Il silenzio là fuori
1932, Clarksdale, Mississippi. I due gemelli Smoke e Stack tornano a casa dopo essere stati in trincea e aver lavorato per la malavita di Chicago. Vogliono aprire un juke joint, un locale dove anche gli afroamericani liberati ma ancora vittime della segregazione possano divertirsi. Per farlo, assoldano il cugino Sammie, musicista prodigioso, e altri amici della comunità locale. La sera dell'inaugurazione, però, si presentano tre bianchi, ospiti inattesi.
Ryan Coogler ha un senso innato per l'intrattenimento impegnato. Da Black panther alla serie di Creed, Coogler ha dimostrato un'abilità molto rara: quella di creare film divertenti, intrattenenti, di genere, ma in grado anche di parlare di tematiche importanti come giustizia sociale e appropriazione culturale.
Non ci sarebbe dunque da sorprendersi per il fatto che ne I peccatori riesca a replicare questa operazione. Ciononostante, alla fine del film si rimane con la sensazione di aver assistito a un mezzo miracolo.
Perché in I peccatori Coogler non si limita ad amalgamare ingredienti complessi, ricavandone un risultato efficace e armonic: qui mischia mitologie, suggestioni, generi con una creatività impareggiabile, ricavando una miscela cangiante, originale, che sembra sempre sul punto di bruciare e invece inebria, seduce, fino a esplodere trionfalmente.
Il primo atto è uno spaccato sociologico della vita degli afroamericani durante il periodo delle leggi Jim Crow e della segregazione. Siamo nel cuore della terra del blues, ma ai bianchi il blues piace, chi lo suona no, come ricorda uno dei personaggi. Quello che vediamo non è però solo la storia di una discriminazione strisciante, meno esibita ma comunque presente e terribilmente viva, ma quella di una comunità - con i suoi luoghi, i suoi riti, le sue tradizioni. Coogler si prende il suo tempo per presentarcela, ed è una scelta vincente, perché a questi personaggi ci si affeziona, e si capisce cosa hanno da perdere e da guadagnare.
Poi lo scenario, improvvisamente, cambia. Dai campi aperti e le strade ariose passiamo in un interno, il juke joint creato da Smoke e Stack. Non è l'unico cambiamento. Hans Christian Andersen diceva che quando le parole vengono meno, è la musica a parlare. E proprio così accade nel secondo atto de I peccatori: le parole cessano, e comincia la musica. Una musica magica, evocativa, che apre la porta a fantasmi, antenati, e incubi; una musica che risveglia passioni, che non lascia indifferenti; una musica che crea comunità, e - per dirla con Johann Sebastian Bach - aiuta a non sentire il silenzio là fuori, dove quella comunità è discriminata, isolata, perseguitata.
Fuori, appunto. Per qualche attimo, il fuori cessa di esistere - sia per i protagonisti che per gli spettatori, ma non scompare. Rimane lì, in agguato, una notte oscura e piena di terrore. Siamo al terzo atto, in cui Coogler opera un'inversione a U degna di quella di Parasite o, per rimanere nel genere vampiresco, di Dal tramonto all'alba, trascinandoci all'inferno, e sfruttando la metafora del vampirismo nella sua doppia accezione.
Da una parte il vampirismo come metafora della discriminazione, del rigetto sociale, della marginalizzazione: non è un caso che i popoli la cui musica è in grado di risvegliare anime e demoni siano tre popoli storicamente vittime di oppressione (irlandesi, nativi americani, afroamericani), e che sia vista come uno strumento che permette di mantenere la propria identità, strappata da anni di schiavitù e prevaricazioni. Questa faccia del vampirismo si estrinseca alla perfezione nella scena del sabba celtico, in cui il leader dei vampiri, Remmick, li guida in una danza ipnotica e festosa che invoca la solidarietà, l'uguaglianza, e la fine di ogni oppressione.
Ma è solo un incantesimo, un'illusione, perché dall'altra parte ci attende l'altra accezione del vampirismo, metafora dell'appropriazione (e del capitalismo), di chi succhia l'anima e la vita di altri per sopravvivere. Remmick e i suoi sodali non vogliono solo ascoltare la musica di Sammie; vogliono appropriarsene, farla loro, fagocitarla, in una perfetta rappresentazione di come la musica blues, nata da e con gli schiavi, sia stata assorbita, ingoiata, e reimpacchettata dall'industria, andando ad arricchire i soliti sospetti, e non la comunità da cui si era generata. Remmick è una sanguisuga che condanna all'eterna dannazione, alla stessa eterna insoddisfazione che lo divora. Il fatto che lui stesso sia stato oppresso non fa altro che confermare un vecchio adagio, ovvero che l'oppressione è come un virus, che viene trasmesso e perpetuato: chi è stato oppresso opprimerà qualcun altro, in un'eterna guerra tra poveri, un circolo vizioso che nessuno sembra riuscire a spezzare.
L'anima del film è la musica, un mix tra la colonna sonora originale composta da Ludwig Göransson e rielaborazioni di canzoni tradizionali, magistralmente interpretata dal cast, su tutti un Miles Canton all'esordio cinematografico, la cui voce obnubila i sensi per bellezza, calore e gioia dolente. Su tutte brilla la sua esecuzione di I lied to you, talmente convincente che sembra davvero spezzare le barriere di spazio e tempo, trasportando lo spettatore in un non luogo in cui ogni epoca è qui, ora, viva e danzante.
Il corpo sono attori e attrici, che sembrano incanalare lo spirito divino come i musicisti e danzatori dell'antica Grecia, dando vita a personaggi di carne, sangue, desiderio. Detto di Canton, Michael B. Jordan fa ovviamente la parte del leone con un doppio ruolo in cui riesce a distinguere alla perfezione i due fratelli Stack e Smoke. Accanto a lui brillano soprattutto Hailee Steinfeld, una femme fatale decisamente sui generis, e Wunmi Mosaku, ex moglie di Smoke e maga Hoodoo, capace di declinare una strega, una madre, una combattente.
Coogler dirige il tutto con una fotografia avvolgente, con un ampio uso di piani sequenza sinuosi (qui una bella analisi di quello di I lied to you), che legano l'azione creando l'illusione di un sogno, soprattutto durante le scene di ballo e canto, e vengono spezzati dalle incursioni esterne, in un perfetto corrispettivo visivo dell'evoluzione narrativa del film. La gestione del ritmo è esemplare, con un crescendo che va a esplodere in un finale pulp che farebbe felice Tarantino, il più liberatorio dai tempi di Django Unchained.
I peccatori è un film mercuriale, che cambia forma continuamente, unendo horror, musical, blackspoitation, dramma, commedia, e tanto altro. Parla di dannazione e redenzione, di musica che cura l'anima ma risveglia i sensi, di oppressione e ribellione. è un racconto epico, vibrante, potente, che brucia il cuore dello spettatore e lo trascina con sé in un viaggio pieno di meraviglia e orrore.
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Pier