catturano lo spettatore. Anche Vicario, come Marcoré, sfrutta alla perfezione un mix di volti nuovi - tutte le ragazze, tra cui spiccano Carlotta Gamba, Maria Vittoria Dallasta, e Veronica Lucchesi de La rappresentante di lista, e vecchi leoni della comicità settentrionale, da Elio a Natalino Balasso, passando per un Paolo Rossi perfetto nel ruolo di un prete-compositore viscido e arrogante.

C'è vita, dunque, lontano da Roma: nuovi volti, nuove storie, nuove prospettive. Prospettive che possono aiutare a "rinfrescare il repertorio" anche una volta tornati a girare nella capitale: perché il problema non è il luogo, ma cercare di mantenere lo sguardo aperto verso l'orizzonte del nuovo.

Pier