martedì 29 ottobre 2024

Il Robot Selvaggio

Poesia nazionalpopolare


Precipitato dal cielo su un'isola, un robot viene attivato per caso dalla fauna locale. Programmato per essere d'aiuto, cercherà un compito da eseguire, fino a trovarlo, dopo un tragico incidente, nell'allevare un pulcino di oca, rendendolo pronto per una vita fatta di migrazioni e predatori. 

Si alza un po' il sopracciglio, a leggere le sperticate lodi di cui tutti o quasi stanno ricoprendo Il robot selvaggio, ultima fatica di casa Dreamworks. Il film è indubbiamente molto meritevole dal punto di vista artistico, nonché il secondo migliore - dietro al recente sequel de Il gatto con gli stivali (se non lo avete visto, recuperatelo) - sfornato dalla casa del Bambino sulla Luna dai tempi dell'ingiustamente sottovalutato Le cinque leggende. Finalmente obbligata (grazie allo SpiderVerse) dall'obbligo (autoimposto) decennale del fotorealismo, l'animazione statunitense sembra rinata, esplorando quell'ibridazione di stile e tecniche introdotto dalla Disney con il corto Paperman e portato al successo critico e commerciale dagli SpiderVerse, appunto, ma anche da lavori come Nimona e Arcane, oltre che da alcuni recenti prodotti sia Disney che Pixar

Chris Sanders, il regista, ha il grande merito di non copiare i predecessori, ma di ricercare uno stile personale, quasi impressionistico nella rappresentazione dei paesaggi, delle ombreggiature, e delle pellicce degli animali. Se l'effetto su questi ultimi può dividere, risultando a tratti un po' artefatto, su paesaggi e rapporto luci-ombre Sanders fa decisamente centro, regalando agli spettatori alcune delle sequenze visivamente più mozzafiato degli ultimi anni: veri e propri quadri in movimento, in cui lo spettatore resta a bocca aperta di fronte alle meraviglie della natura.

A essere meno riuscita è, tuttavia, un aspetto che storicamente era un punto di forza di casa DreamWorks, ovvero la storia. La narrazione procede a salti, senza un reale arco narrativo, con personaggi che cambiano "perché sì" e alcuni momenti raccontati con troppa fretta e approssimazione. La tensione è del tutto assente anche quando dovrebbe esistere, dato che abbiamo visto il contrasto che dovrebbe guidarla risolversi quasi subito nei fatti, anche se non a parole. 

Qualcuno potrebbe, a ragione, obiettare che la forza nel film dovrebbe essere nelle tematiche raccontate - genitorialità ed ecologismo - e non nella storia narrata. Dovrebbe, appunto. Al netto del fatto che le stesse tematiche sono già state affrontate in uno dei film più ingiustamente bistrattati della Pixar, Il viaggio di Arlo, ambedue le tematiche non sono approfondite quanto dovrebbero, una in particolare.

Il racconto sulla genitorialità è semplice, forse troppo, ma quantomeno efficace e molto centrato, soprattutto di questi tempi, e crea anche alcuni dei momenti di commozione del film. Quello che non convince è il discorso ecologista, davvero troppo semplicista per funzionare con il "secondo target" di questo film, ovvero gli adulti. Mancano la profondità e la capacità di accettare anche gli aspetti meno "pucciosi" della natura (l'esistenza di predati e predatori) che è invece presente nei lavori del maestro del genere, Hayao Miyazaki - sia nei suoi classici, come Principessa Mononoke, sia in lavori più recenti come Il ragazzo e l'airone. Anche il già menzionato Il viaggio di Arlo presentava una natura più realistica, madre e matrigna insieme. Sanders, forse rimanendo troppo ancorato dal romanzo da cui il film è tratto, offre quindi una ricetta rassicurante ma troppo, troppo semplicistico, in cui l'armonia deriva da un sovvertimento impossibile dell'ordine naturale.

Cosa rimane, quindi, di questo Robot selvaggio? Rimane una bella fiaba per bambini, e solo per bambini, con immagini creative e splendide che da sole bastano, nonostante le pecche narrative, a piazzare il film tra i favoriti per l'Oscar per la miglior animazione. Rimane però anche una sensazione di occasione persa, perché sarebbe bastata una maggiore attenzione narrativa per poter parlare a tutti i tipi di pubblico e urlare, con ragione, al capolavoro.

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Pier

mercoledì 2 ottobre 2024

Joker: Folie à Deux

Danzare con il diavolo nel pallido plenilunio

 

Dopo gli eventi di Joker, Arthur Fleck è rinchiuso ad Arkham in attesa del processo. Un giorno conosce un’altra paziente/detenuta, Harleen “Lee” Quinzel, che gli rivela di essere una grande ammiratrice delle sue gesta e del suo “vero io”, Joker. Tra i due inizia una “follia a due”, una relazione sentimentale in equilibrio tra realtà e fantasia, fatta di numeri musicali intrisi di amore e violenza. 

Non si può certo dire che Todd Phillips manchi di coraggio. L’enorme successo di Joker era già una montagna altissima da scalare, roba da far tremare i polsi di registi più scafati e abituati al cinema d’autore. Phillips non solo non si scompone, ma rilancia, realizzando un musical psicoanalitico a tinte dark, uno splendido ibrido di generi che ci porta ancora una volta a esplorare la mente di Arthur Fleck, questa volta abitata non solo da depressione, inadeguatezza, e folle desiderio di rivalsa, ma anche dall’amore. Un amore vero, non come quello immaginario vissuto nel primo film – o almeno così sembrerebbe. Lee è innamorata di lui, lo bacia, lo loda, gli si concede, lo supporta nel suo processo, spingendolo ad abbandonare la tesi difensiva della malattia mentale per abbracciare finalmente la sua nuova identità: il volitivo, carismatico, violento Joker, anziché il timido, patetico, sottomesso Arthur. Ma è questo quello che vuole davvero Arthur? O sta solo, ancora una volta, cercando disperatamente qualcuno che lo ami?

Se il tema del primo film era raccontare le origini della follia e della violenza, ricercandone le radici nelle umiliazioni e nella sperequazione sociale, in questo film Phillips riparte dal finale di Joker: dalle rivolte che parevano fumettistiche, ma si sono rivelate tristemente reali; e dal fatto che molti hanno visto in Joker/Arthur non come un simbolo di ciò che non funziona nella società, ma un esempio da seguire. Folie à Deux racconta proprio questo, il momento in cui una persona diventa un simbolo, un’idea, che prende vita propria indipendentemente da ciò che pensa e fa chi le ha dato vita.


Laddove Joker racconta una follia individuale, il suo seguito ne racconta una collettiva e di coppia. Quello tra Arthur e Lee è un amore malato, che sconfina nell’idolatria, e rappresenta appieno il meccanismo perverso che fa sì che personaggi negativi diventino riferimenti, modelli da seguire. Arthur vorrebbe smettere di essere Joker, ma né Lee né la società glielo permettono: chi lo odia pensa che lui non possa cambiare, chi lo ama pensa che non debba vergognarsi di essere chi è. L’idea, ammonisce Phillips, sopravvive al suo portatore, e si gonfia, si deforma, diventa sempre più mostruosa. Magari scompare, per un periodo, ma poi torna, riemerge, più forte e spaventosa che mai. Folie à Deux parla del nostro quotidiano, in cui la celebre frase di Marx sembra essere stata sovvertita, con la storia che si ripete due volte, ma la seconda non è una farsa: è una tragedia ancora più cupa della prima.

Folie à Deux è un film cupo e privo di speranza, ma al tempo stesso guidato dalla speranza di essere amati, di trovare il proprio posto nel mondo. I numeri musicali riflettono questa natura ossimorica, ondeggiando tra la purezza dei sentimenti dei grandi musical hollywoodiani e l’oscurità che pervade la Gotham di Phillips. Le musiche sono solari, ma punteggiate di distorsioni; le luci sono brillanti, ma accompagnate da coreografie cupe e violente; la voce di Lee è perfetta, pulita, quella di Arthur sofferta, un sussurro di dolore che a volte si fa urlo. 

Lady Gaga offre la miglior prova attoriale della sua breve carriera nella recitazione (per onestà va anche detto che non aveva una grande montagna da scalare, per citare uno dei numeri musicali del film), mentre Phoenix è ancora una volta semplicemente strepitoso nel restituire la doppia natura di Arthur/Joker. Le sue doti canore e di ballerino sono una sorpresa, la sua capacità recitativa – a livello sia vocale che fisico – una garanzia. Il suo canto è straziante, una richiesta di aiuto che nessuno sente, il suo corpo lo specchio di una mente deformata, contorta, che vuole solo essere amata, anzi, non ambisce nemmeno a tanto: vuole solo essere vista, notata, considerata. C’è uno scambio con uno dei suoi ex colleghi clown, in tribunale, che racchiude in pochi minuti tutto il dramma di Arthur, tutto ciò che Phillips ha cercato di raccontare in questi due film, e in cui Phoenix offre uno dei tanti momenti emotivamente devastanti del film. 

Phillips osa anche nel finale, coraggioso, potente, inevitabile. Il regista non sceglie la strada facile, ma percorre fino in fondo la strada complessa, in salita, e arriva in cima alla montagna: all’orizzonte si vedono solo cenere e macerie, ma bisogna prima riconoscere il problema, a costo di passare per Cassandre, per poterlo risolvere. Folie à Deux ancora una volta usa il genere – anzi, i generi – per parlare dell’oggi, della realtà, e dei pericoli del futuro: vedremo se lo staremo a sentire, o se affonderemo, cantando e ballando mentre il mondo va in fiamme.

**** 1/2

Pier

Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.