domenica 31 agosto 2025

Telegrammi da Venezia 2025 - #3

Terzo telegramma da Venezia, tra mostri creatori e umani creati, Napoli e il sottosuolo, manager d'hotel sconnessi, e gocce di poesia famigliare.


Frankenstein (Concorso), voto 7.5. Del Toro adatta la storia di Frankenstein toccando tutte le corde ricorrenti nel suo cinema: dall'umanità del mostro alla mostruosità dell'uomo, passando per la ricerca dell'amore e della connessione. Visivamente sontuoso (il laboratorio di Viktor è splendido, così come le scene nell'Artico), a livello tematico non rivoluziona un mito già esplorato più volte dalla cinematografia, riprendendo toni e situazioni già viste sia in altri adattamenti (il mostro è molto debitore dell'incarnazione vista in Penny Dreadful), sia in altri lavori di Del Toro. Forse era inevitabile, visto che questo mito ha formato la poetica deltoriana, e ha finito quindi per permearne l'opera. Rimane però la sensazione che si potesse fare di più, trovare chiavi nuove che qui sono invece assenti, fatta eccezione per uno spunto tolkieniano su come la morte sia un dono e non una maledizione da cui fuggire (la creatura è qui immortale) e un Viktor che è l'incarnazione della mascolinità tossica, con Elizabeth che diviene da amata desiderio proibito e capriccio di un bambino mai veramente cresciuto (Viktor beve solo latte durante il film). Splendida prova del cast, con Oscar Isaac mostro-creatore, Elordi dolente quanto basta, e Mia Goth ambigua e carismatica, cuore emotivo del film.

Sotto le Nuvole (Concorso), voto 6.5. Gianfranco Rosi torna sulle note di Sacro GRA, il documentario che gli valse il Leone d'oro nel 2013. Questa volta la protagonista è Napoli, e in particolare il suo rapporto con il sottosuolo, dalla Napoli sotterranea ai terremoti causati dai Campi Flegrei e dal Vesuvio. Il suo approccio al documentario come commedia umana mostra però la corda, alternando racconti molto riusciti (il centralino dei pompieri meriterebbe un film dedicato) ad altri meno efficaci (la parte archeologica risulta, alla lunga, ripetitiva), oltre a indugiare troppo in inquadrature "a effetto" che soddisfano la vista ma appesantiscono la narrazione.

The Souffleur (Orizzonti), voto 4. Una storia potenzialmente interessante (il manager di un hotel cerca disperatamente di evitarne la chiusura) viene raccontata in maniera non lineare, per suggestioni: il gioco potrebbe anche funzionare (è la cifra stilistica di Lynch), ma qui deraglia miseramente, risultando del tutto disconnesso. Si salvano solo la breve durata (meno di 90', un miracolo di questi tempi) e un Willem Dafoe piacevolmente gigione.

Father Mother Sister Brother (Concorso), voto 8.5. Il film del cuore del Concorso finora, anche se meno ambizioso di altri visti fin qui. Jarmush realizza un film sull'essere famiglia attraverso tre episodi disconnessi narrativamente ma fortemente interconnessi a livello tematico ed emotivo, come i movimenti di una sonata. Delicato e fragile come un fiore, ma con radici che affondano profonde, scavando nell'anima. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Pier

sabato 30 agosto 2025

Telegrammi da Venezia 2025 - #2

Secondo telegramma da Venezia, tra thriller sociali maldestri, commedie nere attualissime, racconti della precarietà, e criminali che si trovano costretti a far riunire i Beatles.


After the Hunt (Fuori Concorso), voto 5. Guadagnino torna alla Mostra con un film pasticciato, soprattutto a causa della sceneggiatura di Nora Garrett, sfilacciata e inconcludente a livello sia tematico che narrativo. L'idea sarebbe di fare un thriller psicologico, il risultato è una riflessione su un tema etico importante e attuale (quello del consenso) che vorrebbe essere stratificata ma risulta ahinoi inconcludente, pur dando qualche spunto di riflessione. La tensione è quasi del tutto assente, e arriva solo grazie alla buona prova di Julia Roberts e alle musiche (bellissime, anche se spesso fuori posto) di Reznor e Ross. Guadagnino dona al film i suoi momenti più interessanti grazie a una regia claustrofobica e un'ottima direzione degli attori, ma a volte si perde in inquadrature inspiegabili (lunghi momenti fuori fuoco, la fissazione per le mani) che sembrano puro esercizio di stile, l'espressione di un desiderio hitchockiano di restituire lo sguardo dei personaggi che però non ha alcuna connessione con il tessuto narrativo. Il "ricciolo" di Vertigo era collegato alla trama, funzionale al racconto: Guadagnino pare esserselo dimenticato.

No Other Choice (Concorso), voto 9. Park Chan-wook torna tre anni dopo Decision to Leave con una commedia nera, nerissima su come il capitalismo corrompa anche l'animo più nobile, fagocitando i suoi fedeli servitori e spingendoli a una guerra tra poveri svilente e piena di disperazione. La storia di un uomo che perde il lavoro dopo 25 anni si innesta nella tradizione "politica" che sembra aver trovato forte linfa nel cinema coreano (si pensi a Parasite, ma anche a Squid Game), ma con un approccio disincantato e cinico che lo rende sia satira che critica sociale - un taglio che sarebbe piaciuto a Elio Petri. Park dipinge con la macchina da presa (pochi registi usano la luce come la usa lui), alternando momenti poetici ad altri grotteschi con una fluidità di ripresa e montaggio che fa sì che il film risulti omogeneo e coeso nonostante i continui cambi tonali. Due scene "musicali" sono da applausi a scena aperta.

À pied d'œuvre - At Work (Concorso), voto 6.5. Valérie Donzelli racconta il precariato artistico, mettendolo in relazione al fenomeno della gig economy, e a come abbia trasformato i lavoratori nei peggiori nemici di se stessi (e migliori amici delle grandi aziende). Il film non brilla per originalità ma funziona a livello sia "politico" che emotivo, e Donzelli firma una regia "invisibile", capace di virtuosismi ma senza esibiziosmi.

The Last Viking (Fuori Concorso), voto 7.5. Dalla Danimarca arriva una bella commedia drammatica con il gusto dell'assurdo, in cui un criminale appena uscito di prigione ha bisogno del fratello malato di mente per ritrovare il bottino nascosto anni prima. Il fratello, tuttavia, è ora convinto di essere John Lennon, e per aiutarlo a ricordare si troverà a dover riunire i Beatles. Questa traccia leggera si mescola a tematiche pesanti come l'esplorazione di drammi personali, la rimozione del trauma, il concetto di identità, la malattia mentale, nonché alcune esplosioni di violenza ai limti del pulp. Si ride, ci si emoziona, e non ci si annoia mai in un film che unisce molteplici generi (ci sono anche dei begli spezzoni in animazione) e che viene esaltato dall'ottima prova del cast, capitanato da Mads Mikkelsen/John Lennon e Kardo Razzazi, uomo dalle multiple personalità, che si crede sia Paul McCartney che George Harrison.

Pier

giovedì 28 agosto 2025

Telegrammi da Venezia 2025 - #1

Come ogni anno, Film Ora è a Venezia, e vi accompagnerà per tutta la Mostra del Cinema con i suoi telegrammi: brevi recensioni dei film visti nelle varie sezioni. Una Mostra con tantissimi titoli interessanti, che vede il ritorno dietro la macchina da presa di grandi registi (Kathryn Bigelow, Gus Van Sant) che non si vedevano da tempo, oltre che molti graditi abitué (Jim Jarmush, Paolo Sorrentino, Guillermo Del Toro). Una mostra che promette bene, quindi, anche se non mancheranno le inevitabili delusioni.


Ecco i film visti nel primo giorno e mezzo di Mostra:

La Grazia (Concorso), voto 7.5. Dopo averne messo alla berlina gli eccessi e i crimini, Sorrentino torna a raccontare la politica, ma questa volta si occupa della politica "alta", che si occupa con responsabilità di tematiche spinose e pungenti. Questo non significa, tuttavia, che rinunci a raccontare l'umanità e la fallibilità dei personaggi: il Presidente De Santis di Servillo è un uomo dignitoso che vive nella paura di non esserlo, e che per questo sta lentamente perdendo amore per la vita, intrappolato in una rete di sua costruzione. Sorrentino offre non più uno sguardo alla morte incombente che si nasconde in agguato dietro una vitalità esibita ma di facciata, ma la vita che cerca di farsi strada, una pianta che cerca di rifiorire in un terreno arido e bruciato. Non passerà alla storia come il suo film migliore, ma offre molti spunti emotivi ed etici di grande impatto, nonostante qualche sbrodolata evitabile. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Ghost Elephants (Fuori Concorso), voto 8. Werner Herzog si addentra negli inaccessibili altipiani dell'Angola per scoprire gli sfuggenti discendenti del più grande elefante mai catturato. La sua è una storia di resilienza e bellezza, ma anche di come la crudeltà umana abbia spinto sull'orlo dell'estinzione queste nobili creature, e di come popolazioni che amiamo considerare "arretrate" abbiano in realtà un rapporto con la natura da cui potremmo imparare molto.

Il Rapimento di Arabella (Orizzonti), voto 7. Carolina Cavalli realizza un'opera seconda sulle stesse note dell'assurdo di Amanda, la sua opera prima, ma con influenze ulteriori che spaziano da Lynch a Thelma & Louise. La storia di un'adulta che vuole tornare bambina, viaggiare nel tempo per riparare agli errori fatti, convince e conquista, grazie anche all'ottima prova delle protagoniste e alla capacità di Cavalli di creare dei "non-luoghi" narrativi, sospesi tra l'Italia e gli USA.

Bugonia (Concorso), voto 9. Lanthimos trova una perfetta sintesi tra il suo cinema degli esordi e il suo periodo hollywoodiano, realizzando un'opera (remake di un film coreano del 2003) ipnotica, ironica e disperata, che si nutre di opposti: una tragedia in cui si ride, un film senza speranza che mira a risvegliare le coscienze, una storia in cui il villain non è nessuno e, al tempo stesso, siamo tutti noi, con un finale che pietrifica e, al tempo stesso, lascia con un senso di giustizia compiuta. Qui la recensione completa scritta per Nonsolocinema.

Jay Kelly (Concorso), voto 6.5. Baumbach firma un film malinconico, in cui un attore si ritrova a fine carriera con una vita personale disastrata e la sensazione di non aver fatto nulla della sua vita. Il film funziona, nonostante la lunghezza eccessiva e alcuni stereotipi culturali (sull'Italia in primis) un po' datati, e farà breccia nel cuore del pubblico. Tuttavia, il merito non è tanto della scrittura di Baumbach, efficace ma molto meno brillante del solito, quanto di un George Clooney che unisce alla perfezione la sua anima gigiona e quella drammatica.

Pier

mercoledì 27 agosto 2025

Weapons

Sgretolare una comunità


Non è un segreto che oggi l'horror sia diventato un genere che ama affrontare tematiche sociali. Forse lo era sempre stato, ma da Get Out! in poi il numero di film dai forti connotati sociologici e, spesso, politici è esploso. Weapons, opera seconda di Zach Cregger, non fa eccezione. La trama sarebbe riassumibile come "qualcosa di malvagio e misterioso si infiltra in una comunità già frammentata e la distrugge definitivamente, usando le persone come armi contro chi cerca di ostacolare i suoi piani": se suona come la realtà in cui ci troviamo a vivere, soprattutto negli USA, non è un caso. 

Weapons è un film sulla manipolazione, che qui avviene per via magica anziché mediatica, e di come questa possa portare intere comunità a uno stato di guerra permanente, tutti contro tutti. Il Male, alla fine, può essere sconfitto, ma la ferita che ha lasciato faticherà a guarire, e forse non guarirà mai. Garner dipana la trama lentamente, senza fretta, cambiando i punti di vista per disvelare gli effetti tossici del Male, che scava, distrugge, corrompe, sfrutta le debolezze e i traumi già esistenti per insinuarsi e mettere radici. Se da un lato questo espediente rende la narrazione troppo spezzettata e, alla lunga, un po' ripetitiva (l'inizio è decisamente più efficace della parte centrale), dall'altro riesce a restituire l'anima frammentata del paese in cui si svolge la vicenda, epitome degli Stati Uniti e del mondo intero: un paese già "rotto", e per questo fragile quando il Male si presenta a bussare alla sua porta. 

La frammentazione narrativa evidenzia alla perfezione come questo avvenga grazie al fatto che i protagonisti sono isolati, non si parlano tra loro, spesso non si conoscono nemmeno, e di sicuro non si fidano. Garner usa uno dei tropoi più pigri dell'horror e del thriller (la non-comunicazione di informazioni fondamentali tra i protagonisti), e lo vira a suo favore, rendendolo parte integrante del messaggio.

Il film è fotografato con maestria, e molti dei momenti migliori sono puramente visivi, a cominciare dall'immagine efficacissima e inquietante che campeggia sui materiali promozionali. Garner ha grande senso dell'inquadratura e dell'atmosfera, e con questo compensa ciò che gli difetta in ritmo e costruzione del crescendo narrativo. Weapons è un film ricco di suggestioni visive che parlano più di mille parole, dalla "zombificazione" di chi cade preda del male alle inquadrature che evidenziano la desolazione e la solitudine dei protagonisti (magistrale, in tal senso, quella in cui vediamo la maestra di Julia Garner rispondere a un misterioso scampanellio notturno).

Weapons non passerà alla storia, ma è un horror solido, teso, e con un messaggio chiaro e forte che non appesantisce la narrazione. Anche se è indubbio che le continue "ripartenze" della storia, con cambio del punto di vista, siano funzionali alle intenzioni del regista, non si può non notare che un cambio di struttura e ritmo (anche non radicale come quello di Parasite o de I Peccatori) avrebbe giovato al film in termini sia di narrazione che di creatività. Resta comunque un'ottima opera seconda, che promette bene per il prosieguo di Cregger all'interno di un genere che è oggi forse il più vitale e innovativo del panorma hollywoodiano.

*** 1/2

Pier