giovedì 18 dicembre 2025

Father Mother Sister Brother

La poesia del quotidiano


New Jersey, Dublino, Parigi: tre città diverse per raccontare il rapporto di tre coppie di fratelli con i propri genitori, tra silenzi e incomprensioni. Perché possiamo scegliere tutti, ma non i parenti.

Nell’ormai lontano 2003, Jim Jarmush realizzò Coffee and Cigarettes, un film antologico il cui, attraverso il rituale di caffé e sigarette, il regista statunitense raccontava l’umanità e le sue nevrosi. Era un film spiazzante, difficile da digerire e apparentemente disconnesso come tutti i film a episodi, che però cresceva dentro, diventando sempre più omogeneo e coeso, man mano che ci si ripensava. Jarmush aveva preso la quotidianità e la aveva usata per parlare del senso della vita e di cosa ci rende davvero umani. Quello che non veniva detto era più importante di ciò che veniva detto, e il particolare nascondeva, per poi rivelarlo gradualmente, l’universale.

In Father Mother Sister Brother, sorprendente ma meritato vincitore del Leone d'Oro alla Mostra del Cinema di Venezia 2025, Jarmush riprende quell’approccio, ma questa volta per raccontare cosa significa essere figli, fratelli, una famiglia. L’assenza genitoriale (emotiva o reale) è il filo conduttore, ma ciò che accomuna gli episodi è l’impossibilità di comunicare. In Father, il primo episodio, Tom Waits è un genitore meravigliosamente cialtrone, di cui i figli (Adam Driver e Mayim Bialik) non si fidano fino in fondo e cui, soprattutto, non hanno nulla da dire.

In Mother, Charlotte Rampling vede le due figlie (Vicky Krieps e Cate Blanchett) una volta all’anno per un té pomeridiano ingessato e formale, totalmente disinteressata alle loro vite, di cui chiede per pura cortesia. In ambedue gli episodi l’incapacità di comunicare non è prerogativa dei genitori, ma si estende ai figli, dando vita a conversazioni esilaranti fatte di silenzi, luoghi comuni, totalmente mancanti di qualunque connessione emotiva.


Ma è nel terzo episodio, Sister Brother, che cogliamo la vera essenza del film: qui i due fratelli (Indya Moore e Luka Sabbat) si parlano, discutono, si aggiornano con sincero interesse sulle proprie vite, e lo fanno perché sono entrambi emotivamente vulnerabili, gli scudi abbassati, a causa della morte dei genitori. L’assenza emotiva si fa fisica, e le barriere cadono, aprendo le cataratte dei ricordi e mettendo in mostra un legame indissolubile che trascende le distanze spaziali e temporali.

E in quel momento si nota che, negli episodi precedenti, i figli faticavano a comunicare non solo con i genitori, ma anche tra loro, e che l’unico momento di vera, autentica connessione, l’unico momento di complicità veniva proprio dai genitori stessi: le bizzarrie del padre, i romanzi romance scritti dalla madre. Quella dei genitori è un’assenza che è anche presenza, un legame indissolubile, ineluttabile, un nodo gordiano emotivo di cui Jarmush mette in luce l’enorme complessità, le mille sfaccettature.

Jarmush connette gli episodi con alcuni elementi ripetuti, seguendo una struttura più poetico/musicale che filmica, con temi ricorrenti che scompaiono e riappaiono come fiumi carsici: dal brindare con bevande “inappropriate” a Rolex veri e finti, passando per espressioni gergali poco conosciute e la rilevanza delle automobili. Questi déjà vu tra i vari episodi contribuiscono ad aumentarne la coesione tematica e, soprattutto, a creare una risonanza emotiva, un’eco che cresce con il passare degli episodi fino a esplodere in tutta la sua potenza nel terzo, il più commovente, in cui l’assenza genitoriale abbatte le barriere e le parole e gli affetti fluiscono liberi e incontrollati, i non detti finalmente espressi.


L’elemento ricorrente più importante è però quello degli skater, che appaiono come una visione (con tanto di inquadratura al ralenti e aumento della luminosità): non un semplice dettaglio di trama, ma una metafora che si pone in antitesi alle vite dei protagonisti. Gli skater volteggiano liberi, all’aria aperta, laddove i protagonisti sono intrappolati in rituali e silenzi che, nel tenerli lontani, impediscono loro di vivere appieno. Sono cristallizzati, bloccati in un eterno presente dove ogni gesto, ogni parola è automatizzata, prevedibile, priva di significato. Agognano alla libertà, al librarsi in aria e a sospendere per un breve, lunghissimo istante la gravità, ma non riescono a concedersi di farlo. Solo la morte riesce a spezzare le catene e convincerli a uscire dalla prigione, concedendosi un attimo di connessione, un istante di leggerezza.

Il comparto visivo è, in apparenza semplice, senza artifici o palesi esibizioni di bravura, ma ogni immagine potrebbe essere una fotografia d’autore, uno spaccato di vita che cattura un attimo di verità, soprattutto quando pensiamo che nessuno ci guardi: mentre guardiamo fuori dalla finestra, dando le spalle a tutti, o mentre ci guardiamo allo specchio. Ci sono le inquadrature dall’alto rese celebri da Coffee and Cigarettes, ma anche dettagli, suggestioni, e oggetti, tanti oggetti: madeleine filmiche, "cose buone di pessimo gusto" che aprono una porta sull’anima nonostante tutti i nostri sforzi per tenerla chiusa a chiave. La musica, spesso importante nel cinema di Jarmush, è minimale, usata solo per le transizioni da un episodio all’altro e in uno dei momenti emotivamente più forti, in cui un semplice tragitto in auto diviene memoria, ricordo, ri-connessione.

Father Mother Sister Brother è un film di contrasti: esilarante e freddo per due terzi per poi diventare malinconico, accogliente, caldo, e farci rendere conto che il calore era lì fin dall’inizio, solo nascosto sotto il ghiaccio della formalità; un film all’apparenza semplice, eppure complesso, stratificato, in grado di usare la quotidianità per raccontarci chi siamo e scavare nella nostra anima. Jarmush si conferma uno dei più grandi poeti della macchina da presa contemporanei: un regista che racconta storie fatte di niente e, nel farlo, parla di tutto.

**** 1/2

Pier

Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

mercoledì 17 dicembre 2025

Train Dreams

La bellezza di una vita


America, inizio Novecento. Un narratore senza nome racconta la vita di Robert Grainier. Orfano, inizia ben presto a lavorare come taglialegna in Idaho, durante l'espansione delle linee ferroviarie. La sua vita scorre sullo sfondo di una natura incontaminata e di rapporti personali e lavorativi che lo cambiano a poco a poco, mentre il mondo intorno a lui continua a scorrere.

Che valore ha una vita? Questa l'enorme domanda che si pone Clint Bentley, alla sua opera seconda come regista, in Train Dreams (già disponibile su Netflix), tratto dall'omonimo romanzo di Denis Johnson. A questa domanda si potrebbe rispondere adottando una prospettiva cosmologica, come fatto da Terrence Malick nei suoi ultimi lavori, guardando all'immensità della natura e alla piccolezza dell'uomo rispetto ad essa. In alternativa si potrebbe adottare una prospettiva più privata, intimista, focalizzandosi sulle piccole cose che costituiscono il nostro quotidiano, sulle gioie e i dolori di una vita semplice. Questo, ad esempio, l'approccio usato di recente da Wim Wenders in Perfect Days, o da Uberto Pasolini in quel gioiello di Still Life.

Bentley, con grande ambizione, decide di adottare ambedue le prospettive - sia macroscopica, sia microscopica - e lo fa raccontando la vita semplice di un uomo che vive a stretto contatto con la natura, la cui esistenza e sopravvivenza dipendono dalla natura e dal mantenere un equilibrio con essa. Un'operazione rischiosa, che Bentley completa con successo grazie a un grande talento per la narrazione, sia per parole che per immagini. 

Train Dreams è raccontato da una voce narrante: non è importante chi sia, perché ci sta raccontando una storia, una vita - la vita di Robert Grainier. Una vita semplice, come tutte, ma comunque abbastanza importante da essere raccontata, come tutte. Grainier cerca per tutta la vita un senso, un significato alla sua presenza in questo mondo, alle sue azioni: lo cerca quando è giovane e rimane orfano; lo cerca quando trova l'amore; lo cerca quando una tragedia segna la sua vita; e lo cerca quando, ormai anziano, smette di fare il lavoro che ha fatto per tutta una vita, quello di taglialegna. Alla fine lo trova, e scopre che era stato davanti a lui fin dall'inizio. La storia di Robert è quella di un viaggio interiore, che lo porta a conoscere se stesso e a riconoscere il suo ruolo nel mondo. Joel Edgerton è straordinario nel ruolo del protagonista, e offre un'interpretazione perfettamente intonata al tema del film: il suo Robert è fatto di silenzi, preferisce ascoltare al parlare, e ha occhi che parlano, scrutano, cercano.

La storia di Train Dreams però non è solo quella di Robert: è anche quella delle persone che incontra sul suo percorso, dal suo mentore nel mondo dei taglialegna (un meraviglioso William H. Macy), di sua moglie (Felicity Jones, sempre ottima), di una donna di cui sfiora la vita quando ormai è in là con gli anni (Kerry Condon in un cameo breve ma emotivamente potentissimo). C'è, soprattutto, la natura, i boschi che Robert taglia per vivere ma che al tempo stesso costituiscono il teatro della sua vita, il luogo in cui vive gioie e dolori, in cui nascono i suoi ricordi più belli e i suoi rimorsi più atroci, e in cui scopre lentamente se stesso. L'immensità e la stordente bellezza della natura, così come la sua devastante furia, vengono raccontate con una fotografia calda, struggente, che vive di luce naturale e la restituisce allo spettatore con la potenza evocativa di un'alba, di un tramonto, riuscendo sempre a essere realistica e mai da cartolina.

Train Dreams ha tanti genitori, sia cinematografici che non. C'è Malick, il debito più evidente a livello visivo, ma c'è anche Truffaut; ci sono tutti i cantori delle vite semplici e degli Stati Uniti che cambiano senza cambiare, da Steinbeck a John Edward Williams; ci sono, soprattutto, i poeti del rapporto uomo-natura, Robert Frost e Walt Whitman, e la loro capacità di raccontare il mondo interiore evocando la sorprendente bellezza e durezza di quello isteriore.

Bentley realizza un film lirico ma in grado di intrattenere, evocativo ma realistico, universale ma in grado di raccontare alla perfezione i cambiamenti di una società. Train Dreams commuove per la sua semplicità, per la sua capacità di raccontare l'eccezionalità di una vita, di ogni vita, senza bisogno di spettacolarizzarla, ma concentrandosi proprio sull'ordinarietà, sulle piccole cose che tendiamo a dare per scontate, ma che al loro interno contengono moltitudini.

*****

Pier

The Smashing Machine (In pillole #35)

Imparare a perdere


Benny Safdie racconta la storia vera di Mark Kerr, lottatore di arti marziali miste, cui Dwayne Johnson presta volto e corpo, raccontandone la forza fisica e la fragilità emotiva. La prestazione di Johnson è il principale elemento di interesse in quello che, per il resto, è un solido film sportivo, molto tradizionale nell'impianto ma fotografato con un taglio semi-documentaristico che accresce l'impatto di alcune scene.

Il film ha il anche il pregio di non raccontare una classica parabola di caduta-redenzione-rinascita, ma quella di un'accettazione della sconfitta come parte della vita. Questa parabola è comunque presente grazie alle vicende di Mark Coleman, amico e collega di Kerr che invece la segue perfettamente. Safdie dà centralità alla storia di Coleman per far emergere per contrasto la particolarità di quella meno convenzionale di Kerr. 

Il risultato è un film che non brilla per originalità - visto il regista era forse lecito aspettarsi qualcosa di più - ma funziona a livello narrativo ed emotivo grazie a una solida e sorprendente prova del suo protagonista, messo al centro della vicenda senza spettacolarizzazione o tentativi di mimesi da actor studio, ma con un realismo che colpisce e contribuisce a costruire una morale non scontata su cosa significhi "vincere" nello sport e nella vita.

*** 1/2

Pier

sabato 22 novembre 2025

Frankenstein

Once upon a time...


Un equivoco che ricorre quando si pensa al cinema di Guillermo Del Toro è che sia un regista horror. In parte è vero: il regista messicano ha un grande gusto per l'orrore e sa girare scene che ricadono pienamente nel genere. Tuttavia, Del Toro andrebbe descritto più correttamente come un regista fantasy, e nello specifico un tessitore di fiabe moderne. Nei suoi film ci sono creature, mostri, elementi fantastici a non finire, ma l'orrore è quasi sempre interiore, spesso contrapposto a un orrore esteriore che nasconde però un cuore puro. Il mostro, la creatura fuori dall'ordinario è incompresa, perseguitata, ma sensibile, introspettiva. Uno stilema tipico della fiaba che ricorre in tutti i suoi lavori, da Il labirinto del fauno a Hellboy, e che trova la sua sublimazione ne La forma dell'acqua - non il suo film migliore, forse, ma quello più giusto da premiare con l'Oscar, in quanto perfetta summa della sua poetica.

Non sorprende quindi che anche questo adattamento di Frankestein abbia i toni della fiaba, del racconto fantastico più che del racconto ammonitore sui limiti della ragione e dell'ambizione, come probabilmente lo aveva inteso Mary Shalley. L'aspetto fiabesco è particolarmente evidente nella componente visiva, sontuosa e oltremondana, molto debitrice di uno dei lavori meno conosciuti di Del Toro, Crimson Peak, e che regala un mix steampunk di impossibile e scientifico, di magia e meccanica. Il laboratorio di Viktor è forse l'highlight della scenografia, mentre a livello fotografico spiccano le scene nell'Artico, quelle in cui Del Toro concede di più all'horror (ci sono eco evidenti di Poe nella nave bloccata nei ghiacci) ma senza mai scivolarci davvero.

Anche in Frankestein ricorrono tutte le corde del cinema di Del Toro: dall'umanità del mostro alla mostruosità dell'uomo, passando per la ricerca dell'amore e della connessione. Ed è proprio a livello tematico, infatti, che il film parzialmente delude: a differenza del Dracula di Coppola non rivoluziona un mito già esplorato infinite volte dalla cinematografia, e anzi riprende toni e situazioni già viste sia in altri adattamenti (il mostro è molto debitore dell'incarnazione vista in Penny Dreadful, una delle migliori serie TV, di genere e non, degli ultimi dieci anni), sia in altri lavori di Del Toro. Forse era inevitabile, visto che questo mito ha, per sua stessa dichiarazione, formato la poetica deltoriana. E, in fondo, le fiabe sono spesso ripetitive, costruite su archetipi e lezioni morali che ritornano di continuo.

Rimane però la sensazione che si potesse fare di più, trovare chiavi nuove (come Del Toro aveva fatto, con efficacia, ne La forma dell'acqua), chiavi che qui sono invece assenti, con due notevoli eccezioni. La prima è uno spunto tolkieniano su come la morte sia un dono e non una maledizione da cui fuggire: la creatura è qui immortale, e da qui deriva il suo tormento, la sua disperazione all'essere condannato a un'eternità di solitudine. La seconda è la caratterizzazione di Viktor, che diviene perfetta incarnazione della mascolinità tossica. Elizabeth non è più l'amata dello scienziato, ma il suo desiderio proibito, il capriccio di un bambino mai veramente cresciuto: Viktor beve solo latte durante il film, e Mia Goth interpreta sia Elizabeth che sua madre. 

Cosa resta, dunque, di questo Frankenstein? Resta un film comunque in grado di intrattenere grazie all'inventiva visiva di Del Toro e alla splendida prova del cast, con Oscar Isaac mostro-creatore, Elordi mostruosamente bello e dolente, e una Mia Goth ambigua e carismatica. Frankenstein è come un dolce ben confezionato che però non riesce a stupire, un tentativo di rivistare il tiramisu che però finisce semplicemente per presentare in modo diverso e visivamente accattivante gli ingredienti: lo si mangia volentieri, ma poi, visto il cuoco, è inevitabile pensare che era lecito aspettarsi di più.

*** 1/2

Pier

sabato 25 ottobre 2025

Bugonia

La morte dell'umanità


In Matrix, uscito nel 1999, l’agente Smith definiva gli esseri umani dei parassiti, una specie capace solo di sfruttare il proprio ospite fino a portarlo alla morte. Se questo punto di vista sembrava allora eccessivamente cinico, oggi ci ritroviamo di fronte alla sua inconfutabile verità. Consumiamo più risorse di quante la Terra possa produrne, specie animali si estinguono a causa nostra, e guerre pretestuose mirano ad annichilire interi popoli. Il pianeta è in fiamme, e i piromani siamo noi.

Su questa premessa si fonda anche Bugonia, il nuovo film di Yorgos Lanthimos, remake di un film coreano del 2003, Save the Green Planet!. Bugonia è un film cinico, in cui anche le corse in bici di spielberghiana memoria perdono ogni fascino e divengono lame taglienti e disperate. Un film che unisce il Lanthimos degli esordi a quello “hollywoodiano”, trovando una sintesi cupa e disperata ma anche deliziosamente grottesca, che riesce a fondere sperimentazione e linearità narrativa. Lanthimos sviscera la stupidità umana in tutte le sue forme: dall’incapacità di non cedere ai propri impulsi primari alla totale mancanza di spirito critico; dalla bellicosità alla totale noncuranza per le altre creature che abitano il pianeta con noi, passando per il progressivo asservimento alla logica del profitto a tutti i costi.

La genialità di Lanthimos sta nel fatto che, a differenza di altre film con tematiche simili, non c’è un paladino del bene che si batte contro un’umanità cieca e corrotta. Tutti i protagonisti sono portatori sia di idee positive, sia di deliri autodistruttivi che spaziano da quello di onnipotenza a una credulità e irresponsabilità bambinesca. Tutti i protagonisti, tuttavia, credono di essere i paladini del bene. La totale incapacità di accettare le proprie colpe, la certezza incrollabile di essere nel giusto anche di fronte all’evidenza del contrario, la necessità di dover trovare un nemico, un colpevole per le proprie sofferenze guidano sia Teddy che Michelle, per quanto siano animati da motivazioni diametralmente opposte.

In Bugonia non c’è nemmeno la catarsi tipica della tragedia greca (una delle grandi ispirazioni del cinema di Lanthimos), quantomeno per i suoi protagonisti: la cecità li porta all’autodistruzione senza nemmeno rendersene conto, e solo un deus ex machina può evitare che questa distruzione si estenda anche al pianeta. Non c’è pentimento, non c’è redenzione: solo una spirale di follia. Il reale e il fantastico si inseguono per tutto il film, in un gioco di disvelazioni che, alla fine, non ha vincitori, e che mette in dubbio il concetto stesso di reale.

Questo aspetto si riflette anche nell’aspetto visivo, dove Lanthimos sceglie una fotografia realistica costellata di momenti surreali e alieni, creando un senso di straniamento che rispecchia e rinforza la tensione narrativa. Ad aiutarlo contribuiscono anche le prove eccezionali di Jesse Plemons, concentrato di fragilità, effetto Dunning-Kruger, e sadismo, e Emma Stone, affascinante e respingente al tempo stesso, e manipolatrice come solo un’aliena o un’amministratice delegata di Big Pharma potrebbero essere.

Bugonia è un film ipnotico, che si nutre di opposti: una tragedia in cui si ride, un film senza speranza che mira a risvegliare le coscienze, una storia in cui il villain non è nessuno e, al tempo stesso, siamo tutti noi, con un finale che pietrifica e, al tempo stesso, lascia con un senso di giustizia compiuta. Lanthimos realizza un’opera che entra dentro il cuore e l’anima e li diliania lentamente, lasciando dietro di sé solo silenzio – un silenzio che, forse, rappresenta un nuovo inizio.

**** 1/2

Pier

Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

giovedì 23 ottobre 2025

After the Hunt

Bulimia autoriale


Alma Himoff insegna Filosofia a Yale, dove sta per ottenere la tanto attesa cattedra. È stimata da tutti, ma ha dei segreti: un problema di salute di cui non parla con nessuno, e un passato che sembra infestare i suoi ricordi. Una notte, la sua dottoranda, Maggie, si presenta a casa sua raccontandole di essere stata molestata da Hank, un altro docente. A questo punto, Alma si trova in preda a un dilemma etico: credere alla sua studentessa, o concedere il beneficio del dubbio al suo collega. 

Esiste un problema di bulimia artistica? Può un regista finire per divorare se stesso? Possono troppi film in poco tempo danneggiare l'ispirazione? La risposta varia varia da regista a regista (Woody Allen ha fatto un film all'anno per molti anni la varianza era tra "gradevole" e "grandissimo film"), ma è evidente che, per la maggior parte, la risposta è "sì": Terrence Malick, per dirne uno, ha pagato il suo unico periodo di iperprolificità con i suoi film peggiori o comunque meno ispirati. 

Nella trappola sembra essere ora finito anche Luca Guadagnino, al suo terzo film negli ultimi tre anni, quarto negli ultimi quattro: e non è un caso che quello che è di gran lunga il migliore sia il primo di questo tour de force autoimposto, Bones and all; e che quello meno salvabile sia proprio questo After the Hunt, in cui il regista ha poche idee e pure confuse.

Per correttezza va evidenziato che il problema principale risiede nella sceneggiatura di Nora Garrett, che vuol fare The social network ma senza avere il senso della narrazione e la brillantezza dei dialoghi di Aaron Sorkin. L'idea sarebbe di fare un thriller psicologico del quotidiano, un racconto sulla banalità e ambiguità del male sulla cifra di quello perfettamente realizzato dal connubio Fincher-Sorkin. Il risultato è una storia sfilacciata e inconcludente a livello sia tematico che narrativo, con dialoghi pomposi e verbosi. In The social network la tensione si tagliava con il coltello, la freddezza entrava nelle ossa: qui la tensione è inesistente, la freddezza è solo forma senza sostanza, e il coltello vorrebbero averlo gli spettatori.

Quella che dovrebbe essere una riflessione su un tema etico importante e attualissimo (quello della tensione tra credere alle vittime e il principio giuridico della presunzione di innocenza) risulta solo un esercizio retorico poco stratificato, che offre solo pochi spunti di riflessione. La tensione è quasi del tutto assente, e arriva solo grazie alla buona prova di Julia Roberts e alle musiche (bellissime, anche se spesso fuori posto) di Reznor e Ross. 

Guadagnino dona al film i suoi momenti più interessanti grazie a una regia claustrofobica e un'ottima direzione degli attori, ma a volte aggiunge problemi, anziché risolverne, soprattutto quando si perde in inquadrature inspiegabili (lunghi momenti fuori fuoco, la camera a mano, la fissazione per le mani). Questi momenti sembrano puro esercizio di stile, l'espressione di un desiderio hitchockiano di restituire lo sguardo dei personaggi che però non ha alcuna connessione con il tessuto narrativo. Il "ricciolo" di Vertigo era collegato alla trama, funzionale al racconto: Guadagnino qui pare esserselo dimenticato, perso in un vortice di mani e mal di mare (dello spettatore).

After the Hunt è un film democristiano nel senso più deteriore del termine, che sembra guidato da un desiderio furbetto di essere anti-anticonformista più che dall'avere un messaggio da comunicare. Il film si fa paladino del "non si può più dire niente" e critica i giovani mollaccioni, ma poi scivola spesso e volentieri in quella che sembra una parodia dei boomer degna di quelle che si trovano sui social media. 

In breve si può dire che After the Hunt è un film pavido, sfiatato, che non ha il coraggio di prendere posizione nè riesce a far passare l'ambiguità tematica di cui vorrebbe, forse, farsi portatore, e anzi finisce per divorarla, come Crono con i propri figli. Al paziente-regista il medico prescrive un rewatch del lavoro di Sorkin e riposo, tanto riposo.

** 1/2

Pier

lunedì 29 settembre 2025

Una Battaglia Dopo l'Altra

L'urlo e il furore

It is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing.
William Shakespare, Macbeth


In un presente distopico, Bob Ferguson, entra a far parte dell'organizzazione rivoluzionaria French 75. Dopo essersi ritirato, Bob si occupa a tempo pieno di Willa, figlia sua e di Perfidia, sua compagna di rivoluzione. Il passato, tuttavia, si presenta a chiedere il conto nella forma del colonnello Lockjaw, già sua nemesi in passato, deciso a eliminare Willa per motivi oscuri a Bob.

Realizzare un film come Una battaglia dopo l'altra subito dopo Licorice pizza sembra l'ennesima testimonianza dell'eclettismo di Paul Thomas Anderson, che passa da un coming of age a un film sulla rivoluzione armata, quasi tarantiniano per gusto espressivo, di personaggi, e umoristico. Tuttavia, i due film sono più simili di quanto sembri: sono due film cinetici, sempre in movimento, in cui si corre a perdifiato da una parte all'altra, con al centro una relazione, due persone che vogliono solo stare insieme ma che agenti esterni si ostinano a voler separare. Sullo sfondo, una crisi inesorabile - quella petrolifera in Licorice pizza, quella dell'immigrazione in Una battaglia dopo l'altra - che è specchio di una crisi più ampia, quella della società statunitense (e non solo).

Anche il ritmo dei due film è identico, una sonata jazz fatta di continui cambi di ritmo, imprevedibile nella sua capacità di cambiare pelle, scartare di lato, cambiare prospettiva. Laddove Licorice pizza era un film solare, tuttavia, Una battaglia dopo l'altra è una sonata cupa, dove la speranza è ridotta al lumicino e il Male divora principi e valori e mettendo tutti contro tutti, in una guerra fratricida dove "il più forte dovrà infine tra tutti trionfar". Il Male, incarnato dal colonnello Lockjaw, da ICE, e da un movimento suprematista devoto al Natale e a San Nicola, non dà tregua, come il T-1000 di Terminator 2 (una saga che Anderson sembra voler esplicitamente citare), e ai combattenti non restano che due scelte: arrendersi e tradire i propri ideali, oppure una fuga per continuare la battaglia in tempi migliori.

Il primo atto è un inno alla ribellione, un inno fatto di urla, bombe e furore, ma anche di amore, passione carnale, solidarietà e valori. Il furore, tuttavia, si spegne sotto una pioggia malsana che si fa inondazione, e che vuole stroncare ogni ideale rivoluzionario, renderlo senza significato, la "storia raccontata da un idiota" del Macbeth: alcuni cedono, alcuni scompaiono, ma alcuni continuano a combattere, per scelta o mancanza di alternative. 

L'urlo continua, sopito ma non soffocato, e ci porta nel secondo atto, quello più indebitato a Tarantino ma anche a David Lynch, una fuga continua e allucinata fatta di ninja che sfrecciano in skateboard, parole d'ordine dimenticate, e sensei latini che salvano immigrati irregolari. Surreale e reale si sovrappongono e divengono tutt'uno, ciò che accade supera in inverosimilità ciò che immaginiamo o alluciniamo, la battaglia infuria dentro e fuori di noi.
Il terzo atto è quello leggermente meno riuscito, causa alcune lungaggini forse evitabili, ma ci regala una sequenza di inseguimento da antologia, un mix tra il primo Mad Max e un western crepuscolare alla Sam Peckinpah, in cui ogni onore viene abbandonato e l'unica cosa che conta è sopravvivere, continuare a correre.

Anderson dipinge il film con pennellate rabbiose, pastose, lunghi piani sequenza insistenti, asfissianti, che si inseguono senza soluzioni di continuità: ogni stacco di montaggio è un respiro profondo prima di immergersi nuovamente nell'azione, in apnea, incalzati e inseguiti dal passato che vuole chiudere i conti, dal presente che vuole riaprirli, e da un futuro che si preannuncia pieno di urla, furore e sangue. Jonny Greenwood, chitarrista dei Radiohead, già compositore della colonna sonora de Il filo nascostocostruisce un perfetto riflesso musicale della storia narrata, una serie di melodie rapsodiche, sincopate, che accompagnano ogni scena con un'insistenza quasi sfinente.

Il cast è perfetto, da un Di Caprio travolto dalla vita ma deciso a sopravvivere a un Benicio Del Toro sornione e imperturbabile, che ricorda il personaggio di Brad Pitt in C'era una volta a Hollywood per coolness esibita al minuto. A brillare, tuttavia, sono soprattutto le protagoniste femminili: Teyana Taylor, che esprime un desiderio di vita e giustizia quasi animale con la sua perfidia, e la giovane Chase Infiniti, una forza della natura che non accetta di scomparire e di essere messa a tacere: scalcia, combatte, sopravvive, incarnazione vivente della battaglia del titolo, della lotta che continua. E poi, c'è lui, il Male, il colonnello Lockjaw di Sean Penn: un villain da antologia, fragile e violento, magnetico e buffo, incarnazione perfetta della banalità del Male, della crudeltà profonda di chi si crede protagonista ma dentro di sé sa di essere destinato a rimanere sullo sfondo, e dà così sfogo a una rabbia nichilista che tutto travolge, tutto divora.

Una battaglia dopo l'altra è un ritratto spietato dell'umanità, tratteggiata nei suoi tratti più ridicoli e più spaventosi, più nobili e più perversi, una melodia cangiante che si fa ora cacofonica, ora armonica, con due temi che si inseguono e non possono esistere l'uno senza l'altro: da un lato l'incedere devastante e inesorabile del Male, dall'altro chi prova a resistere, fuggendo, nascondendosi, ma tenendo sempre viva la fiamma di un fuoco ribelle che non accenna a spegnersi e continua a far divampare la speranza. E la battaglia continua.

**** 1/2

Pier