Qual è l'arma migliore contro un potere grigio, ingessato, e ipocrita? Tutto ciò che lui teme: il colorato, il ridicolo, l'esagerato: in una parola, l'eccesso. La vicenda di Diva Futura, l'agenzia di casting e produzione specializzata in pornografia che lanciò, tra le altre, Cicciolina, Moana Pozzi, ed Eva Henger, è esemplare in questo senso, e Giulia Steigerwalt, alla sua opera seconda, la racconta senza moralismi, con un tono da commedia che sa farsi dramma ma anche satira sociale, mettendo alla berlina un paese che, ieri come oggi, predica bene in pubblico ma razzola malissimo in privato.
Al centro di tutto c'è Riccardo Schicchi. Giulia Steigerwalt lo dipinge come un folletto pieno di idee ed energia, ispirato da una visione pura e libera del corpo femminile che lo spinge ad andare contro il bigottismo e il finto perbenismo dell'epoca per dare al pubblico ciò che voleva e celebrare amore, libertà, ed emancipazione.
Schicchi è interpretato magistralmente da Pietro Castellitto, forse alla sua prova migliore in carriera, in grado di alternare alla perfezione una comicità irresistible a una dolenza da Buster Keaton, una tristezza di fondo, una paura della solitudine che accompagna Schicchi come un invisibile compagno di viaggio. Accanto a lui brilla tutto il cast femminile, in particolare Barbara Ronchi che interpreta Debora Attanasio, coscienza e colonna portante dell'agenzia nonché autrice del libro di memorie da cui il film è tratto.
Con Diva Futura Steigerwalt firma un'opera briosa, vitale, un inno alla libertà femminile ben girato sia a livello di immagini che di ritmo e direzione degli attori, con un bellissimo finale che rimane in testa a lungo. Una ventata di aria fresca nel panorama stantio del cinema italiano, soprattutto quello festivaliero (il film è stato presentato a Venezia, dove ovviamente è stato snobbato dai critici paludati e paludosi, paladini del Cinema Impegnato che impegna solo la pazienza dello spettatore).
USA, anni Quaranta: László Tóth, architetto ebreo ungherese della scuola Bauhaus, sbarca a New York in cerca di una nuova vita, in fuga dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Sua moglie Erzsébet, tuttavia, non ha potuto seguirlo. László è costretto dapprima a lavorare come arredatore d’interni, fino a quando non viene notato da un magnate, Harrison Lee Van Buren, che gli commissiona un edificio in memoria della defunta di sua madre.
Partiamo dalla fine: The Brutalist è un film per cui non è fuori luogo l’abusata parola “capolavoro”. Corbet ha realizzato un’opera destinata a fare la storia della settima arte, un film creativo, emotivo, cerebrale, che toglie il fiato per ambizione, portata, complessità a qualunque livello – narrativo, visivo, musicale, sonoro. È uno di quei rari film che, attraverso il racconto di una micro-storia (quella di László, ma anche di Erzsébet e Van Buren), racconta la Storia: quella di un’epoca, ma anche della condizione umana. Corbet si muove a suo agio in un territorio finora battuto solo da mostri sacri come Welles (Quarto Potere), Leone (C’era una Volta in America), Anderson (Il Petroliere), Nolan (Oppenheimer), realizzando un’opera sinfonica, in cui diversi temi emergono durante il film, si intrecciano, si inseguono, scompaiono, ritornano.
Il tema centrale - ricorrente nella ristretta ma ricchissima cinematografia di Brady Corbet - è quello del trauma, e delle sue conseguenze a lungo termine. Nella sua splendida opera prima, Childhood of a leader, vedevamo il processo di creazione del trauma, per poi scoprirne, in pochi, folgoranti secondi finali, le terribili conseguenze per il protagonista e per il mondo; in Vox Lux, come in The Brutalist, il trauma è invece un fatto compiuto, di cui vediamo le conseguenze e scopriamo, a poco a poco, la profondità. Il trauma individuale qui si fa anche trauma collettivo, raccontando l’Olocausto da un’angolazione nuova: non la sua manifestazione, ma le sue conseguenze, le terribili, indelebili ferite che ha lasciato nel corpo e nella psiche delle sue vittime.
Corbet però non si limita a questa tematica. Il suo film parla anche di ambizione creativa – un’ambizione divorante, totalizzante, che porta all’annullamento del sé; di memoria, intesa sia come ricordo del passato, sia come desiderio di lasciare una traccia indelebile nel futuro; del Sogno Americano, e del suo lato oscuro, l'anima nera del capitalismo, che foraggia l'arte ma poi deve possederla, farla sua, annullando e sottomettendo l'artista e rendendo tutto commercio, transazione, in un processo di cannibalismo che si autoalimenta e tutto divora.
Il film parla, infine, d’amore, invidia, avidità, lussuria – tutte le emozioni umane, messe a nudo con un realismo che colpisce, stordisce, travolge. Come le opere di László, anche The Brutalist ha una confezione cerebrale, razionale che nasconde un cuore emotivo potente, che pulsa invisibile ma sempre presente per tutti i trent’anni della vita di László che vediamo sullo schermo. Al suo interno si alternano orrore e poesia, risate e lacrime, tormento ed estasi, i punti più alti dell’uomo e quelli più bassi, vili e meschini.
La fotografia di Lol Crawley, che aveva già lavorato con Corbet nei suoi primi due film, è perfetta nel tradurre in immagini le due anime del film, e regala immagini stordenti e commoventi, riuscendo a essere virtuosa senza risultare mai invasiva. Difficile indicare una sequenza particolarmente memorabile, dato che tutte o quasi evocano il sublime kantiano nell’animo dello spettatore, ma la parte del film che si svolge a Carrara e le sequenze che si tuffano nelle viscere nell’erigenda opera di László sono forse quelle di maggiore impatto.
La riuscita del film è anche merito del cast, capitanato da un Adrien Brody eccezionale, che dona al suo László un’ironia tagliente e smargiassa ma anche una grande fragilità: in alcuni momenti László sembra solido come i suoi edifici di cemento armato, in altri sembra che un soffio di vento potrebbe distruggerlo per sempre. Accanto a lui brillano anche Felicity Jones, che arriva tardi nel film ma offre due dei momenti di più alto impatto emotivo, e Guy Pearce: il suo Van Buren è il perfetto contraltare di László, e il loro complesso rapporto è il centro emotivo e narrativo del film.
Corbet amalgama tutti questi ingredienti con mano saldissima, realizzando un film perfetto, che dura tre ore e mezza (con intervallo “incluso”) ma sembra durarne due per quanto è compatto, teso, senza un momento, una battuta, un’inquadratura di troppo nonostante la sua ricchezza tematica e visiva. Un capolavoro, appunto, che attraverso il particolare ci parla dell’universale, ricordandoci che dall’orrore può anche nascere bellezza, e che la bellezza può nascondere l’orrore.
Cosa significa essere un artista? Questa la domanda al centro di A complete unknown, seconda opera di James Mangold dedicata a un grande cantante del passato, dopo il suo splendido racconto su Johnny Cash. Ma se Quando l'amore brucia l'animaera la classica storia di ascesa-caduta-rinascita, quella di Bob Dylan è una vicenda più complessa e sfuggente: una vicenda che inizia e finisce in medias res, uno sguardo a un periodo della vita di Dylan che al suo interno contiene moltitudini.
Che Dylan fosse un artista poliedrico e di fatto inafferrabile e incasellabile in una sola identità lo aveva già capito Todd Haynes in quel capolavoro che è Io non sono qui, dove Dylan era stato letteralmente moltiplicato in sei personaggi. Mangold sceglie una strada diversa, creando un film sullo sguardo e fatto di sguardi. Sono sempre gli altri, spettatori compresi, a definire cosa sia Dylan: giovane talento, impostore, poeta di una generazione, opportunista, paladino della musica folk, traditore della musica folk, tutto e niente. Il Dylan di Mangold è un vero "complete unknown", come la strofa di Like a rolling stone perfettamente sfruttata dal titolo: un essere in continuo divenire, multiforme e mutaforma, acqua che prende la forma del recipiente in cui viene versata. Ma l'acqua, si sa, da calma e placida sa farsi tempesta, inondazione, e travolgere senza pietà tutto ciò che trova sul suo cammino.
Dylan nel film ascolta, osserva, sorride sornione, ma parla pochissimo. Quando le fa, le sue parole sono spesso enigmatiche, quelle di una sfinge con chitarra che si muove nel mondo con il solo obiettivo di non fermarsi mai. A parlare è la sua musica, che domina la scena, la riempie, e sconvolge generazioni, generi, persone, in un fiume tracimante di emozioni incontrollabili, della sensazione che quelle parole parlino proprio a te, solo a te, in quel momento, e a nessun altro. Esemplari, in questo senso, sono le scene in cui Dylan canta The times they are-a changing (emozionate a dire poco) e It ain't me babe: ogni personaggio in ascolto sente e vive quelle canzoni in modo diverso, dando loro mille significati diversi, tutti giusti, tutti in parte sbagliati.
Mangold riesce a catturare perfettamente l'essenza delle composizioni di Dylan: generazionali, eppure private, perfettamente in linea con lo zeitgeist, eppure in grado di anticiparlo, di cambiarlo, di indicare una nuova strade che non sapevi nemmeno esistesse, cancellando e lanciando indietro tutte le strade precedenti. Meravigliose anche le sequenze in cui si cattura la natura mercuriale della creatività, sia in generale (l'attacco di organo di Al Kooper in Like a rolling stone, improvvisato e fondamentale) sia di Dylan in particolare (il ritrovamento del fischietto siren whistle che si sente all'inizio di Highway 61 revisited): in continua evoluzione, in continuo mutamento, con l'unica regola di non ripetersi, mai.
Dylan nel film incarna il cambiamento al punto da divenirne quasi una divinità in terra: creatore e distruttore, capace di oscurare il talento e rubare la scena a mostri sacri come Pete Seeger e Joan Baez, che lo usano senza rendersi conto che si stanno anche facendo usare. Un dio che tutto divora, ma che apre nuovi mondi, incarnato alla perfezione da un Timothée Chalamet che ha un vero e proprio talento per interpretare personaggi sfuggenti e inafferrabili, che sembrano a tratti onnipotenti, e a tratti tremendamente fragili, sul punto di rompersi inesorabilmente. Sarebbe tempo che si riconoscesse la sua versatilità, anziché fermarsi all'apparente similitudine di alcuni suoi personaggi che è, appunto, data solo dal loro essere indecifrabili, in continuo cambiamento: sfido qualunque detrattore a dire che Paul Atreides ricorda Bob Dylan o Willy Wonka. La sua capacità di imitare le voci di Dylan (a volte nasale, a volte raschiante; a volte melodica, a volte simile a un miagolio; a volte ben scandita, a volte quasi incomprensibile) è impressionante, e chiudendo gli occhi si ha spesso la sensazione di ascoltare l'originale.
Accanto a lui, Edward Norton offre una bellissima prova nel ruolo del (per una volta) "buono" Pete Seeger, e Monica Barbaro dà ottima voce al talento introverso di Joan Baez. Elle Fanning è il cuore emotivo del film, ed è con le sue reazioni e i suoi occhi che il pubblico finisce spesso per vedere Dylan: occhi che accettano che l'unico suo fattore distintivo è il non-essere, non-stare. "It ain't me, babe": non sono io, e questo è tutto ciò che saprai di me.
A complete unknown è un film sul cambiamento, sull'arte, sul trovare il proprio posto del mondo, sul dolore di crescere sulla doppia natura delle relazioni, legami che ci tengono a galla ma a volte impediscono di nuotare al largo. Mangold confeziona un film avvolgente, in cui la musica e le parole sono protagoniste e che, come una melodia, cambia continuamente direzione: culla, tramortisce, esalta, stordisce, è univerale e intimo, parla della vita e della Vita, ponendo tantissime domande senza dare risposte, e lasciandoci con la sensazione di conoscere davvero l'unico cantautore vincitore di un premio Nobel, e al tempo stesso di non conoscerlo affatto.
Il film racconta una storia vera - quella del desaparecido Rubens Paiva, fatto sparire dalla dittatura brasiliana negli anni Settanta - adottando il punto di vista di sua moglie, anche se il romanzo da cui è tratto è stato scritto dal figlio Marcelo, che però proprio a sua madre ha riservato un ruolo da protagonista.
Salles inizia il film con un lungo racconto di quotidianità, vibrante di luci, colore, risate, e amore. Il regista tratteggia uno splendido ritratto di famiglia, che ci fa affezionare ai protagonisti e rende ancora più straziante la seconda parte: il momento del rapimento, ma soprattutto il vuoto, l'assenza, che prende corpo e diventa inesorabilmente presente proprio per contrasto con la prima parte, in cui tutto ciò che ora è vuoto e silenzioso era pieno - di persone, di sogni, di vita.
Io non sono qui racconta alla perfezione l'incertezza dilaniante di chi aspetta, chi rimane indietro ad attendere un ritorno che potrebbe non arrivare mai. Fernanda Torres è superba nel ruolo della protagonista, cui dona una forza silenziosa e una dignità potente che danno i brividi in numerose scene. La sua nomination agli Oscar, arrivata forse un po' a sorpresa, è pienamente meritata.
Il film risulta forse un po' sfilacciato sul finale, dove l'economia narrativa e la potenza drammatica vengono un po' sacrificate sull'altare del completismo e del voler raccontare tutta la storia fino alla fine, firmacopie del libro di Marcelo Paiva incluso. Resta comunque un ottimo film militante, un documento storico ed emozionale che ci racconta orrori passati ma ancora tristemente attuali per chi si trova a vivere immerso in guerre e stragi.