sabato 20 luglio 2024

Fremont

Poesia della solitudine


Costretta a lasciare l'Afghanistan, dove lavorava come interprete per l'esercito USA, dopo il ritorno al potere dei Talebani, Donya ora vive a Fremont e lavora a San Francisco in un'azienda che produce biscotti della fortuna. La ragazza cerca di ricostruirsi una vita, facendosi strada tra i traumi del passato che le impediscono di dormire e personaggi bizzarri ma ricchi di cuore.

Ci sono film che ti fanno uscire dal cinema con il cuore pieno di bellezza e poesia, un sorriso stampato sul volto. Fremont è uno di quei film: un film all'apparenza semplice, senza pretese, che però entra sotto pelle per la sua capacità di trattare temi complessi senza pietismo né retorica, ma semplicemente attraverso immagini, dialoghi, e personaggi cui è impossibile non affezionarsi. 

Babak Jalali, coadiuvato alla scrittura dalla milanese Carolina Cavalli, firma un'opera che ricorda il Jarmush delle origini, sia per lo splendido bianco e nero con cui viene fotografata, sia per una storia i cui ingredienti sono una spolverata di humor dell'assurdo e tante solitudini che si incontrano quasi per caso e si riconoscono, rispettando i dolori e i non detti l'uno dell'altra e trovando una connessione umana ed emotiva.

Donya è straniata, fa parte di più mondi senza appartenere davvero a nessuno: alcuni afghani della sua comunità la respingono perché ha collaborato con il nemico, la moglie del suo capo non si fida di lei perché non è cinese, e non riesce (e forse non vuole) a integrarsi nella società statunitense. Il suo passato è fatto di traumi, e solo nelle sedute psicologiche con l'eccentrico dottor Anthony riesce a far emergere ciò che ha a lungo sopito, i mostri che intuiamo dai suoi lunghi ma eloquentissimi silenzi. Jalali tuttavia non indulge nel dramma, ma si focalizza sulle relazioni, sui legami sottili e poi sempre più spessi che portano Donya a uscire dal suo isolamento, a ritrovare la sua socialità, come lo Zanna Bianca spesso citato dal dottor Anthony durante le sedute. 

Oltre al dottore, ad aiutarla ci sono un capo cinese dallo humor particolare che vede la produzione di biscotti della fortuna come un'arte che va affinata e coltivata, e ha imparato nel tempo a leggere il cuore delle persone; una collega in cerca di amore e dalla voce d'angelo; un conterraneo generoso; e un meccanico intrappolato in una solitudine malinconica, ancora più inesorabile di quella di Donya. Quest'ultimo, interpretato magistralmente da Jeremy Allen White (il Carmy Berzatto di The Bear), con poche scene ci fa intuire un mondo fatto di isolamento, lavoro, e disperato desiderio di una connessione umana.

Fremont è una piccola perla poetica, dolce, esistenzialista, che racconta con efficacia la solitudine e la battaglia invisibile che molti affrontano per sconfiggerla: parla di temi drammatici senza essere un dramma e, anzi, flirtando a tratti con la commedia. È un film pieno di silenzi, ma parla con forza al cuore. È un film fatto di niente, ma racconta tutto. Non perdetelo. 

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Pier






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