mercoledì 19 dicembre 2018

Spider-Man: Un Nuovo Universo

Quando le arti si incontrano



Miles Morales è un ragazzo newyorkese che è stato costretto dal padre a entrare in una scuola esclusiva, dove però si sente come un pesce fuor d'acqua. Miles si rifugia nello zio, che asseconda la sua passione per la street art, e grazie a lui scopre i sotterranei della metropolitana di New York e ne fa il teatro dei suoi esperimenti artistici. Durante una di queste escursioni, tuttavia, viene punto da un ragno radioattivo, acquisendo poteri sinistramente simili a quelli dell'eroe cittadino, Spider Man. Tornato a cercare il ragno, Miles assiste allo scontro tra il vero Spider Man e vari nemici, intenti a creare un varco dimensionale che rivelerà la presenza di molteplici incarnazioni dell'iconico eroe.

Dopo l'enorme rivoluzione portata dalla computer grafica, l'innovazione nel campo dell'animazione statunitense era finora stata soprattutto incrementale, tesa a migliorare la qualità delle immagini e di alcuni elementi (capelli, pelle, eccetera) che si erano inizialmente dimostrati ostici da rendere in modo realistico. Ogni film della Pixar prima, e delle altre case (Disney in testa) poi costituiva un ulteriore tassello nella direzione di un'animazione che bilanciasse alla perfezione realismo ed esigenze cartoonesche ed espressive. Un'eccezione era stata costituita da Ratatouille, con cui Brad Bird portò nel cinema di animazione tecniche come il piano sequenza e il flashback che fino a quel momento erano state appannaggio del cinema dal vivo.
La combinazione di tecniche diverse era stata finora relegata a cortometraggi  come lo splendido Paperman, che per primo aveva combinato tecnica 2D e computer grafica.

Spider-Man: Un nuovo universo riprende la lezione di Paperman, ma la porta alle estreme conseguenze, addentrandosi in territori del tutto inesplorati per realizzare un film che è senza ombra di dubbio l'opera più rivoluzionaria nel campo dell'animazione dai tempi di Ratatouille, e forse persino oltre. Guardando il film si ha infatti la sensazione di entrare all'interno di un fumetto, per parafrasare uno degli autori del film, quel Phil Lord che insieme a Christopher Miller è anche uno dei creatori di Lego Movie. Il disegno a mano è sovrapposto alle immagini in computer grafica, conferendo ai personaggi un'espressività eccezionale e alle ambientazioni quella vitalità che si trova sulla pagina stampata e viene spesso persa sullo schermo. I protagonisti sono immersi in ambienti che prendono vita insieme a loro, in cui pensieri e onomatopee compaiono visivamente sullo schermo, interagendo con lo spazio e con i personaggi. Il risultato è un'esperienza visiva unica, quasi indescrivibile, che fa sentire gli spettatori come se qualcuno stesse scorrendo le pagine di un fumetto di fronte a loro.

La vitalità espressiva permessa dal rivoluzionario stile di animazione adottato fa sì che le scene d'azione siano eccezionali, con un dinamismo e una varietà che si vedono raramente sullo schermo. I tre registi (Bob Persichetti, Peter Ramsey, e Rodney Rothman) sfruttano appieno l'enorme cassetta di strumenti a loro disposizione, giocando con diverse palette di colore, prospettive ribaltate, e con i linguaggi espressivi di entrambe le arti, fumetto e animazione, omaggiando le tecniche e i maestri dell'una (Jack Kirby in testa) e dell'altra (la resa del personaggio di Spider Ham è chiaramente debitrice dei Looney Toons, per esempio) e integrandone anche le diverse tradizioni. Il film è infatti una combinazione poliedrica di animazione disneyana tradizionale, anime, slapstick animation, fumetto classico e fumetto hard boiled à la Sin City, il tutto amalgamato in un insieme coerente e ben riuscito, in cui tutti gli ingredienti si bilanciano perfettamente.  Il ritmo è eccezionale, senza mai un calo né una sbavatura, e alcune immagini sono stordenti nella loro perfezione cromatica e compositiva.



La trama non è da meno, ed è in grado di sfruttare quello che è forse uno degli elementi meno riusciti del mondo Marvel (l'esistenza di ennemila universi paralleli) per raccontare una storia di formazione solo all'apparenza classica ma in realtà dotata di una dimensione corale per nulla scontata, in cui ogni versione di Spider Man deve fare i conti con la perdita dei propri punti di riferimento e con l'accettazione di una nuova realtà, di una nuova identità. L'essere trasportati in una nuova dimensione diviene così metafora della ricerca di sè, dando vita a una storia ricca di momenti emozionanti accanto a scene di indubbia comicità. Lord (autore di soggetto e sceneggiatura) sceglie di esplorare il tema del supereroe anche a livello metatestuale, attraverso un continuo raffronto tra realtà e fumetto, in cui gli archetipi del genere come la storia di formazione vengono messi alla berlina ma anche smantellati e ricomposti a creare qualcosa di nuovo.

Ad aiutarlo in questo senso c'è la backstory pre-esistente di Miles Morales, che anche nel fumetto non è lo Spider Man originale, ma è costretto a imparare a esserlo dal susseguirsi degli eventi. L'intuizione di Lord è di far incontrare/scontrare il percorso ascendente di Miles con quello discendente di Peter Parker, lo Spider Man classico, e di ricavare da questo incontro una nuova linfa vitale sia per i personaggi, sia per il film stesso. Le interazioni tra le varie incarnazioni di Spider Man sono bilanciate alla perfezione, e Lord sfrutta appieno il potenziale offertogli dalla possibilità di esplorare diverse identità in termini di sesso, epoca, ambientazione, e tecnica di animazione.

Spider-Man: Un nuovo universo è senza dubbio il miglior film d'animazione dell'anno, al punto che potrebbe mettere fine al decennale dominio Disney-Pixar agli Oscar, nonché uno dei più originali esperimenti visti al cinema nell'ultimo decennio. Uno sforzo creativo titanico, quasi folle, che dimostra però come la ricerca dell'originalità possa pagare dividendi altissimi quando è accompagnata da passione, visione, e un desiderio di spingersi oltre i propri limiti.
Il risultato è un film assolutamente imperdibile, una vera gioia per gli occhi che farà appassionare sia i fan del fumetto, sia chi ama quell'arte meravigliosa che è l'animazione cinematografica.

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Pier

venerdì 7 dicembre 2018

Bohemian Rhapsody

Somebody to Love



Nei sobborghi londinesi, un giovane Freddie Mercury convince Brian May e Roger Taylor, rispettivamente chitarrista e batterista, a ingaggiarlo come cantante per la loro band. Insieme al bassista John Deacon daranno vita ai Queen, diventando una delle band più celebri della storia del rock. Non tutto va liscio, però: il percorso di Freddie alla ricerca della sua identità genera tensioni nella band, portandola sull'orlo dello scioglimento.

Chi sono i Queen? Parliamo senza dubbio di una delle band più popolari di ogni epoca. Ma chi sono davvero? Il dibattito, tra gli esperti e tra i fan, è ancora aperto: alcuni li considerano dei poliedrici innovatori, capaci di reinventarsi di continuo come poche altre band nella storia; altri li ritengono più che altro dei grandissimi intrattenitori, capaci di coinvolgere il pubblico grazie all'orecchiabilità delle loro canzoni e all'irresistibile presenza scenica del cantante, Freddie Mercury, una delle voci migliori (la migliore, per chi scrive) della storia del rock e del pop.

Come raccontare una band e un cantante così complessi e sfaccettati, che sono stati uno, nessuno e centomila? La storia del cinema ci insegna che ci sono fondamentalmente due strade: da un lato si può scegliere di abbracciare questa complessità, realizzando un biopic che racconti le varie facce dei protagonisti senza pretendere di offrirne un ritratto chiaro, quanto un quadro cubista, in cui il soggetto viene presentato allo stesso tempo da varie angolazioni. Questa è la strada intrapresa, per esempio, da Todd Haynes con Io non sono qui (a parere di chi scrive uno dei film migliori degli ultimi 15 anni), in cui Bob Dylan viene raccontato attraverso vari personaggi che non portano nemmeno il suo nome; è anche la strada presa da Aaron Sorkin per raccontare Steve Jobs.


Parallelismi
La seconda alternativa è quella più classica, e forse più facile: scegliere un aspetto dei protagonisti e concentrarsi su quello, rinunciando alla diversità a favore della profondità. Questa è la strada scelta da Bohemian Rhapsody, così come da molti biopic precedenti (Ray, per esempio). Il film si concentra infatti sul percorso di ricerca della propria identità, sia della band che di Freddie, e di come questa abbia influenzato e sia stata influenzata dalle relazioni: tra i membri della band, tra Freddie e le persone a lui care, tra la band e il pubblico.
Bohemian Rhapsody è un film focalizzato sui personaggi, in cui le relazioni sono l’elemento centrale della trama, il primus movens di tutto ciò che vediamo sullo schermo. Questo intento diviene ancora più chiaro se si considerano le "licenze poetiche" che il film si prende rispetto agli eventi originali, finalizzate proprio a portare al centro della vicenda il rapporto tra i membri della band e, soprattutto, quello tra la band e il pubblico, uniti da un legame indissolubile: quello della musica. E la musica dei Queen è la vera protagonista del film, il suo cuore pulsante, l’energia invisibile che lo pervade ed eleva tutte le scene dall'anonimato, toccando le corde emotive dello spettatore come pochi altri film sono riusciti a fare negli ultimi anni.

Bohemian Rhapsody sceglie la strada facile, ma la percorre con una coerenza e una efficacia incredibili, soprattutto considerando l’enorme pressione sotto cui il film è stato realizzato, tra registi assenteisti, intoppi continui e dissensi artistici e produttivi: ingredienti, questi, che solitamente preludono a un disastro (vero, DC?) e che invece qui passano in secondo piano, formando un piatto familiare ma comunque estremamente gustoso.
Certo, rimane il rammarico di aver scelto di raccontare in maniera così semplice e convenzionale una band e un cantante che hanno fatto della non convenzionalità il loro stile di vita, prima ancora che il loro marchio di fabbrica. Un approccio alla Io non sono qui avrebbe probabilmente portato a un film più interessante, più artistico, più coraggioso: in sintesi, un film più “Queen”.
Tuttavia, sarebbe miope e anche un po’ snob negare che il film funziona, e raggiunge gli obiettivi che si prefigge. La connessione tra la band (Freddie in particolare) e il pubblico è palpabile, vibrante, viva, e raggiunge la sua apoteosi nei meravigliosi minuti dedicati all’esibizione del LiveAid: una scena oggettivamente memorabile, immortalata con precisione filologica ma anche con immensa perizia registica, con movimenti di macchina continui e fluidi che trasportano lo spettatore in mezzo al pubblico di Wembley, desiderando di unirsi a loro nel battere le mani a Radio GaGa o nell’inseguire gli incredibili gorgheggi di Freddie.


L’operazione riesce anche grazie alle incredibili prove dei protagonisti, non solo somigliantissimi agli originali (complimenti al casting), ma anche in grado di restituirne le personalità, idiosincrasie comprese. A brillare è ovviamente Rami Malek, qui alla prova della consacrazione. Il suo Freddie Mercury è vivo e vibrante, un mix ineguagliabile di fragilità, carisma, sensibilità, testardaggine, atto creativo e istinto di autodistruzione. Malek brilla in ogni situazione, da quelle più drammatiche (il momento in cui confessa alla band di essere malato) a quelle più flamboyant, come la sua prima performance con loro, o la registrazione di Bohemian Rhapsody. E penso che tutti potremo perdonarlo per il fatto di non aver cantato da solo (qui la spiegazione del singolare processo utilizzato), visto il mostro sacro che si trovava a dover emulare.

Bohemian Rhapsody non è un film che resterà nella storia del cinema, nonostante avesse il potenziale per farlo visto il tema narrato; tuttavia, è innegabile che il film arrivi dritto al cuore, con vari momenti in cui è davvero difficile non emozionarsi e addirittura commuoversi. Più che un film biografico è un tributo, fatto con immenso amore e affetto per un cantante che ci ha lasciato troppo presto e per una band che, con lui, ha lasciato un segno indelebile nella storia del rock e nel cuore del pubblico.

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Pier

martedì 27 novembre 2018

Animali Fantastici - I Crimini di Grindelwald

I crimini del sequel




New York, 1927. Grindelwald è stato catturato pochi mesi prima, ma riesce ben presto a evadere. Il suo piano è semplice: stabilire il predominio dei maghi sui non maghi. Per farlo, si reca a Parigi alla ricerca di Credence, l'Obscuriale scomparso nel nulla al termine del primo capitolo della saga, e per arringare le folle in un comizio. Albus Silente, preoccupato dalle intenzioni nefaste del vecchio amico, incarica Newt Scamander, suo ex allievo, di recarsi a Parigi per trovare Credence prima che possa farlo Grindelwald.

Dopo un primo capitolo sorprendetemente convincente, la saga di Animali fantastici torna con un sequel che stringe i legami con l'universo di Harry Potter, mettendo al centro della scena due personaggi che vi avevano giocato un ruolo fondamentale: Gellert Grindelwald, che nel primo film compariva solo alla fine, ma soprattutto Albus Silente. Il futuro preside di Hogwarts è il vero deus ex machina di questo secondo capitolo, in cui compare solo sporadicamente ma guida le azioni di più di un personaggio.

Il film ha un impianto visivo decisamente convincente: dopo i suoi esordi tentennanti nella saga di Harry Potter, David Yates sembra aver finalmente trovato una sua visione e un linguaggio espressivo che si lega all'immaginario della saga ma lo rinnova in modo originale. La prima scena del film è un piccolo capolavoro di tensione, spettacolarità e interpretazione, in cui la parola è quasi del tutto assente e a parlare sono solo le immagini. Il resto del film non raggiunge mai quelle vette, ma offre comunque molte immagini evocative e coinvolgenti (su tutte quella della convocazione per il comizio di Grindelwald). L'unico difetto del comparto visivo risiede nella resa del personaggio di Grindelwald, ben interpretato da Johnny Depp, ma decisamente troppo stereotipato a livello di trucco e pettinatura. Grindelwald è il "grande seduttore" dell'universo di Harry Potter, capace di conquistare il cuore delle masse e quello di Silente grazie al suo fascino ambiguo e alla sua parlantina: un Magneto o un Loki più che un Joker. Il film lo ritrae invece con un aspetto inquietante, da pazzo, privandolo così di un elemento centrale per la sua caratterizzazione, che è invece ironicamente presente nella scena di apertura, dove Grindelwald si presenta con un aspetto del tutto differente.

I personaggi principali sono ben caratterizzati, con un Newt Scamander più empatico che nel primo film e Jude Law che ruba la scena nei panni del giovane Silente. Deludono ancora, invece, i comprimari, talmente anonimi che si fatica a ricordarne il nome. Il loro inserimento nella storia è artificioso e posticcio (soprattutto per quanto riguarda il babbano Jacob), e la loro presenza del tutto dimenticabile: il "non detto" amoroso tra Tina e Newt era già di scarso interesse nel primo film, e diviene qui ancora più inutile, soprattutto se paragonato all'innegabile intesa e alla vera "tensione" che si percepisce tra Newt e Leta Lestrange, che nel giro di quindici minuti risulta già più interessante e caratterizzata di Tina, nonostante questa sia apparsa già nel film precedente.

Il tempo inutilmente speso a seguire le vicende dei personaggi secondari è solo uno dei difetti di una sceneggiatura che, sorprende dirlo, è il punto più debole del film. La trama scorre troppo lentamente, i colpi di scena, per quanto sconvolgenti (uno in particolare), sono condensati negli ultimi quindici minuti e servono solo a costruire tensione per il prossimo capitolo, e si collegano in modo molto flebile a quanto visto nelle due ore precedenti. Questo è probabilmente dovuto al fatto che questo è giocoforza un capitolo di transizione in una storia che si articolerà su cinque pellicole. Tuttavia, J.K. Rowling ci aveva abituato a una narrazione in grado sia di portare avanti la trama orizzontale della saga, sia di chiudere in modo soddisfacente la vicenda narrata nei singoli capitoli. Ne I crimini di Grindelwald questa chiusura è del tutto mancante, e si rimane con la sensazione di aver visto un lungo prequel per qualcosa che è ancora di là da venire.

La Rowling non delude invece nella costruzione del sottotesto politico-sociale: Grindelwald è un villain mellifluo, che ricorre alle parole prima che alla violenza per plasmare le menti dei maghi e indurli a seguirlo nella sua battaglia a favore dei purosangue e di una dittatura dei maghi sui non-maghi. In questo è molto diverso da Voldemort, e ricorda più un dittatore democraticamente eletto da una folla plaudente che uno che ha preso il potere con la forza. Il suo comizio è un momento di scrittura magistrale, e non può non portare alla mente quelle di altri leader "autoritari" che si sono affermati nel panorama politico odierno.

Animali fantastici - I crimini di Grindelwald è un film godibile dal punto di vista visivo, ma poco incisivo dal punto di vista narrativo, dove paga sia il fatto di essere un capitolo di transizione, sia una scrittura poco strutturata e sbilanciata verso il finale del film. Il suo reale valore sarà giocoforza determinato da quello dei capitolo successivi, e dalle spiegazioni più o meno convincenti date a dei colpi di scena che, per quanto indubbiamente spettacolari, a oggi rischiano di essere fini a se stessi.

** 1/2

Pier

sabato 17 novembre 2018

Widows - Eredità criminale

Film di genere e film d'autore


Veronica Rawlins rimane vedova del marito Harry quando questi rimane ucciso in un'esplosione durante una rapina perpetrata ai danni del gangster Jamal Manning, che sta cercando di entrare in politica. I soldi rubati finiscono bruciati nell'incendio che segue l'esplosione, ma Manning non ci sta, e intima a Veronica di rimborsarlo entro due mesi. La donna, messa spalle al muro, troverà una soluzione nel quaderno degli appunti lasciatole dal marito, su cui è riportato il dettagliato piano per un colpo da 5 milioni di dollari.

Che cos’è un grande regista? Troppo spesso si tende a pensare che un grande regista debba essere un visionario, qualcuno che gira film con una forte impronta visiva e una narrazione non necessariamente lineare; qualcuno, in sintesi, che corrisponda allo stereotipo dell’ “autore” reso celebre da cinefili asfittici come il Guidobaldo Maria Riccardelli di Fantozzi.

Di grandi registi di questo tipo se ne contano pochissimi (David Lynch, per dirne uno), ma purtroppo si contano moltissimi, pallidi tentativi di imitazione, che si cimentano nella realizzazione di polpettoni orchitogeni nel nome di una supposta “arte”. A tutti questi autori d’accatto andrebbe imposta la visione ripetuta e continuata di Widows – possibilmente in ginocchio sui ceci, come da suggestione fantozziana. Steve McQueen realizza infatti un film che fa vedere cosa voglia dire essere un grande regista, ovvero realizzare una storia efficace, potente e coinvolgente in cui tutto – immagini, musica, dialoghi, interpretazione – converge in modo armonico verso la comunicazione delle sensazioni, emozioni e messaggi che il regista vuole veicolare.

Un grande regista è in grado di esprimersi al meglio anche con un film “di genere”, e McQueen mette la sua autorialità al servizio di un heist movie classico solo nella struttura narrativa, ma che si arricchisce di molteplici livelli di lettura, sottotrame, e soprattutto di personaggi caratterizzati alla perfezione, mossi da motivazioni solide e ben costruite. Nella storia di Veronica Rawlins e delle sue socie troviamo quindi l’adrenalina tipica del genere, ma anche la povertà dei ghetti delle grandi metropoli, la violenza della polizia contro le comunità afroamericane, ma soprattutto la questione dell’emancipazione femminile, con le donne che si prendono il centro della scena.

“Nessuno pensa che siamo in grado di farlo”, dice la Rowlins in un momento chiave , e proprio su questa aspettativa gioca Steve McQueen fin dall’inizio del film, con una sequenza mozzafiato in cui i protagonisti sembrano gli uomini, mentre le donne sono relegate alla sfera domestica. Il ribaltamento dei ruoli che segnerà il film non è solo un colpo di scena, ma è l’asse portante della narrazione, che mette al centro personaggi femminili realistici, ben costruiti, e interpretati alla perfezione da un cast in stato di grazia assoluta. Le protagoniste brillano di luce propria, ma tra loro spiccano la fenomenale Viola Davis, che con un’espressione dice ciò che ore e ore di dialogo non potrebbero dire, ed Elizabeth Debicki, perfetta nel ritrarre l’evoluzione del suo personaggio da fragile e imbelle oggetto di desiderio a donna decisa a non farsi mai più mettere i piedi in testa. Tra gli uomini spicca lo spietato sicario interpretato da Daniel Kaluuya, alle prese con un personaggio diversissimo da quello che interpretava in Get Out!, un villain da manuale nella sua totale mancanza di pietà ed empatia.

McQueen gira un film corale, caratterizzato da un ritmo sincopato. Il montaggio alterna scene brevi e incisive, che ci fanno immergere nella vita quotidiana dei vari protagonisti, a piani sequenza ansiogeni per le scene di violenza e tensione, creando un crescendo visivo ed emotivo che culmina nella scena della rapina, perfetta sotto ogni punto di vista, e trova la sua perfetta conclusione nel dialogo finale. Ogni elemento si incastra alla perfezione grazie alla mano solida di McQueen: ogni virtuosismo di macchina ha uno scopo, ogni scelta “autoriale” un suo significato ben preciso, volto a massimizzare la portata emotiva di ogni momento del film. Il regista sembra aver imparato alla perfezione la lezione di grandi registi come Ford, Hitchcock, e soprattutto Kubrick, in grado di girare film "di genere" senza per questo rinunciare alla loro impronta autoriale, e anzi rendendola ancora più evidente.

Widows è un film pressoché perfetto, in cui gli amanti del cinema d’autore potranno apprezzare la perfezione di alcune inquadrature e di alcune sequenze, e gli amanti del thriller potranno godersi un film che non lascia un attimo di tregua, trascinando lo spettatore in un vortice di violenza, commozione e colpi di scena che rimarranno impressi nella memoria.
In poche parole, Widows è il film di un grande regista, qui forse alla sua miglior prova di sempre: non perdetelo.

*****

Pier

lunedì 5 novembre 2018

A star is born

Canzoni e fantasmini



A star is born è il terzo remake del film del 1937 diretto da William Wellman, già riportato sullo schermo con successo prima da George Cukor nel 1954 (con Judy Garland nella parte della protagonista), poi da Frank Pierson nel 1976 (con Barbara Streisand e Kris Kristofferson). Proprio da quest'ultima versione, dalle note e dalle ambientazioni più rock, prende le mosse il film di Bradley Cooper, seguendone pedissequamente la trama salvo che per il finale, dove Cooper preferisce invece recuperare quello del 1937 e del 1954.

In un film che giocoforza non può avere molto di originale, il valore aggiunto dovrebbe venire dalle canzoni, elemento centrale di ogni musical, e dalle interpretazioni dei protagonisti, fondamentali per far connettere lo spettatore con il dramma emotivo al centro della storia. Il primo elemento è senza dubbio riuscitissimo, sia per la qualità delle canzoni stesse, sia per la fenomenale chimica tra Bradley Cooper e Lady Gaga sul palco: durante le loro esibizioni, soprattutto se di fronte a un pubblico, il film sembra entrare in un'altra dimensione, riuscendo a creare quell'incantesimo che è l'ingrediente fondamentale del cinema. Appena la musica si ferma, tuttavia, l'incantesimo si spezza, e la carrozza torna a essere una zucca, pure andata a male: Lady Gaga è infatti un'attrice men che mediocre, incapace di sostenere la portata emotiva di una parte fortemente drammatica come quella di Ally, costretta ad assistere all'autodistruzione dell'uomo che ama (e a cui deve tutto) proprio nel momento in cui lei si sta godendo il meritato e tanto atteso successo. Laddove Bradley Cooper offre una prova attoriale non memorabile ma comunque intensa, Lady Gaga risulta un pesce fuor d'acqua, tanto eccezionale nel trasmettere emozioni durante il canto quanto inetta nel farlo con la parole e le espressoni del viso. La sua performance è uno dei rari casi in cui il doppiaggio è una benedizione.

Ad affossare il tutto ci pensa una sceneggiatura inadeguata, con inutili lungaggini e dialoghi ai limiti dell'imbarazzante: per tutti basti quello in cui Jackson e il manager di Ally discutono per due minuti buoni sui pro e i contro dell'indossare i "fantasmini", i calzini invisibili da mettere con i mocassini. I dialoghi distruggono ogni emozione costruita durante le scene di musica, affossando quindi il potenziale del film e rendendolo un remake che non aggiunge nulla ai film precedenti se non la qualità delle canzoni (sicure premio Oscar, ma del resto lo erano state anche quelle del film del 1976). Nessun nuovo piano di lettura (come poteva essere quello che avrebbe offerto la versione di Clint Eastwood con Beyoncé con il tema razziale), nessuna novità di trama, nessun rinnovamento attraverso i dialoghi: semplicemente una minestra riscaldata che emoziona solo a metà, e la cui fascinazione sui critici statunitensi lascia basiti e stupefatti. Non può bastare come giustificazione, infatti, l'afflato da Hollywood classica della pellicola, dato che altri remake che potevano vantare tale etichetta, e una miglior realizzazione, sono stati accolti senza tali plausi. Rimane, dunque, solo una triste spiegazione, ovvero che anni di carestia di idee originali abbiano lentamente ma inesorabilmente lasciato il loro segno.

A star is born è un film riuscito a metà, in cui alla grande forza delle scene di canto si accompagna un'assoluta indigenza intellettuale e di scrittura, nonché delle prove attoriali non certo memorabili, con i due protagonisti che sono decisamente più a loro agio con il canto che con la recitazione. Il risultato è quindi poco riuscito, nonostante alcuni momenti oggettivamente emozionanti (la prima esibizione di Jackson e Ally sulle note di Shallow su tutti) e alcuni ingredienti che, miscelati con qualcosa di meno insipido, avrebbero potuto dare risultati certamente migliori.

**

Pier

domenica 28 ottobre 2018

Venom

Un film mutaforma

 


Eddie Brock è un giornalista d'assalto di San Francisco. Quando il suo capo lo obbliga a intervistare Carlton Drake, imprenditore geniale e visionario, Eddie decide di voler indagare su di lui. Grazie a delle informazioni sottratte alla sua fidanzata, avvocatessa di Drake, Eddie scopre che la Life Foundation presieduta da Drake sta svolgendo esperimenti illegali su cavie umane. Dopo aver confrontato Drake, Eddie viene licenziato, ma decide di provare comunque a scoprire cosa si nasconde nei laboratori della Life Foundation. Scoprirà che custodiscono dei simbionti alieni, parassiti che, per sopravvivere, devono prendere possesso di un corpo, e che Drake spera di sfruttare per far evolvere la razza umana, rendendola in grado di sopravvivere nello spazio.

Se Venom fosse uscito alla fine degli anni Novanta o all'inizio degli anni Duemila sarebbe probabilmente stato accolto in modo trionfale: i critici lo avrebbero lodato la sua capacità di raccontare le due facce di un antieroe senza prendersi troppo sul serio, e il pubblico avrebbe apprezzato il mix di ironia e azione che era solitamente appannaggio dei film polizieschi come Arma letale. 

Venom, però, esce nel 2018, quando nel panorama cinematografico e supereroistico sono già sbarcati la trilogia di Batman di Nolan, tutto l'universo Marvel, e film come Logan e Deadpool che hanno dimostrato che è possibile realizzare dei film più adulti e smarcati dalle logiche dominanti del genere. I continui cambi di tono, dunque, risultano schizofrenici anziché innovativi, e alcune ingenuità evidenti della sceneggiatura non possono più essere perdonate. Venom è un film che cambia forma troppe volte, e finisce per riflettere, come già Suicide Squad prima di lui, tutte le difficoltà produttive del progetto, tra continue riscritture e indecisioni sul target del film. La scelta di renderlo un film per famiglie è oggettivamente poco azzeccata, sia per le caratteristiche del personaggio (un simbionte alieno e omicida che solo occasionalmente si trasforma in antieroe) che per quelle del protagonista: Tom Hardy sembrava infatti l'attore perfetto per dare vita a una sorta di La Mosca in salsa supereroistica, vista la sua eccezionale abilità di recitare con il corpo e la sua fisicità.
A questo si aggiunge una scrittura abbastanza pedestre, con un primo atto troppo lungo e un secondo e un terzo atto raffazzonati, infarciti di continui cambi di tono senza soluzione di continuità, in cui si passa da una battuta a una scena drammatica (o che vorrebbe essere tale) nel giro di pochissimi secondi.

A differenza di Suicide Squad o di Justice League, però, il film riesce comunque miracolosamente a funzionare e a intrattenere, grazie soprattutto alla prova poliedrica di Tom Hardy, che mette in mostra la sua poco conosciuta ma eccellente vena comica e tiene in piedi praticamente da solo una trama sconclusionata ma comunque ben ritmata. A sostenerlo un buon comparto di effetti speciali, che dà vita a un Venom convincente dal punto di vista visivo e a un paio di scene comunque ben riuscite. Pessime, invece, le prove degli altri attori, con Riz Ahmed che sembra quasi annoiato, e Michelle Williams relegata nel ruolo di "fidanzata random del protagonista", una parte che speravamo fosse rimasta negli anni Novanta ma che invece di tanto in tanto rispunta in qualche film, pervicace come un fiume carsico.

Venom risulta quindi un film slegato, mal scritto e poco innovativo, ma comunque in grado di offrire un'ora e mezza di onesto intrattenimento (e infatti sta incassando bene), soprattutto se si è disposti a spegnere il cervello, immergerlo nei popcorn, e lasciarsi conquistare dal gigionismo di Tom Hardy. Resta comunque il rammarico per un film che avrebbe potuto essere molto di più, e che è stato invece relegato a essere un prodotto di intrattenimento appena sufficiente che con un attore diverso sarebbe probabilmente risultato disastroso.

** 1/2

Pier

venerdì 28 settembre 2018

Gli Incredibili 2

L'altro lato della famiglia



Era il lontano 2004 quando Gli Incredibili uscì al cinema, rivoluzionando del tutto sia il cinema d'animazione, sia quello di supereroi. Con quel film la Pixar completava la sua maturazione artistica e narrativa, dimostrando sia che la computer grafica poteva realizzare sequenze d'azione degne di quelle dei film live action, sia che il cinema di animazione poteva raccontare storie in cui compaiono tematiche adulte come crisi di mezza età e conflitti coniugali senza per questo rinunciare alle sue capacità di intrattenimento.

Il sequel de Gli Incredibili era stato invocato per anni, e sembrava una scelta logica in virtù del successo artistico e commerciale del primo film e della natura "episodica" del genere supereroistico, che ben si sposa con le necessità della serializzazione. Quando avevamo ormai perso le speranze, Bird decide di realizzare il sequel, sollevando dubbi e immense aspettative: sarebbe stato all'altezza di un originale che ha ormai raggiunto lo status di cult? La risposta è nel complesso più che positiva, soprattutto grazie al coraggio di Bird nello sfidare le aspettative dello spettatore.

Laddove tutti si aspettavano un salto temporale in avanti e l'eliminazione del bando contro i supereroi, Bird decide di ripartire dallo stesso punto in cui aveva abbandonato, riportando i personaggi, e noi con loro, alla cruda realtà: la popolazione ancora non si fida, e il loro ritorno alla vecchia vita è tutt'altro che scontato. Bird muove da questa premessa per parlare di un tema quantomai attuale (ma è mai stato inattuale?) come quello del potere dei media e della comunicazione nel formare le opinioni. La gente non vuole i supereroi? Serve una campagna di marketing, generosamente finanziata da un mecenate.

E qui Bird cala il suo secondo asso, facendo del volto di questa campagna non Mr Incredible, come sarebbe lecito aspettarsi, ma la più rassicurante Elastigirl, che diviene così la vera protagonista. Se il primo film si concentrava sui personaggi maschili (Mr. Incredible e Flash), infatti, il secondo dedica molto più spazio a quelli femminili, giocando sul ribaltamento dei ruoli di genere e sulle loro implicazioni a livello famigliare e sociale. Mr Incredible si trova a dover aiutare Flash con i compiti, gestire le disavventure sentimental adolescenziali di Violetta, e soprattutto i poteri incotnrollabili del piccolo Jack Jack.

Questo ribaltamento dei ruoli, tuttavia, non viene usato solo con finalità comiche: le disavventure di Mr Incredible come casalingo sono ovviamente esilaranti, ma allo stesso tempo ci fanno riflettere su quanto gli stereotipi di genere siano ancora centrali nel nostro modo di pensare, anche nelle menti di coloro che si ritengono più progressisti. Questa tematica è centrale anche per il personaggio di Violetta, costretta a nascondere la propria natura "super" al ragazzo che le piace per evitare di spaventarlo. Laddove Flash vuole sfoggiare i propri super poteri, Violetta li cela per paura che possano allontanare la persona che vorrebbe accanto a sè: una metafora sottile ma efficace di ciò che ancora succede nella società, dove le donne devono celare il proprio potere per non essere percepite come una minaccia dagli uomini che le circondano.
Gli Incredibili 2 è dunque un film al femminile e femminista (con buona pace di chi accusa la Pixar del contrario), ma presenta le sue idee in modo semplice ma efficace, evitando quegli eccessi di pedanteria e fanatismo che spesso caratterizzano i progetti con una forte impronta ideologica.

Bird riesce nell'impresa di arricchire ulteriormente tutti i personaggi presenti nel film precedente, arricchendoli di sfaccettature e rendendoli ancora più umani e più veri. A beneficiare più di tutti di questo trattamento sono Edna Mode, sempre esilarante, ma soprattutto Jack Jack, la vera star comica di questo secondo capitolo, e il motivo per cui a livello di divertimento il sequel riesce a superare l'originale. Ancora una volta, tuttavia, quello che in superficie sembra solo un artificio per strappare una risata si rivela essere un simbolo per qualcosa di più profondo: l'eterogeneità e l'incontrollabilità dei poteri del più giovane della famiglia sono la perfetta metafora dell'infanzia, in cui il bambino è un concentrato di infinito potenziale ed energia. Le difficoltà nel gestire il superbambino sono quindi solo una versione esasperata delle complessità della genitorialità, un altro tema che era rimasto sullo sfondo nel primo capitolo, ma che viene espresso nel potenziale nel sequel.


A livello tecnico il film lascia più volte a bocca aperta, sia per la fluidità delle scene d'azione che per la varietà visiva e di effetti utilizzata. Spesso tendiamo a sottovalutare quanto la Pixar alzi l'asticella della tecnologia e dell'animazione in ogni singolo film, anche in quelli meno riusciti, e Gli Incredibili 2 rappresenta un eccellenza in questo senso.

Il film delude solo per quanto riguarda i nuovi personaggi: a differenza di quanto accaduto in altri sequel Pixar (si pensi a Toy Story 2 con Jessie, o ad Alla ricerca di Dory con il polpo Hank), Bird non riesce a creare nuovi protagonisti che siano ben caratterizzati quanto quelli già esistenti. I nuovi supereroi sono piatti e senza personalità,  Evelyn e Winston Deavor (i due mecenati che aiutano Elastigirl e famiglia) poco approfonditi, anche se Winston in originale può beneficiare dell'irresistibile performance vocale di Bob Odenkirk (il Saul Goodman di Breaking Bad e della serie omonima).

Gli Incredibili 2 è nel complesso un sequel eccellente, che riesce a mantenere il mix tra riflessione e divertimento che caratterizzava il primo film, esplorando nuove tematiche e approfondendo quelle che erano state affrontate solo superficialmente nel primo film, regalandoci un altro meraviglioso viaggio all'interno della famiglia più incredibile che ci sia.

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Pier

sabato 8 settembre 2018

Venezia 2018 - Il Totoleone

E anche quest'anno siamo arrivati alla fine della Mostra del Cinema. Le maschere festeggiano, i chioschi sbaraccano, e i giornalisti si preparano per il gran finale, prima di lasciare il Lido per altri lidi.

È stata una Mostra molto interessante, in cui quasi tutti i film hanno messo d'accordo sia il pubblico che la critica, e in cui i picchi negativi sono stati ancora più ridotti che nello scorso anno.

Di seguito i pronostici, quasi sicuramente sbagliati, per il Leone d'Oro e gli altri premi, corredati come sempre dalle mie preferenze personali.


Premio Mastroianni per il miglior attore emergente
Competizione molto accesa quest'anno, con molti film che hanno lanciato giovani attori molto promettenti. Le favorite sembrano essere Raffey Cassidy, che in Vox Lux interpreta la giovane popstar Celeste, e l'italoirlandese Aisling Franciosi, già vista brevemente in Game of Thrones, protagonista indiscussa del potente revenge movie The Nightingale. Più staccate gli altri possibili candidati, anche se Yalitza Aparicio, attrice non professionista protagonista di ROMA, ha conquistato molti cuori. Penso che alla fine si imporrà la Franciosi, autrice di una performance davvero potente, cui va anche la mia preferenza personale.
Pronostico: Aisling Franciosi, The Nightingale
Scelta personale: Aisling Franciosi, The Nightingale

Coppa Volpi maschile
Sfida accesissima, con i protagonisti di Sisters Brothers che sarebbero i favoriti se non fosse per le voci di corridoio, che danno la Biennale restia ad autorizzare una nuova Coppa Volpi di coppia dopo quella concessa per The Master, peraltro proprio a Joaquin Phoenix. Risalgono quindi le quotazioni di altri attori, e in particolare di Ryan Gosling (First Man) e Willem Defoe (At Eternity's Gate). Punto su Gosling per il pronostico, mentre la mia preferenza personale, in barba alle voci di corridoio, va ai protagonisti di Sisters Brothers.
Pronostico: Ryan Gosling, First Man
Scelta personale: Joaquin Phoenix e John C. Reilly, The Sisters Brothers

Coppa Volpi femminile
Come lo scorso anno, la sfida è agguerritissima, con le protagoniste di The Favourite  tutte papabili vincitrici, con Olivia Colman favorita tra di loro sia per la precedente vittoria di Emma Stone (con La La Land), sia perché la sua parte è quella centrale allo splendido film di Lanthimos. Aisling Franciosi rischia di essere penalizzata dalla giovane età, e Natalie Portman (Vox Lux) dalle stesse ragioni che penalizzano la Stone. Tra le possibili sorprese Yalitza Aparicio (ROMA), che però sarebbe una scelta davvero azzardata, e la Tilda Swinton di Suspira, dove interpreta tre parti, compresa quella di un uomo.
Per il pronostico dico Colman, mentre la mia preferenza personale va a tutto il cast di The Favourite.
Pronostico: Olivia Colman, The Favourite
Scelta personale: Olivia Colman, Rachel Weisz, ed Emma Stone, The Favourite

Osella per la miglior sceneggiatura
Qui il favorito sembra essere Doubles Vies di Assayas, fatto di una serie di dialoghi davvero travolgenti per profondità e ritmo. La mia preferenza personale va però a Deborah Davis e Tony McNamara, autori di The Favourite.
Pronostico: Doubles Vies
Scelta personale: The Favourite

Gran Premio della Giuria
Vox Lux, che pure sarebbe un buon candidato, pare non essere piaciuto alla giuria presieduta da Guillermo del Toro. Ecco quindi emergere con prepotenza la candidatura di Opera senza autore, film dell'autore de Le vite degli altri, Florian Henckel von Donnersmarck, che è piaciuto moltissimo al pubblico. von Donnersmarck si aggiudica quindi il mio pronostico, mentre il mio voto personale va a Vox Lux, opera seconda imperfetta ma di grande potenza e ambizione di Brady Corbet.
Pronostico: Opera senza autore
Scelta personale: Vox Lux

Leone d'Argento (Miglior Regia)
Se Del Toro non fosse presidente di giuria, ROMA sarebbe forse il favorito per la vittoria finale. Possibile però che la Biennale consigli a Del Toro di assegnare al film dell'amico Cuarón un premio minore, memore delle polemiche del 2010 quando Quentin Tarantino assegnò il Leone al men che mediocre Somewhere di Sofia Coppola, sua ex fidanzata. Ecco quindi perché Cuarón potrebbe essere il favorito per la corsa alla miglior regia. Il mio voto personale va a Yorgos Lanthimos, sia per aver realizzato il miglior film in costume dai tempi di Barry Lyndon, sia per aver dimostrato di saper girare un film profondamente diverso da quelli che lo hanno consacrato.
Pronostico:  Alfonso Cuarón, ROMA
Scelta personale: Yorgos Lanthimos, The Favourite

Leone d'Oro
Sfida davvero accesa, senza un chiaro favorito, e pronostico quindi davvero difficile. Suspiria potrebbe essere una possibile sorpresa, così come What you are going to do when the world is on fire? di Minervini. Il mio pronostico ricade però su The Sisters Brothers di Jacques Audiard, film di genere ma anche storia universale che ha il potenziale per piacere a una giuria variegata come quella di quest'anno. La mia scelta personale va invece a un film che non è quello che mi è piaciuto di più, ma quello cui mi sono ritrovato a pensare più spesso dopo la proiezione, ovvero Zan di Tsukamoto: un film che racconta la fine di un'epoca e di un sistema di valori attraverso una storia solo all'apparenza semplice, ma in realtà dotata di molteplici livelli di lettura e di una raffinatezza narrativa di altissimo livello; un film, in sintesi, che coniuga forse meglio di altri la dimensione artistica e quella commerciale del cinema, e che quindi potrebbe essere apprezzato dalla giuria.
Pronostico: The Sisters Brothers
Scelta personale: Zan (Killing)

È tutto per quest'anno, ci risentiamo per l'edizione 2019.

Pier

venerdì 7 settembre 2018

Telegrammi da Venezia 2018 - #4

Ultimo telegramma da Venezia, in attesa dei pronostici di domani.


22 July (Concorso), voto 4. Il film parte bene, ma diventa lentamente uno sceneggiato televisivo da pomeriggio estivo su Rete 4. Qui la recensione estesa fatta per Nonsolocinema.

The Nightingale (Concorso), voto 7. Jennifer Kent, dopo l'ottimo esordio di Babadook, realizza un revenge movie atipico, in cui la vendetta della protagonista, galeotta irlandese deportata in Australia nel XIX secolo, si intreccia con la storia degli aborigeni, privati delle loro terre e schiavizzati dagli inglesi. Il film alterna toni e suggestioni molto diverse tra loro, dalla commedia all'horror, e racconta una storia potente ed evocativa, grazie anche all'uso frequente di canti rituali sia irlandesi che aborigeni. Il film si perde però sul finale, dove la commistione di generi diviene una debolezza che fa perdere coerenza e forza al messaggio del film. Rimane comunque un'interessantissima opera seconda, che consacra la Kent come nuova voce nel panorama cinematografico mondiale.

Ying - Shadow (Fuori Concorso), voto 8. Zhang Yimou torna al genere di cappa e spada, ma lo fa con uno sguardo completamente diverso da quello adottato in passato. Niente colori ipersaturati come in Hero, niente combattimenti contro la fisica come ne La foresta dei pugnali volanti. l film è giocato tutto sui toni di bianco e nero, lo ying e lo yang, e i grigi dominano la splendida scenografia e gli sfarzosi costumi. I combattimenti sono coreografati in modo essenziale, e si svolgono nel fango, sotto una pioggia torrenziale; il vero eroe non è il protagonista, ma i suoi seguaci, che si esibiscono in una meravigliosa sequenza degna del cinema d'azione giapponese in cui scivolano per le strade di una città come tante trottole all'interno di improbabili ma spettacolari ombrelli ninja. Il film è riuscitissimo, non annoia mai, e riesce anche a introdurre un'interessante riflessione sul doppio e sul potere.

Capri - Revolution (Concorso), voto 6. Il voto alle intenzioni sarebbe decisamente più alto. L'idea di Martone era quella di raccontare il fermento culturale e intellettuale che precedette la Prima Guerra Mondiale attraverso la storia dell'incontro-scontro tra la cultura rurale di Capri (incarnata da una capraia), la scienza moderna (incarnata dal medico del paese) e le avanguardie culturali e filosofiche (incarnate dai membri della comune che prende residenza sull'isola). L'obiettivo viene però raggiunto solo in parte a causa di dialoghi inutilmente lunghi e stucchevoli e di alcune interpretazioni non proprio eccelse, nonché di una certa mancanza di coesione narrativa. Lo sforzo resta apprezzabile, in quanto segna un deciso tentativo di allontanarsi dalle strade battute in precedenza dallo stesso regista e dal cinema italiano in generale, e di avventurarsi per sentieri nuovi e mai percorsi in precedenza. Un risveglio spirituale-cinematografico, particolarmente importante perché viene da uno dei registi più più acclamati ma anche più classici del nostro panorama filmico.

Zan - Killing (Concorso), voto 7. Con questo film Tsukamoto sembra volersi congedare dal genere dei samurai, raccontandone il triste e inevitabile tramonto all'alba dell'arrivo degli Statunitensi, il cui uso di fucili e cannoni rese completamente inutili le arti di combattimento con la spada perfezionate in anni di addestramento. I samurai di Zan non hanno mai ucciso, non hanno più valori, e hanno in generale dimenticato il proprio ruolo: sono ronin, vagabondi senza padrone, una vestigia del passato, destinata a essere spazzata via dalla storia e dalla loro stessa inadeguatezza.

The Ghost of Peter Sellers (Giornate degli Autori), voto 8. Interessantissimo documentario su un film di pirati mai distribuito, Ghost of the Noonday Sun, e di cui Peter Sellers avrebbe dovuto essere il protagonista. La lavorazione del film fu un disastro a causa delle intemperanze di Sellers, e costò quasi la carriera al suo regista, Peter Medak, che ora ha girato questo documentario per scendere a patti con la propria coscienza e con questo capitolo irrisolto del suo passato. A tratti esilarante, a tratti profondamente triste, il film ricostruisce l'atmosfera sul set in modo molto efficace, mostrandoci numerosi spezzoni di quello che avrebbe potuto essere un nuovo capitolo nella carriera del genio comico di Sellers e finì invece per essere un disastro a causa del lato oscuro che quel genio portava con sé.

A domani per i pronostici!

Pier e Simone

giovedì 6 settembre 2018

Telegrammi da Venezia 2018 - #3

Terzo telegramma da Venezia. Tra oggi e domani verranno proiettati gli ultimi film del Concorso, e sabato si terrà la cerimonia dei premi.


The Sisters Brothers (Concorso), voto 8. Jacques Audiard unisce in questo film i due filoni che hanno finora caratterizzato il suo cinema (dramma familiare e gangster story) e li declina all'interno del più classico dei generi cinematografici, il western. La storia dei fratelli Sisters viene raccontata con grande amore per il genere, ma senza paura di distaccarsi dai suoi archetipi. Troviamo quindi sparatorie e inseguimenti, ma anche comicità e esperimenti chimici, cogliendo appieno quel momento in cui la modernità si affacciò sulla frontiera, segnandone il lento ma inesorabile declino. Joaquin Phoenix e John C. Reilly sono fenomenali nella parte dei due protagonisti, due adorabili criminali cui è impossibile non voler bene. Audiard dirige con mano sicura una sceneggiatura di altissimo livello, portandola con sicurezza e senza fronzoli verso un finale tutt'altro che scontato, che rappresenta sia una fine che un nuovo inizio. Nel mezzo, tante sequenze spettacolari, anche se forse la migliore è quella d'apertura, una serie di spari nella notte scura in cui l'unica luce è quella di uno strumento di morte.

Napszàlita - Sunset (Concorso), voto 6.5. László Nemes ha stupito il mondo con la sua opera prima, Il figlio di Saul, vincitore dell'Oscar per il miglior film straniero. La sua opera seconda è un thriller mascherato da melodramma, in cui la camera segue ossessivamente la protagonista mentre cerca la verità sulla sua famiglia, e forse anche su se stessa, per le strade di Budapest alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. Fotografato interamente in luce naturale e con lunghi piani sequenza, il film nella prima parte riesce a costruire la forte sensazione di angoscia e disastro imminente cui mirava il regista. Nella seconda, tuttavia, si perde in inutili ripetizioni e lungaggini, aggrovigliandosi su se stesso e depotenziando quindi quella che poteva essere un'opera potente e di grande impatto, ma finisce per risultare soltanto un bell'esercizio di stile.

La Profezia dell'Armadillo (Orizzonti), voto 2. Un film imperdonabile, ingiustificabile, incomprensibile. Il fumetto di Zerocalcare da cui è tratto viene massacrato senza pietà e tradito nel suo spirito. Dal fumetto vengono prese solo le gag, cui ne vengono aggiunte di nuove (malriuscite), mentre vengono del tutto abbandonate sia la coerenza narrativa, sia la malinconia che pervade il testo. Anche senza voler tirare in ballo il fumetto da cui è tratto, il film è totalmente sconclusionato, mal scritto e mal recitato, con l'eccezione di Pietro Castellitto/Secco. Sorvolo sull'orrida soluzione scelta per rappresentare l'Armadillo perché non sparo sulla Crose Rossa.

Charlie Says (Orizzonti), voto 7. Un'interessante ritratto delle ragazze della Manson Family, i seguaci di Charles Manson che si resero responsabili di una serie di efferati omicidi. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Vox Lux (Concorso), voto 7.5. Dopo il suo folgorante esordio con Infanzia di un capo, presentato alla Mostra nel 2016 e vincitore del premio per la miglior opera prima, Brady Corbet torna a Venezia con un film molto ambizioso, che si propone di usare la storia di una giovane popstar per raccontare il XXI secolo, e l'entertainment come nuova religione. Il film riesce solo in parte, soprattutto per via di una sceneggiatura non sempre efficace, ma è impossibile non restare folgorati dalla fragorosa potenza visiva e concettuale di alcune sequenze. Tra tutte, spiccano le scene di apertura e soprattutto di chiusura, in cui Natalie Portman, che intepreta Celeste da adulta, diventa una profetessa intenta a impartire il suo credo su masse che pendono dalle sue labbra, in un concerto che diventa eucarestia e comunione. Strepitose anche qui le musiche di Scott Walker, ed efficaci anche le musiche pop cantate da Celeste, composte da Sia.

Monrovia, Indiana (Fuori Concorso), voto 7. Wiseman racconta con il consueto sguardo acuto ma discreto la vita e gli abitanti di una cittadina dell'Indiana, che diviene un simbolo della "vera America", quella che non capiamo e non vediamo mai nei quotidiani. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Pier

domenica 2 settembre 2018

Telegrammi da Venezia 2018 - #2

Secondo telegramma da Venezia, con molti dei film più attesi del Concorso. A brillare, però, è ancora una volta il cinema classico.




The Ballad of Buster Scruggs (Concorso), voto 7.5. Il nuovo film dei fratelli Coen è un western antologico, in cui sei storie sono collegate solo dall'ambientazione, introdotte dall'inquadratura di un libro simile a quello dei film Disney di una volta, quasi a sottolineare il fatto che queste storie si muovono tra realtà e leggenda. In queste sei storie, tutte ben riuscite (soprattutto le prime tre), si ritrovano i toni e le tematiche che hanno reso celebri i due fratelli: lo humor dell'assurdo di Burn after reading, e quello più cerebrale e raffinato di Fratello dove sei? ; il cinismo e il pessimismo cosmico di Non è un paese per vecchi, e le riflessioni filosofiche di A serious man; l'amore per la musica di A proposito di Davis e dello stesso Fratello dove sei?, e quello per il thriller de L'uomo che non c'era e Fargo. Il risultato è un film corale che non è tra i loro migliori solo per la mancanza di una tematica "forte", ma si distingue comunque per la qualità di sceneggiatura e immagini.

A Star is Born (Fuori Concorso), voto 4.5. Che spreco, questo film. Gli ingredienti per il successo sembravano esserci tutti: una storia di comprovata efficacia, due star che sembravano avere un'ottima chimica sullo schermo, la voce e le canzoni di Lady Gaga. A rovinare tutto ci pensa una sceneggiatura imbarazzante, con dialoghi che sembrano tratti da una telenovela brasiliana di serie B, personaggi che compiono azioni senza senso, e un'evoluzione della trama che procede a strappi, senza dare mai la sensazione di sapere dove andare. La regia di Bradley Cooper (all'esordio dietro la macchina da presa) è scolastica ma funzionale alla storia, ma crolla di fronte all'insipienza della scrittura e alla prova poco convincente di Lady Gaga, tanto fenomenale quando canta quanto è rivedibile (e siamo generosi) quando è costretta a recitare. Le canzoni funzionano, pur non brillando per originalità, e le esibizioni canore sono decisamente l'unica parte riuscita del film, anche grazie all'ottima chimica tra i due attori protagonisti.

Peterloo (Concorso), voto 6. Un bel dramma in costume, che sembra però fuori posto nel contesto del concorso della Mostra del Cinema. Qui la recensione estesa scritta per Nonsolocinema.

Double vies (Concorso), voto 7.5. Il nuovo film di Olivier Assayas usa il tema della tecnologia e dell'avvento del digitale come pretesto per parlare delle bugie e dei sotterfugi di un gruppo di famiglie borghesi che gravita attorno al mondo dell'editoria. Scritto superbamente e con un ritmo pressoché perfetto, il film sembra a tratti piacersi un po' troppo, ma risulta comunque un'interessante ed efficace riflessione sui sentimenti nell'età odierna, e fa pensare che, in fondo, la tecnologia ha cambiato ben poco, in tal senso.

Suspiria (Concorso), voto 6.5. Premessa: non ho visto l'originale di Dario Argento. Il lancio di pomodori possiamo farlo più tardi, ok? Detto questo, l'omaggio (secondo il regista) o il remake (secondo i fan) di Guadagnino funziona bene per quasi tutto il film, sia grazie alla forza delle immagini create dal regista, sia grazie alla scelta dello sceneggiatore David Kajganich di intrecciare la storia della scuola di ballo in mano alle streghe con gli eventi della Germania anni Settanta. Il senso di colpa per i crimini del nazismo e le azioni terroristico/ideologiche della RAF si intrecciano così con la storia della protagonista Susie, vittima designata delle streghe intenzionate a usarla per i loro scopi.
Susie è interpretata da un'inespressiva Dakota Johnson, che non riesce comunque ad affossare quanto di buono c'è nel film. Guadagnino dirige tutto senza fronzoli, dimostrando ancora una volta dopo Chiamami col tuo nome di lavorare meglio quando deve gestire sceneggiature e soggetti altrui. La sua attenzione è sulla storia e sulle atmosfere, ma non per questo rinuncia a creare delle immagini di forte impatto visivo (su tutti spiccano le scene di ballo, e il primo di Susie in particolare) che donano al film una dimensione metafisica che non sconfina mai nell'horror, ma crea un'atmosfera di angoscia e sospensione del reale. Tuttavia, nel finale la sceneggiatura perde del tutto coerenza, rinunciando a scegliere tra catarsi e trionfo del Male per intraprendere una strada senza né capo né coda, e che nel suo epilogo depotenzia la forza di quanto visto fin lì. La regia, purtroppo, segue, e nel finale compie delle scelte scontate e abbastanza prevedibili (c'è sangue? Giriamo tutto con una lente rossa!), in netta contraddizione rispetto al coraggio mostrato fin lì. Peccato.

Adam und Evelyn (Settimana della Critica), voto 5.5. Due giovani che vivono in Germania dell'Est decidono di sfruttare la decisione dell'Ungheria di aprire le frontiere e trasferirsi all'Ovest, nel "mondo libero". Novelli Adamo ed Eva, i due dovranno rifarsi una vita in un mondo sconosciuto. La metafora funziona bene e non è forzata, ma non basta a sorreggere un film che dovrebbe fare della storia la sua forza, e risulta invece lento e con poco ritmo.

The Great Buster (Venezia Classici - Non fiction), voto 8.5. Peter Bogdanovich porta alla Mostra questo splendido documentario su Buster Keaton, un genio della comicità del cinema muto troppo spesso ingiustamente dimenticato. Il film racconta la carriera di Keaton in tutti i suoi aspetti, sottolineandone non solo le doti di comico ma anche quelle di regista e inventore: i suoi film infatti brillano anche per le innovazioni tecnologiche, nonché per l'abilità di Keaton di fare acrobrazie incredibili senza servirsi di stunt. Una piccola perla, assolutamente da non perdere per chi ama il cinema classico e per chi vuole iniziare a scoprirlo.

Pier e Simone

venerdì 31 agosto 2018

Telegrammi da Venezia 2018 - #1

Come ogni anno, Film Ora è a Venezia, e vi accompagnerà per tutta la Mostra del Cinema con i suoi telegrammi, recensioni brevi dei film visti nelle varie sezioni.


First Man - Il primo uomo (Concorso), voto 7.5. Dopo un capolavoro come La La Land, Chazelle torna con un film più tradizionale, ma comunque efficace ed emozionante. Chazelle racconta il primo allunaggio ricostruendo fedelmente le esperienze provate dai protagonisti, e facendo sentire lo spettatore parte di ogni volo, ogni test. La fragilità e artigianalità di materiali e tecnologia si percepisce a ogni inquadratura, aiutandoci a comprendere la straordinarietà dell'impresa. Chazelle riprende con mano sicura, regalando anche alcune sequenze (tra tutte quella d'apertura) davvero indimenticabili.

The Mountain (Concorso), voto 3. La storia di un neurologo esperto di lobotomia e del suo apprendista era potenzialmente interessante, ma viene raccontata in modo noioso e pedissequo, con un ritmo praticamente assente e un'afasia che si fa noia mortale dopo pochi minuti, favorita anche dall'espressione frigoriferesca di Tye Sheridan. Jeff Goldblum e una fotografia splendida risollevano il film dal marchio dell'infamia sempiterna, ma il risultato è comunque pessimo.

ROMA (Concorso), voto 6.5. Un racconto intimista ispirato all'infanzia del regista Alfonso Cuaròn, con immagini struggenti ma una storia inspiegabilmente fredda. Qui la recensione estesa fatta per Nonsolocinema.

La favorita (Concorso), voto 8.5. Yorgos Lanthimos, autore di The Lobster, racconta la storia del rapporto tra la regina Anna Stuart e le sue due favorite con un taglio tra il grottesco e il tragico. Il risultato è un film esilarante che però stimola anche profonde riflessioni sul tema del potere e dell'autorità. Fotografia sontuosa, che fa de La favorita forse il miglior film in costume a livello visivo dai tempi di Barry Lyndon, e interpreti strepitose, su tutte Olivia Colman.

The other side of the wind (Fuori concorso), voto 9. Il film perduto di Orson Welles, girato per intero negli anni Settanta ma mai completato dal regista, viene restituito al mondo grazie al finanziamento di Netflix. Il film, dai forti risvolti autobiografici, merita certamente l'appellativo di testamento artistico di Welles: una riflessione sull'arte del cinema e sull'identità personale e artistica, un gioco di incastri solo apparentemente sconnesso in cui il talento del regista si esprime in totale libertà. Il risultato è un film di una creatività dirompente, il più innovativo visto finora alla Mostra, il che la dice lunga sulla visionarietà di Welles, che in un film degli anni Settanta anticipa istanze visive e narrative poi portate avanti da maestri come Lynch e Kubrick.

Sulla mia pelle (Orizzonte), voto 7.5. Il film racconta il caso di Stefano Cucchi con piglio cronachistico, cercando di attenersi il più possibile agli atti processuali e lasciando che siano le immagini a parlare. Il risultato è un film potente, un atto di denuncia fortissimo che arriva dritto allo stomaco anche grazie alla fenomenale interpretazione di Alessandro Borghi: se Sulla mia pelle fosse una produzione americana staremmo già parlando di nomination all'Oscar.

L'EnKas (Orizzonti), voto 6. Solido e coinvolgente film francese che racconta il tentativo disperato di due emarginati di guadagnare qualche soldo: vendere ketamina a un rave. Nulla va come previsto, ma l'esperienza aiuterà i due protagonisti a fare i conti con se stessi, le proprie famiglie, e il proprio passato.

Pier

lunedì 27 agosto 2018

Verso Venezia 2018 - Intervista ad Alberto Barbera

Intervista ad Alberto Barbera, Direttore della Mostra del Cinema di Venezia

Domani The First Man, di Damien Chazelle, inaugurerà la 75a edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. Un'edizione che si preannuncia molto ricca, come ormai di consuetudine da quando la Mostra è sotto la direzione di Alberto Barbera.

Barbera, classe 1950, biellese, aveva già diretto la Mostra dal 1998 al 2002. Nel 2012 il ritorno, a sostituire quel Marco Müller che aveva alternato annate strepitose (si pensi alla Mostra del 2007) ad altre decisamente meno convincenti.

Sotto la direzione di Barbera, la Mostra è tornata a essere l'evento centrale del panorama festivaliero, accaparrandosi film che hanno poi fatto incetta di Oscar come BirdmanLa La Land e La forma dell'acqua, ma anche grandi autori come Lav Diaz, Samuel Maoz, e Aleksandr Sokurov.

Abbiamo intervistato il Direttore Barbera, cercando di capire meglio la sua visione sulla Mostra, sul processo di selezione, e sul panorama cinematografico in generale.

Alberto Barbera
Cosa l'ha spinta ad accettare di tornare a Venezia?

Quando ho accettato di tornare a Venezia nel 2012, l'ho fatto mettendo non tanto delle condizioni, quanto proponendo di modificare in maniera anche rilevante la struttura della Mostra in quanto tale, introducendo delle novità, dei progetti, e sostanzialmente cambiando il profilo del festival così come si era consolidato nel corso degli anni, a partire dalla grande innovazione che aveva fatto Carlo Lizzani quando era stato chiamato a dirigere la mostra nel 1979. Da lì in poi di fatto la Mostra era rimasta identica a se stessa nella struttura, con piccoli interventi di adeguamento alla personalità dei singoli direttori che si erano succeduti, però di fatto quello era: un concorso principale ed una sezione collaterale che poi era diventata competitiva a sua volta (anche lì su mia iniziativa nel 2000), e poi una terza sezione più o meno sperimentale.

Dopo il primo mandato ero tornato a Torino a fare il direttore del Museo del Cinema e non avevo molta voglia di ripercorrere a Venezia un percorso già fatto, che poi si era concluso prematuramente ma che comunque aveva avuto una sua parabola in qualche modo definita. 
Ho pensato che valesse la pena di farlo se mi fosse stata data la possibilità di tentare qualcosa di nuovo, tentare di innovare la mostra in quanto tale, che stava subendo i contraccolpi di una competizione molto forte e anche molto aggressiva da parte di altri festival concomitanti in termini temporali: Toronto soprattutto, ma anche Telluride e New York. Era sicuramente nato un processo di ridefinizione dei ruoli dei festival all'interno di un processo più grande di trasformazione dell'universo dell'audiovisivo sotto la spinta dell'evoluzione del digitale. 

Un processo che rischiava di spingere Venezia un po' ai margini di quello che era il circuito internazionale di promozione dei grandi film, con il rischio di relegarla a un ruolo minoritario rispetto ai grandi appuntamenti festivalieri quali Cannes, Berlino, Hong Kong, New York, Toronto, eccetera.
Il pericolo mi sembrava reale, molto forte. I segnali andavano tutti in quella direzione: gli americani che non volevano più venire dicendo che il rapporto tra costi ed investimenti non era più vantaggioso, i rischi erano troppo alti, e così via.
Da qui nacque la decisione di rivedere un po' tutto; finalità, modalità operative, senza parlare di tutto un altro aspetto che è molto importante ed ha avuto una rilevanza enorme, che è stata la grande progettazione legata alla ristrutturazione dei luoghi, dello spazio, dei cinema, dei sistemi d'accoglienza, che è andata avanti parallelamente a questo progetto di ridefinizione della mission del festival, senza il quale forse non saremmo neanche riusciti ad ottenere i risultati che abbiamo invece ottenuto in questi anni.

La Sala Giardino, nuova sala aggiunta sotto la direzione di Barbera
Quali sono state queste novità?

Le novità sono quelle che più volte ho sottolineato e ribadito: la riduzione del numero dei film, per cercare di garantire una maggiore visibilità a tutti i film presentati e quindi un maggior impatto promozionale del festival in quanto tale. Questo non è un fatto secondario, anzi: è un fatto in controtendenza, visto che la maggior parte dei festival tende ad aumentare progressivamente il numero delle proposte, dei film, delle sezioni.

Il secondo punto è stata la decisione di affiancare alla Mostra uno spazio che non abbiamo mai chiamato mercato, perché non è mai stato un mercato nel senso tradizionale del termine. Volevamo che fosse uno spazio rivolto esclusivamente ai professionisti del settore, agli imprenditori commerciali che avevano smesso di venire a Venezia. Un grande problema di Venezia era che, al Lido venivano ancora i registi, gli autori, ma non venivano più tutte quelle figure che sono invece indispensabili, che sono l'altra componente del cinema: la componente industriale, commerciale, produttori, distributori, sales agents, compratori, mediatori, finanziatori eccetera.
Quindi abbiamo dato vita ad un progetto di mercato leggero che poi si è evoluto nel corso degli anni e che sei anni dopo è molto diverso da quella che era all'inizio, perché è stato un lavoro di progressivo aggiustamento del tiro rispetto a quella che abbiamo intuito essere la domanda che veniva da parte degli operatori commerciali del settore.Oggi abbiamo sicuramente raggiunto una parte di obiettivi che ci eravamo proposti, principalmente siamo riusciti a riportare a Venezia un numero significativo di operatori commerciali, senza i quali la mostra sarebbe andata incontro ad un declino progressivo inarrestabile.

Oggi c'é gente che rinuncia ad andare al festival di Toronto e viene a Venezia, perché sa che a Venezia trova occasioni per incontrare operatori commerciali che ha interesse a incontrare, e soprattutto trova delle proposte di co-produzioni di progetti che sono oggi l'elemento chiave per il successo di un mercato. Oggi i mercati non sono più quello che erano una volta, cioè bancarelle dove si vendono prodotti finiti, ma sono spazi virtuali dove si co-producono film ancora da farsi. Questo è un cambiamento radicale che abbiamo intuito, e sul quale ci siamo concentrati e che sta dando ottimi risultati.

Il terzo elemento è stata la creazione del Biennale College, una cosa senza precedenti per la Mostra del Cinema, nata sotto la spinta di analoghe ma non simili esperienze avviate da altri festival. Il primo era stato quello di Rotterdam negli anni '90 con la creazione di "Cinemart", poi altri festival hanno imitato ed espanso questa esperienza: Berlino con "Working Fund", Locarno che ha una piattaforma di sostegno a progetti di cinema indipendente, per non parlare della "Cinefondation" di Cannes, modello estremamente funzionale dal punto vista del festival, ed efficiente dal punto di vista del sostegno ai giovani autori.
Non volevo copiare un modello esistente, volevo fare qualcosa di nuovo, e con Sabrina Delotti, con cui abbiamo dato vita al Torino Film Lab nel 2008, abbiamo elaborato un progetto senza precedenti, che è  quello che oggi chiamiamo il Biennale College, che ha avuto un tale successo da essere esportato dalla biennale stessa anche negli altri dipartimenti della biennale. Oggi quindi esiste un Biennale College teatro ed un Biennale College musica, e credo che esista anche un Biennale College danza.

Quello che però ha avuto maggiore successo e maggiore impatto non soltanto mediatico ma anche concreto ed effettivo è il Biennale College cinema, che è stata una scommessa al buio, rischiosissima: l'idea di passare nell'arco di dodici mesi dall'individuazione di una serie di progetti attraverso un bando internazionale, al finanziamento e realizzazione di tre film che dovevano essere girati e consegnati in tempo per la Mostra dell'anno successivo. Una cosa sulla carta apparentemente assurda, una scommessa che, nonostante le limitazioni del microbudget, sulla carta aveva dei margini di imprevedibilità molto molto elevati mentre invece fin da subito ha funzionato benissimo, fin dal primo anno.
Non solo siamo riusciti ogni anno a realizzare i tre progetti che ci eravamo proposti, ma la maggior parte di questi film ha avuto successo: sono stati accolti bene dalla critica, alcuni hanno avuto una vita attraverso il circuito dei festival, premi internazionali, e alcuni sono stati distribuiti commercialmente, nel loro paese o su piattaforme online .
Quindi, il successo di Biennale College è andato ben oltre le nostre più rosee aspettative.


Poi nel 2017 si è aggiunto un ulteriore elemento, che è l'apertura alla realtà virtuale, con l'apertura di un nuovo concorso di progetti VR: un'iniziativa senza precedenti, perché nessun grande festival era mai andato al di là di una curiosità marginale del VR, anche perché il VR è un'opportunità generata da una tecnologia recentissima che ancora non ha una storia, oltre a non avere uno standard né tecnologico, né linguistico, né formale. Per questo motivo finora ci si era limitati a presentare alcuni prodotti che avevano più il sapore di una curiosità, l'aveva fatto il Sundance, lo aveva fatto Cannes nel Marché, l'aveva fatto con un po' più di attenzione il Tribeca a Maggio di quest'anno, però parliamo di un arco temporale di poco più di 24 mesi, forse 36.

All'interno di questo quadro di cambiamento di tutto il sistema, come vengono selezionati i film del concorso?Cosa è cambiato rispetto al passato?

Innanzitutto, i concorsi sono due. Ci tengo a dirlo perché è lo stesso processo, chiunque voglia iscrivere un film alla selezione di Venezia lo fa genericamente, proponendo il film senza indicare una sezione specifica. Lo dico perché in realtà sono molti quelli che ci chiedono "come faccio ad iscrivere il film ad Orizzonti o al concorso principale?", ma la risposta è sempre la stessa: tu iscrivi il film a Venezia, e poi siamo noi a decidere la collocazione del film.
Questo è un elemento discriminante rispetto alla selezione, perché vuol dire che in realtà dal nostro punto di vista non c'è un concorso di serie A o un concorso di serie B, sono due facce della stessa medaglia, dove la medaglia ovviamente è la vetrina di Venezia, che rispecchia la situazione del cinema mondiale in quel periodo dell'anno.
Le due facce ovviamente si differenziano l'una dall'altra perché in un concorso c'è una prevalenza di autori già affermati, produzioni di peso, mentre nell'altra prevale un'attenzione rispetto ai cineasti emergenti, alle produzioni indipendenti e alle cinematografie meno favorite dal mercato tradizionale, però allo stesso tempo ci piace anche mescolare le carte, ci piace mettere in concorso opere prime di autori sconosciuti, come nel 2017. Allo stesso modo ci piacerebbe, ma non sempre è possibile, mettere in Orizzonti film di autori affermati, che hanno già una storia, una filmografia consistente. Ogni tanto ci riusciamo, per cui la cosa funziona abbastanza bene.

Come avviene il processo di selezione? Intanto c'è un problema quantitativo, perché ogni anno cresce il numero dei film che vengono proposti alla selezione. Nel 2017 abbiamo visionato quasi 1800 lungometraggi e quasi altrettanti cortometraggi.
I film cominciano ad arrivare intorno a Marzo, anche perché molti film vengono proposti contemporaneamente sia a Venezia che a Cannes. Il grosso dei film però arriva da fine Maggio in poi.
Dovendo dare qualche numero, potrei dire che tra Marzo ed Aprile vediamo 200 film e poi da fine Maggio e fine Luglio ne vediamo 1200. La maggioranza è quindi concentrata in quelle otto o nove settimane che sono un autentico incubo, perché vedere 1500 film in pochissimo tempo è non soltanto fisicamente estenuante, ma è anche complicato.
Questo compito improbo è affidato a una commissione di selezione composta da sette persone, sei dei quali stanno stabilmente a Venezia, nel senso che prendono l'impegno di stare fisicamente con me al Lido di Venezia nelle otto o nove settimane di selezione, nel modo che si possa insieme compiere questo percorso. In aggiunta ci sono tre pre-selezionatori che lavorano da casa. Abbiamo messo una piattaforma in sicurezza sulla quale vengono caricati molti dei film che vengono proposti.

I selezionatori da casa quindi vedono i film che riescono a vedere, con una selezione prevalente per gli autori sconosciuti di cui non si sa assolutamente nulla, mentre noi a Venezia vediamo tutti i film di autori  conosciuti, tutti i film che ci sono stati segnalati da una rete complessa di soggetti che ci mandano o ci segnalano i film. Questi soggetti possono essere singole persone, corrispondenti/scout con i quali abbiamo un rapporto istituzionale, e che si occupano di varie aree geografiche: ne abbiamo uno che si occupa del cinema Latino Americano, uno che si occupa del cinema Cinese, uno che si occupa dell'area ex Sovietica, uno che si occupa dell'area sud Asiatica esclusa la Cina e Corea. C'è poi un secondo gruppo di persone, che sono amici, conoscenti, critici che ci mandano segnalazioni di film, in produzione o appena terminati, e poi ci sono gli organismi di promozione da tutto il mondo, che non solo ci mandano il film, ma anche informazioni sui singoli film e che ci aiutano a valutare quelli più interessanti e a dare priorità nella visione. Infine, ovviamente ci sono i singoli autori e produttori con cui abbiamo storicamente rapporti e che ci mandano film eccetera.

La premessa è che noi vediamo tutto. L'impegno è che dobbiamo vedere assolutamente tutto perché non possiamo escludere che, come è successo in passato, arrivi un film di un autore completamente sconosciuto che poi si rivela essere un'opera molto interessante. Non possiamo quindi correre il rischio di lasciar fuori per esempio qualcuno come il vincitore derla miglior regia di quest'anno (Xavier Legrand con L'affido, ndr).
Il processo di selezione è lungo e faticoso, e comporta alcune scelte giocoforza dolorose, anche per il poco tempo a disposizione. Una volta operata la selezione dei film, c'è un altro processo molto importante che è quello di decidere in quale dei due concorsi va messo ciascun film, o se il film va messo fuori concorso. Qui intervengono altri fattori, altri metri di valutazione e di giudizio. Una cosa che dico spesso è che bisogna sempre cercare di difendere i film che si invitano ad un festival, ovvero collocarli nella posizione destinata a fare meno male possibile al film, aiutandolo quindi a essere accolto il più positivamente possibile da parte della critica, degli operatori commerciali, e del pubblico presente al festival.

Quello che faccio a volte è proprio di spiegare perché sia più utile e più efficace, che un film non sia nel concorso principale ma sia invece in "Orizzonti" o sia addirittura fuori concorso.
Le aspettative sono minori, e aiuta anche il lavoro dei critici, che devono vedere 4/5 film al giorno esprimendo un giudizio a caldo, ed è quindi inevitabile che possano sbagliare o comunque esprimere giudizi affrettati. Bisogna tenere conto di questo fatto, e quindi esporre un film più "fragile", diciamo così, a un giudizio negativo vuol dire fargli un cattivo servizio. Questo poi vale soprattutto per i film italiani a Venezia. Un esempio in questo senso è "Nico" di Susanna Nicchiarelli. La produzione avrebbe voluto venire in concorso, come è ovvio. Il film a me è piaciuto moltissimo fin dalla prima visione, ed era un film di cui ero assolutamente convinto e che volevo assolutamente a Venezia.
Ho riflettuto a lungo se metterlo nel concorso principale o no, e poi ho spiegato ai produttori che secondo me il film sarebbe stato ricevuto meglio se fosse stato inserito in Orizzonti, magari come film d'apertura. Hanno accettato, e il film ha vinto il premio come miglior film di Orizzonti ed ha avuto riscontri estremamente buoni, ricevendo recensioni molto positive anche dai critici stranieri, ed è stato venduto in numerosi paesi.


E poi non c'è la controprova perché magari chi dice che un certo film è bello, magari è influenzato dal fatto di averlo visto in una determinata sezione rispetto ad un'altra.Un chiaro esempio dell'importanza del "framing", della presentazione.

Esatto.

Spesso in un festival come la Mostra si parla della qualità dei film, come è naturale. Quando si parla di qualità ci si focalizza solo sul piano artistico, o si guarda alla qualità anche in termini di realizzazione ben eseguita?

Questo è un altro tema che ha dato origine a polemiche frequenti negli ultimi anni, non soltanto a Venezia: un festival deve privilegiare le ragioni dell'arte e dell'estetica o quelle più commerciali e dell'attenzione nei confronti del pubblico? O forse deve cercare di trovare una mediazione tra questi aspetti?
A mio parere queste sono polemiche molto superficiali, incapaci di andare al di là del primo livello che è quello più immediato e anche più banale di una contrapposizione netta tra un cinema d'arte ed un cinema industriale. Sin dalle origini il cinema è sempre stato diviso tra un'anima artistica ed una dimensione industriale. Sono rarissimi i casi di film che vengono realizzati e prodotti completamente al di fuori di una logica commerciale: devono essere film finanziati da mecenati, film di artisti che si affidano magari a circuiti di fruizione alternativa che non è quello del cinema, o film sperimentali fatti dai singoli individui a casa propria, una volta col Super 8 adesso con una telecamera digitale, ma che hanno ambiti ed obiettivi totalmente diversi.
Se ci mettiamo a discutere di cosa sia il cinema artistico e di qual è l'interesse estetico di un film entriamo in un ambito estremamente articolato.

Il festival di Cannes per esempio sembra difendere in maniera anche molto radicale una certa idea di cinema d'autore che è quella sedimentata nella tradizione culturale cinematografica francese, a partire dai Cahiers du Cinema degli anni '50 in poi. Poi è chiaro che anche Cannes si permette delle eccezioni a questa regola, facendo incursioni in un cinema più commerciale facendo anteprime di grossi film Hollywoodiani (quando riesce), o aprendosi a forme espressive diverse come il cinema d'animazione. Tuttavia, dietro all'idea del festival di Cannes c'è comunque questo presupposto culturale che è quello che definiamo "cinema d'autore".

A mio parere la contrapposizione tra cinema d'autore e cinema industriale è comunque qualcosa che appartiene un po' al dibattito del passato. Con la rivoluzione digitale e con i cambiamenti profondi che hanno investito l'intero sistema produttivo dell'audiovisivo, oggi è difficile tracciare una linea netta che separi questi due ambiti. Da un lato ci sono autori che per motivi diversi sempre di più si servono di codici di genere per fare un'opera estremamente personale, o comunque vanno alla ricerca di una mediazione con un pubblico o della capacità di parlare ad un pubblico più ampio rispetto al passato. Dall'altro l'industria del cinema ha capito che se non si punta sulla possibilità di innovare costantemente la narrazione e le forme espressive, oltre alle forme spettacolari, si rischia di perdere l'interesse del pubblico, che oggi come oggi non è più scontato come un tempo.
Quando il cinema era un mezzo di intrattenimento di massa e tutti andavano al cinema almeno una volta alla settimana, l'industria del cinema era un po' più garantita, poteva permettersi di produrre, ne producevano 10, 2 o 3 andavano male ma gli altri 7 o 8 davano profitti e coprivano le perdite.
Oggi è diverso, soprattutto le grandi produzioni producono sempre meno film, a costi sempre maggiori e se sbagliano un film i rischi di non riuscire a coprire le perdite diventano troppo elevati. 

Questo genera un effetto positivo, cioè la volontà di cercare continuamente di rinnovarsi.
Mai come in questi anni il cinema è cambiato, ci sono stati ricambi generazionali continui, esordi di giovani registi, commistioni di generi, tentativi di utilizzare le potenzialità tecnologiche legate agli effetti speciali a fini narrativi. Sarebbe deleterio se un festival non tenesse conto di questa realtà nuova e non cercasse in qualche modo di abbandonare schemi che appartengono al passato per confrontarsi con una realtà estremamente mutevole, dinamica e cangiante come quella di oggi.

Una grande soddisfazione di questi ultimi anni e un grande rammarico?

La grande soddisfazione è di essere consapevole del fatto che Venezia è il festival che si è trasformato di più, che ha introdotto il maggior numero di innovazioni, operazione che nessun altro festival ha fatto. Se pensiamo al numero di progetti innovativi introdotti a Venezia nell'arco di sei anni, questa è la cosa che mi da più soddisfazione, anche perché sono tutte innovazioni che hanno dato dei risultati soddisfacenti. Aver scommesso così tanto, aver assunto dei rischi così alti,aver messo in discussione la forma stessa del festival, il suo profilo e la sua identità ed aver ottenuto dei risultati così soddisfacenti, è la cosa che ovviamente mi gratifica maggiormente.


Recriminazioni non tante, ma una è indubbiamente il fatto di dover fare tanto con così pochi soldi.
Quando io faccio il confronto tra il budget che hanno a disposizione i miei colleghi per fare i loro festival ed il budget di Venezia, da un lato sono orgoglioso, ma dall'altro mi rammarico e penso a cosa potremmo fare con qualcosa di più. Venezia ha un budget che non arriva ai 13 milioni di euro, 12 e mezzo. Il budget di Cannes è sui 22 milioni di euro, Berlino è 28 milioni di euro. Parliamo di festival che sono i diretti concorrenti di Venezia, festival che hanno più o meno le stesse dimensioni a livello di film, eventi, attività, però loro hanno il doppio o più del doppio del budget.
Allora, se da un lato pensi che siamo bravi perché riusciamo a fare le nozze con i fichi secchi, dall'altro mi chiedo anche che cosa riusciremmo a fare se avessimo qualche risorsa in più, perché vuol dire che potremmo fare le cose ancora meglio di come le facciamo, probabilmente.
Ad esempio, potremmo farle in condizioni meno punitive per chi lavora per noi: siamo pochissimi a lavorare, lavoriamo tantissimo, lavoriamo con dei ritmi e degli stress che sono pesantissimi. I nostri dipendenti sono pagati poco, lavorano tantissimo ed hanno pochissimo tempo a disposizione. Poi il vantaggio è che tutti quelli che lavorano per Venezia lo fanno con passione, dando il massimo, però è difficile, se avessimo qualche soldo in più potremmo lavorare in condizioni migliori e potremmo offrire anche un servizio ancora migliore.

Pier