Un meccanismo perfetto
Martin Sixsmith è un giornalista senza lavoro, dopo essere stato silurato dall'establishment di Tony Blair. Disilluso e disoccupato, Martin si imbatte nel caso di Philomena Lee, una donna irlandese che, molti anni prima, è rimasta incinta da adolescente, ed è stata costretta a ritirarsi in un convento di suore a Roscrea per partorire. Qualche anno più tardi, le suore le hanno sottratto il bambino, dandolo in adozione, e lei non lo ha più rivisto. Determinata a ritrovarlo, chiede l'aiuto di Martin che, inizialmente riluttante, si appassiona a poco a poco alla storia di questa donna fiera e piena di fede, la cui ricerca viene ostacolata da omertà e misteriosi contrattempi.
Il nuovo film di Stephen Frears è un orologio tarato alla perfezione,
perfetto per tempi della storia, delle battute e per l'alternanza tra
momenti comici e drammatici. La storia vera di Philomena, ragazza-madre
irlandese costretta dalle suore del convento che la ospitava a dare in
adozione suo figlio, viene raccontata con efficacia e misura, senza
indulgere in facili pietismi nè rinunciare a una pesante critica sociale nei confronti della chiesa irlandese. Tutto fila alla perfezione, senza un tempo morto e senza una pausa, grazie a una regia attenta, a una sceneggiatura eccezionale e a due protagonisti approfonditi e ben costruiti, sia a livello di scrittura che di recitazione.
Judi
Dench brilla come sempre per bravura, ma Steve Coogan non le è da meno, e
forma con lei una coppia formidabile per affiatamento e tempi comici. La semplicità di Philomena fa da contraltare alla serietà professionale di Martin, che finisce però per risultare eccessiva e quasi inumana, provocando un ribaltamento dei ruoli e delle simpatie dello spettatore.
Philomena è un film perfetto nella sua classicità, in grado di raccontare una bella storia vera con freschezza e sincerità. La mancanza di estro e momenti topici nella regia non sminuisce il grande lavoro di Frears, che amalgama con sapienza il materiale a sua disposizione, realizzando un film che entra nel cuore e non può lasciare indifferenti.
****1/2
Pier
▼
venerdì 27 dicembre 2013
lunedì 23 dicembre 2013
Frozen - Il Regno di Ghiaccio
La novità del classico
Anna ed Elsa sono le principesse di Arendelle, piccolo e fiorente regno situato sulle coste di un fiordo. Le due sorelle sono legate da un profondo affetto reciproco, e sembrano inseparabili. Elsa però nasconde un segreto, un potere di controllare ghiaccio e neve che rischia di mettere a repentaglio la sua vita e quella dei suoi cari. E' quindi costretta a iniziare una vita di clausura, che finisce per allontanarla da Anna. Dopo alcuni anni, arriva per Elsa il momento dell'incoronazione a regina: quel giorno, da lei tanto temuto per il fatto di dover aprire le porte del castello, segnerà un profondo cambiamento nella sua vita e in quella della sorella.
Dopo l'ottima prova di Rapunzel, la Disney prosegue con il suo ritorno al passato, rivisitando con molta libertà la fiaba di Andersen La regina delle nevi. Il film contiene tutti gli ingredienti che hanno reso grandi i classici della casa di Topolino: uso abbondante delle canzoni (forse troppo numerose, ma riuscitissime, con All'alba sorgerò, in originale Let it go, in testa), personaggi comici riuscitissimi, immagini magnifiche e una storia d'amore credibile e ben costruita.
Così come in Rapunzel, tuttavia, il passato si unisce all'innovazione: impossibile non notare la maturazione caratteriale delle principesse, passate dall'essere sognatrici in attesa dell'amore a eroine a tutto tondo, che trovano la propria realizzazione nelle loro capacità e nella loro indipendenza. Il personaggio di Elsa è incredibilmente moderno, dotato di una volontà sua e di un desiderio di autodeterminazione che si sublimano nella liberatoria sequenza di Let it go, visivamente sublime, in cui si lascia alle spalle il passato per iniziare una nuova vita secondo le sue regole.
Accanto a lei troviamo Anna, più "romantica", ma non meno determinata: decisa a tutto pur di riportare a casa la sorella, non esita ad avventurarsi da sola sulle montagne, a dispetto dei pericoli e delle difficoltà. La sua storia d'amore con il rozzo tagliaghiaccio non la rende meno indipendente, ma testimonia un processo di maturazione e crescita che rappresenta un profondo passo in avanti rispetto a precedenti produzioni disneyane, processo che raggiungerà il suo culmine nel bellissimo finale.
Intorno alle due eroine si muovono dei personaggi di contorno azzeccatissimi, su cui spicca Kristoff, insieme al Flynn Rider di Rapunzel uno dei principi meno ingessati e più genuinamente divertenti dei classici Disney. La sua rusticità e i suoi modi spicci nascondono un personaggio più complesso, segnato da un'infanzia solitaria e profondamente legato alla simpatica renna che lo accompagna, l'unica sua vera amica. Il personaggio dotato di maggiore verve comica è però indubbiamente Olaf, un pupazzo di neve che sogna l'estate e il caldo, un utopico sognatore che ricorda alcuni dei migliori personaggi della Pixar, come Remy di Ratatouille, e che come questi trae la sua forza dall'apparente inconciliabilità tra la sua natura e le sue aspirazioni.
Frozen è un film d'animazione maturo e profondo, in grado di divertire i bambini ma anche di appassionare gli adulti, che unisce la magia dei grandi classici Disney alla maturità dei temi della Pixar. Questa commistione genera un film che, nonostante un uso forse eccessivo delle musiche, è indubbiamente il più riuscito della stagione, e uno dei migliori degli ultimi anni.
*** 1/2
Pier
Anna ed Elsa sono le principesse di Arendelle, piccolo e fiorente regno situato sulle coste di un fiordo. Le due sorelle sono legate da un profondo affetto reciproco, e sembrano inseparabili. Elsa però nasconde un segreto, un potere di controllare ghiaccio e neve che rischia di mettere a repentaglio la sua vita e quella dei suoi cari. E' quindi costretta a iniziare una vita di clausura, che finisce per allontanarla da Anna. Dopo alcuni anni, arriva per Elsa il momento dell'incoronazione a regina: quel giorno, da lei tanto temuto per il fatto di dover aprire le porte del castello, segnerà un profondo cambiamento nella sua vita e in quella della sorella.
Dopo l'ottima prova di Rapunzel, la Disney prosegue con il suo ritorno al passato, rivisitando con molta libertà la fiaba di Andersen La regina delle nevi. Il film contiene tutti gli ingredienti che hanno reso grandi i classici della casa di Topolino: uso abbondante delle canzoni (forse troppo numerose, ma riuscitissime, con All'alba sorgerò, in originale Let it go, in testa), personaggi comici riuscitissimi, immagini magnifiche e una storia d'amore credibile e ben costruita.
Così come in Rapunzel, tuttavia, il passato si unisce all'innovazione: impossibile non notare la maturazione caratteriale delle principesse, passate dall'essere sognatrici in attesa dell'amore a eroine a tutto tondo, che trovano la propria realizzazione nelle loro capacità e nella loro indipendenza. Il personaggio di Elsa è incredibilmente moderno, dotato di una volontà sua e di un desiderio di autodeterminazione che si sublimano nella liberatoria sequenza di Let it go, visivamente sublime, in cui si lascia alle spalle il passato per iniziare una nuova vita secondo le sue regole.
Accanto a lei troviamo Anna, più "romantica", ma non meno determinata: decisa a tutto pur di riportare a casa la sorella, non esita ad avventurarsi da sola sulle montagne, a dispetto dei pericoli e delle difficoltà. La sua storia d'amore con il rozzo tagliaghiaccio non la rende meno indipendente, ma testimonia un processo di maturazione e crescita che rappresenta un profondo passo in avanti rispetto a precedenti produzioni disneyane, processo che raggiungerà il suo culmine nel bellissimo finale.
Intorno alle due eroine si muovono dei personaggi di contorno azzeccatissimi, su cui spicca Kristoff, insieme al Flynn Rider di Rapunzel uno dei principi meno ingessati e più genuinamente divertenti dei classici Disney. La sua rusticità e i suoi modi spicci nascondono un personaggio più complesso, segnato da un'infanzia solitaria e profondamente legato alla simpatica renna che lo accompagna, l'unica sua vera amica. Il personaggio dotato di maggiore verve comica è però indubbiamente Olaf, un pupazzo di neve che sogna l'estate e il caldo, un utopico sognatore che ricorda alcuni dei migliori personaggi della Pixar, come Remy di Ratatouille, e che come questi trae la sua forza dall'apparente inconciliabilità tra la sua natura e le sue aspirazioni.
Frozen è un film d'animazione maturo e profondo, in grado di divertire i bambini ma anche di appassionare gli adulti, che unisce la magia dei grandi classici Disney alla maturità dei temi della Pixar. Questa commistione genera un film che, nonostante un uso forse eccessivo delle musiche, è indubbiamente il più riuscito della stagione, e uno dei migliori degli ultimi anni.
*** 1/2
Pier
domenica 15 dicembre 2013
Still Life
Le vite (e le morti) degli altri
Come forse ricorderete, quest'anno ho collaborato con Nonsolocinema per la Mostra del Cinema di Venezia.
Per loro ho recensito Still Life, uno dei film migliori che ho visto alla Mostra, vincitore del premio per la miglior regia nella sezione Orizzonti.
Un film toccante ed emozionante, realizzato da un regista italiano atipico, Uberto Pasolini, capace di una delicatezza e di una misura che sembrano sconosciute alla gran parte dei cineasti nostrani. Still Life racconta una storia semplice ma straordinaria per la voglia di vivere che trasmette, con una perfetta commistione di momenti comici ed emozionanti.
Il protagonista possiede un'umanità ormai rara, che lo porta a dedicare il suo tempo e la sua vita a fare in modo che tutti i defunti abbiano almeno qualcuno che si ricorda di loro.
Un piccolo gioiello, una delle sorprese positive di questa stagione cinematografica.
Qui potete trovare la mia recensione completa: Still Life.
Un consiglio: non perdetelo.
****1/2
Pier
Come forse ricorderete, quest'anno ho collaborato con Nonsolocinema per la Mostra del Cinema di Venezia.
Per loro ho recensito Still Life, uno dei film migliori che ho visto alla Mostra, vincitore del premio per la miglior regia nella sezione Orizzonti.
Un film toccante ed emozionante, realizzato da un regista italiano atipico, Uberto Pasolini, capace di una delicatezza e di una misura che sembrano sconosciute alla gran parte dei cineasti nostrani. Still Life racconta una storia semplice ma straordinaria per la voglia di vivere che trasmette, con una perfetta commistione di momenti comici ed emozionanti.
Il protagonista possiede un'umanità ormai rara, che lo porta a dedicare il suo tempo e la sua vita a fare in modo che tutti i defunti abbiano almeno qualcuno che si ricorda di loro.
Un piccolo gioiello, una delle sorprese positive di questa stagione cinematografica.
Qui potete trovare la mia recensione completa: Still Life.
Un consiglio: non perdetelo.
****1/2
Pier
mercoledì 11 dicembre 2013
Lo Hobbit - La desolazione di Smaug
La malia del drago
Dopo essere scampati agli Orchi, il viaggio dei Nani e dell'Hobbit Bilbo alla volta della Montagna Solitaria continua. Tra orsi mutaforma, regni elfici da superare, ragni giganti e viaggi in barile, la compagnia arriverà ai piedi della Montagna dove si cela il tesoro che sono venuti a cercare: l'Archepietra. Quando Bilbo si avventura nei meandri della Montagna per recuperarla, tuttavia, scoprirà che Smaug, il drago delle leggende è reale, e ben poco disposto a cedere il suo tesoro.
Dopo aver realizzato un primo capitolo estremamente fedele all'opera di Tolkien nel suo complesso, anche se non allo stile del romanzo da cui prende il nome, Peter Jackson cambia decisamente rotta nel prosieguo dell'avventura di Bilbo e dei suoi compagni. Se ne Un viaggio inaspettato aveva prestato un'attenzione quasi ossessiva alla fedeltà di dialoghi e situazioni, ne La desolazione di Smaug Jackson preferisce concentrarsi sulle scene d'azione, enfatizzando e spettacolarizzando quelle già presenti nell'opera originale e aggiungendone di nuove.
Questa operazione di integrazione funziona fintanto che le scene sono coerenti con l'universo tolkieniano, sia perchè tratte da altri scritti dell'autore britannico (come la visita di Gandalf a Dol Guldur, forse il momento migliore del film), sia perchè fedeli allo spirito della sua opera (come la fuga da Smaug). I problemi sorgono quando Jackson decide di dare al film un tono totalmente estraneo a quello epico della Terra di Mezzo, focalizzandosi su sentimentalismi di scarso interesse, oltre che inventati di sana pianta. All'occhio del lettore affezionato, dunque, la scelta di introdurre il personaggio dell'elfa guerriera Tauriel risulta del tutto errata. Le sue scene sono del tutto pleonastiche e, se da un lato aumentano il dinamismo della trama, dall'altro tradiscono lo spirito dell'opera tolkeniana, mortificandola con una storia d'amore improbabile e del tutto inutile che finisce solo per allungare i tempi di una storia già densa.
I difetti della trama, tuttavia, vengono più che compensati da fotografia, scenografia e costumi, i veri punti di forza delle trasposizioni cinematografiche di Jackson. Il regista neozelandese si dimostra ancora una volta un narratore eccellente, capace di ammaliare lo spettatore e trasportarlo nella Terra di Mezzo attraverso ricostruzioni accurate, personaggi ben costruiti (il Re degli Elfi Thranduil su tutti) e un uso sapiente della computer grafica, che raggiunge l'eccellenza nella realizzazione del drago. Smaug ruba la scena alle sue controparti fisiche in ogni momento, sia grazie al suo aspetto, orribile e imponente, sia grazie alla voce, suadente e terribile, prestata alla perfezione da Benedict Cumberbatch che, ahimè, non avremo modo di ascoltare nell'edizione italiana.
Jackson corregge molti dei difetti riscontrati nella prima opera in termini di ritmo e struttura della trama, aiutato anche dalla varietà di personaggi e ambientazioni forniti dalla porzione di libro da cui il film è tratto. Quello che risulta deludente, tuttavia, è la scelta di integrare il materiale con scene del tutto estranee alle opere di Tolkien, che finiscono per spezzare quella magia e quel senso di stupore che colgono lo spettatore in ogni altro momento del film: una scelta a mio avviso sbagliata, che da un lato farà storcere il naso ai puristi, ma dall'altro contribuisce ad alzare il ritmo della trama, rendendo il film più appetibile e interessante per i non puristi.
** 1/2
Pier
Dopo essere scampati agli Orchi, il viaggio dei Nani e dell'Hobbit Bilbo alla volta della Montagna Solitaria continua. Tra orsi mutaforma, regni elfici da superare, ragni giganti e viaggi in barile, la compagnia arriverà ai piedi della Montagna dove si cela il tesoro che sono venuti a cercare: l'Archepietra. Quando Bilbo si avventura nei meandri della Montagna per recuperarla, tuttavia, scoprirà che Smaug, il drago delle leggende è reale, e ben poco disposto a cedere il suo tesoro.
Dopo aver realizzato un primo capitolo estremamente fedele all'opera di Tolkien nel suo complesso, anche se non allo stile del romanzo da cui prende il nome, Peter Jackson cambia decisamente rotta nel prosieguo dell'avventura di Bilbo e dei suoi compagni. Se ne Un viaggio inaspettato aveva prestato un'attenzione quasi ossessiva alla fedeltà di dialoghi e situazioni, ne La desolazione di Smaug Jackson preferisce concentrarsi sulle scene d'azione, enfatizzando e spettacolarizzando quelle già presenti nell'opera originale e aggiungendone di nuove.
Questa operazione di integrazione funziona fintanto che le scene sono coerenti con l'universo tolkieniano, sia perchè tratte da altri scritti dell'autore britannico (come la visita di Gandalf a Dol Guldur, forse il momento migliore del film), sia perchè fedeli allo spirito della sua opera (come la fuga da Smaug). I problemi sorgono quando Jackson decide di dare al film un tono totalmente estraneo a quello epico della Terra di Mezzo, focalizzandosi su sentimentalismi di scarso interesse, oltre che inventati di sana pianta. All'occhio del lettore affezionato, dunque, la scelta di introdurre il personaggio dell'elfa guerriera Tauriel risulta del tutto errata. Le sue scene sono del tutto pleonastiche e, se da un lato aumentano il dinamismo della trama, dall'altro tradiscono lo spirito dell'opera tolkeniana, mortificandola con una storia d'amore improbabile e del tutto inutile che finisce solo per allungare i tempi di una storia già densa.
I difetti della trama, tuttavia, vengono più che compensati da fotografia, scenografia e costumi, i veri punti di forza delle trasposizioni cinematografiche di Jackson. Il regista neozelandese si dimostra ancora una volta un narratore eccellente, capace di ammaliare lo spettatore e trasportarlo nella Terra di Mezzo attraverso ricostruzioni accurate, personaggi ben costruiti (il Re degli Elfi Thranduil su tutti) e un uso sapiente della computer grafica, che raggiunge l'eccellenza nella realizzazione del drago. Smaug ruba la scena alle sue controparti fisiche in ogni momento, sia grazie al suo aspetto, orribile e imponente, sia grazie alla voce, suadente e terribile, prestata alla perfezione da Benedict Cumberbatch che, ahimè, non avremo modo di ascoltare nell'edizione italiana.
Jackson corregge molti dei difetti riscontrati nella prima opera in termini di ritmo e struttura della trama, aiutato anche dalla varietà di personaggi e ambientazioni forniti dalla porzione di libro da cui il film è tratto. Quello che risulta deludente, tuttavia, è la scelta di integrare il materiale con scene del tutto estranee alle opere di Tolkien, che finiscono per spezzare quella magia e quel senso di stupore che colgono lo spettatore in ogni altro momento del film: una scelta a mio avviso sbagliata, che da un lato farà storcere il naso ai puristi, ma dall'altro contribuisce ad alzare il ritmo della trama, rendendo il film più appetibile e interessante per i non puristi.
** 1/2
Pier
mercoledì 4 dicembre 2013
Blue Jasmine
Solo i ricchi piangono
Jasmine è un'affascinante signora dei salotti di Manhattan. La sua vita sembra perfetta: è sposata con Hal, un uomo d'affari ricco e carismatico, e ha un figlio adottivo che adora. Tutto cambia quando Hal viene arrestato con l'accusa di truffa e bancarotta. Sola e in preda a un esaurimento nervoso, Jasmine cerca rifugio a San Francisco dalla sorella Ginger, dallo stile di vita assai più modesto. La convivenza forzata tra le due sorelle riporterà a galla antichi rancori, sconvolgendo la vita domestica di Ginger con il fidanzato Chili e le poche certezze di Jasmine.
Ci si aspetterebbe che, all'età di 78 anni e con alle spalle una carriera quasi cinquantennale, Woody Allen non avesse più nulla di nuovo da dire, soprattutto su New York, la città che più di altre ha analizzato, esplorato, sviscerato in ogni suo aspetto. Il regista della Grande Mela riesce invece a stupire, realizzando un film cupo e spietato sul crollo delle illusioni e dei sogni ai tempi della crisi. Allen mette in scena una New York finta e artefatta, un castello di menzogne e inganni costruito sulla sabbia e destinato a crollare alla prima marea. Il regista mette a nudo le miserie dei ricchi, prigionieri di una gabbia di bugie e schiavi di un denaro volatile ed effimero. La vicenda viene raccontata con gli occhi di Jasmine, ingenua e vacua, arrogante e umiliata, vittima di un sistema e di un marito che venerava, e carnefice di coloro che, come la sorella, cercano di aiutarla. Jasmine vive nel passato, in un'illusione che non esiste più, ma da cui non riesce a staccarsi. Erede morale della Blanche DuBois di Un tram che si chiama desiderio, Jasmine nasconde la sua fragilità dietro un'apparenza sofisticata e raffinata, una maschera destinata a crollare di fronte ai colpi della vita. La sua incapacità di accettare la sua nuova condizione la porta a cercare di cambiare la vita della sorella, modesta ma tranquilla, per cercare di farle ottenere quel "di più" che lei non ha più.
Jasmine è un personaggio profondamente drammatico, che suscita la pietà ma anche il disprezzo dello spettatore a causa della sua inettitudine alla vita e agli affetti. La sua figura, insieme a quella del marito Hal, è esemplificativa della classe agiata statunitense, chiusa nella sua torre di avorio e incapace di accettare il cambiamento. Allen analizza con lucidità sorprendente le miserie e i misfatti dei ricchi, facendo risaltare la loro avidità e la loro inadeguatezza grazie al confronto tra Jasmine e Hal da una parte, e Ginger, Chili e l'ex marito di Ginger dall'altra. I ricchi vivono nel rimpianto, incapaci di affrontare la realtà e le conseguenze delle proprie azioni. I "poveri", invece non possono permettersi il lusso del rimpianto, e sono costretti ad andare avanti, affrontando la vita con dignità.
Il film diventa così un'ode degli ultimi e della semplicità, ma non demonizza chi, come Jasmine, è rimasto vittima dei suoi sogni. Allen compie un capolavoro registico nel mantenere un tono leggero, appena velato di malinconia, per tutta la durata del film, riuscendo però allo stesso tempo a trasmettere tutta la drammaticità della vicenda della protagonista. Jasmine è un personaggio femminile potente e di impatto, uno dei migliori del cinema contemporaneo, costruito con profondità e attenzione grazie a una sceneggiatura perfetta e ad una interpretazione monstre, intensa e carismatica, da parte di Cate Blanchett. Allen le cuce addosso il personaggio, e lei risponde raccontandoci con ogni frase, ogni singolo gesto l'evoluzione di una donna distrutta dalla vita, che si aggrappa ad ogni piccola speranza di rinascita come a uno scoglio nella tempesta, per poi essere inesorabilmente risospinta nel mare a causa dei suoi stessi errori.
In una perfetta alternanza tra dialoghi e flashback, il film scorre veloce fino al potente finale, aperto e in realtà chiuso, così come il futuro della protagonista. Allen realizza una tragedia con toni da commedia, confermando ancora una volta la sua eccezionale capacità nell'analizzare le miserie della vita quotidiana con occhio lucido e attento, offrendo un'analisi della società statunitense che colpisce per attenzione sociologica e approfondimento psicologico. Blue Jasmine regala forse il miglior personaggio femminile della cinematografia di Allen, e risulta uno dei suoi film più profondi e attuali, capace di raccontare attraverso la storia di un personaggio la fragilità e il grande vuoto morale di un paese intero.
****1/2
Pier
Jasmine è un'affascinante signora dei salotti di Manhattan. La sua vita sembra perfetta: è sposata con Hal, un uomo d'affari ricco e carismatico, e ha un figlio adottivo che adora. Tutto cambia quando Hal viene arrestato con l'accusa di truffa e bancarotta. Sola e in preda a un esaurimento nervoso, Jasmine cerca rifugio a San Francisco dalla sorella Ginger, dallo stile di vita assai più modesto. La convivenza forzata tra le due sorelle riporterà a galla antichi rancori, sconvolgendo la vita domestica di Ginger con il fidanzato Chili e le poche certezze di Jasmine.
Ci si aspetterebbe che, all'età di 78 anni e con alle spalle una carriera quasi cinquantennale, Woody Allen non avesse più nulla di nuovo da dire, soprattutto su New York, la città che più di altre ha analizzato, esplorato, sviscerato in ogni suo aspetto. Il regista della Grande Mela riesce invece a stupire, realizzando un film cupo e spietato sul crollo delle illusioni e dei sogni ai tempi della crisi. Allen mette in scena una New York finta e artefatta, un castello di menzogne e inganni costruito sulla sabbia e destinato a crollare alla prima marea. Il regista mette a nudo le miserie dei ricchi, prigionieri di una gabbia di bugie e schiavi di un denaro volatile ed effimero. La vicenda viene raccontata con gli occhi di Jasmine, ingenua e vacua, arrogante e umiliata, vittima di un sistema e di un marito che venerava, e carnefice di coloro che, come la sorella, cercano di aiutarla. Jasmine vive nel passato, in un'illusione che non esiste più, ma da cui non riesce a staccarsi. Erede morale della Blanche DuBois di Un tram che si chiama desiderio, Jasmine nasconde la sua fragilità dietro un'apparenza sofisticata e raffinata, una maschera destinata a crollare di fronte ai colpi della vita. La sua incapacità di accettare la sua nuova condizione la porta a cercare di cambiare la vita della sorella, modesta ma tranquilla, per cercare di farle ottenere quel "di più" che lei non ha più.
Jasmine è un personaggio profondamente drammatico, che suscita la pietà ma anche il disprezzo dello spettatore a causa della sua inettitudine alla vita e agli affetti. La sua figura, insieme a quella del marito Hal, è esemplificativa della classe agiata statunitense, chiusa nella sua torre di avorio e incapace di accettare il cambiamento. Allen analizza con lucidità sorprendente le miserie e i misfatti dei ricchi, facendo risaltare la loro avidità e la loro inadeguatezza grazie al confronto tra Jasmine e Hal da una parte, e Ginger, Chili e l'ex marito di Ginger dall'altra. I ricchi vivono nel rimpianto, incapaci di affrontare la realtà e le conseguenze delle proprie azioni. I "poveri", invece non possono permettersi il lusso del rimpianto, e sono costretti ad andare avanti, affrontando la vita con dignità.
Il film diventa così un'ode degli ultimi e della semplicità, ma non demonizza chi, come Jasmine, è rimasto vittima dei suoi sogni. Allen compie un capolavoro registico nel mantenere un tono leggero, appena velato di malinconia, per tutta la durata del film, riuscendo però allo stesso tempo a trasmettere tutta la drammaticità della vicenda della protagonista. Jasmine è un personaggio femminile potente e di impatto, uno dei migliori del cinema contemporaneo, costruito con profondità e attenzione grazie a una sceneggiatura perfetta e ad una interpretazione monstre, intensa e carismatica, da parte di Cate Blanchett. Allen le cuce addosso il personaggio, e lei risponde raccontandoci con ogni frase, ogni singolo gesto l'evoluzione di una donna distrutta dalla vita, che si aggrappa ad ogni piccola speranza di rinascita come a uno scoglio nella tempesta, per poi essere inesorabilmente risospinta nel mare a causa dei suoi stessi errori.
In una perfetta alternanza tra dialoghi e flashback, il film scorre veloce fino al potente finale, aperto e in realtà chiuso, così come il futuro della protagonista. Allen realizza una tragedia con toni da commedia, confermando ancora una volta la sua eccezionale capacità nell'analizzare le miserie della vita quotidiana con occhio lucido e attento, offrendo un'analisi della società statunitense che colpisce per attenzione sociologica e approfondimento psicologico. Blue Jasmine regala forse il miglior personaggio femminile della cinematografia di Allen, e risulta uno dei suoi film più profondi e attuali, capace di raccontare attraverso la storia di un personaggio la fragilità e il grande vuoto morale di un paese intero.
****1/2
Pier
lunedì 2 dicembre 2013
Hunger Games - La ragazza di fuoco
E l'attesa continua...
Dopo essere sopravvissuta agli Hunger Games, Katniss vive in uno stato di continua tensione e inquietudine. I ricordi dell'evento la tormentano e, intorno a lei, la miseria dei distretti cresce. Inoltre fatica a mantenere il suo rapporto con Peeta, di cui in pubblico deve fingere di essere innamorata. Quando comincia il Tour dei Vincitori, Katniss comincia a rendersi conto che la ribellione serpeggia nei distretti, e che lei e Peeta sono visti come il simbolo della ribellione alla Capitale. Per mettere fine a queste voci, il Presidente organizza un'edizione speciale degli Hunger Games, che vedrà i vincitori delle passate edizioni scontrarsi tra loro.
Il primo capitolo di Hunger Games era eccessivamente lento e inconclusivo, ma era risultato efficace sia nel rappresentare il futuro distopico di Panem e le caratteristiche dei personaggi, sia nell'introdurre le tematiche di una trilogia che, giocoforza, si sarebbe sviluppata nei capitolo successivi.
La visione del secondo film lasca quindi l'amaro in bocca, dato che presenta gli stessi difetti, ma amplificati. La storia principale procede lentissima fino al finale che, come nel primo, risulta affrettato e inutilmente accelerato: i fatti più importanti avvengono tutti negli ultimi dieci minuti, senza che lo spettatore sia stato adeguatamente preparato.
Nelle due ore e venti minuti assistiamo a una replica degli Hunger Games inutilmente estesa e mal gestita: la regia migliora notevolmente la qualità delle riprese delle scene d'azione, ma sbaglia completamente la scelta dei momenti focali. Lo spettatore viene quindi sballottato da una morte all'altra senza esserne minimamente toccato emotivamente, a differenza di quanto accadeva nel primo film, e deve invece sorbirsi lunghi dialoghi esistenziali e campeggi notturni che sono un'esatta replica di quelli visti nel primo capitolo.
La prima parte del film risulta quindi la migliore, grazie al viaggio attraverso i vari distretti e agli emozionanti discorsi che i due sopravvissuti dedicano ai tributi scomparsi nell'ultima edizione. Tuttavia, anche qui il regista decide di contrentrarsi su scene che sono l'esatta replica di quelle del primo film, come il momento in cui Katniss sfida l'autorità nella prova di abilità, a scapito di una migliore analisi di molti dettagli importanti, che vengono invece affrontati sbrigativamente (il segno distintivo della ribellione, l'evoluzione del rapporto tra Peeta e Katniss nell'anno trascorso tra primo e secondo capitolo, i rapporti tra i vari Tributi).
A sorreggere il film ci pensano delle scene d'azione oggettivamente spettacolari, notevolmente arricchite e più elaborate rispetto a quelle del primo capitolo. Il loro succedersi incessante sopperisce in parte alla lentezza del film, rendendo veloce e godibile una parte centrale che, altrimenti, rischierebbe di scivolare nella noia.
Lo sviluppo dei personaggi risulta praticamente inesistente, fatta eccezione per quello di Katniss, la cui crescente insicurezza e nevrosi è ben costruita sia dalla sceneggiatura, sia dall'intensa interpretazione di Jennifer Lawrence, assolutamente perfetta per il ruolo. Peeta per larga parte del film è ancora il personaggio del primo capitolo, e non basta un singolo episodio (l'annuncio a sorpresa in tv) per rendere efficaci e credibili la sua crescita interiore e la sua maturazione.
I problemi principali, tuttavia, restano l'adattamento del finale e la resa dell'atmosfera complessiva. Il regista Francis Lawrence decide di essere del tutto fedele al libro e di far terminare il film nello stesso punto in cui finisce il suo corrispettivo cartaceo. Il cinema, tuttavia, ha tempi e ritmi narrativi diverso dalla letteratura, e un regista non può non tenerne conto in un adattamento cinematografico. Il regista avrebbe dovuto introdurre qualche elemento dell'ultimo capitolo già nel finale, al fine di rendere il film più esaustivo e "indipendente" dagli altri capitoli; in alternativa, avrebbe dovuto accelerare sulle parti ripetute, per concentrarsi sugli ingredienti nuovi di questo secondo capitolo. Proprio da questo elemento deriva anche il secondo problema: La ragazza di fuoco non fa pensare, non stimola quella riflessione intellettuale sul significato di libertà e dittatura che è invece centrale nella trilogia.
Hunger Games - La ragazza di fuoco è un buon film d'azione, che risulta però molto carente dal punto di vista narrativo e finisce per appiattire e banalizzare un materiale che potrebbe avere ben altro spessore con una resa più attenta e puntuale. La scelta di concentrarsi sugli elementi di continuità rispetto al primo capitolo (giochi su tutti), anzichè su quelli discontinui, penalizza il film e finisce per farlo sembrare un puro capitolo di passaggio anzichè un'opera in grado di reggersi sulle sue gambe. Quello che nel primo capitolo poteva essere un peccato veniale diviene nel secondo una pecca imperdonabile, che abbassa il livello della serie e la riduce a puro prodotto di intrattenimento, quando avrebbe tutte le carte in regola per essere qualcosa di più.
** 1/2
Pier
Dopo essere sopravvissuta agli Hunger Games, Katniss vive in uno stato di continua tensione e inquietudine. I ricordi dell'evento la tormentano e, intorno a lei, la miseria dei distretti cresce. Inoltre fatica a mantenere il suo rapporto con Peeta, di cui in pubblico deve fingere di essere innamorata. Quando comincia il Tour dei Vincitori, Katniss comincia a rendersi conto che la ribellione serpeggia nei distretti, e che lei e Peeta sono visti come il simbolo della ribellione alla Capitale. Per mettere fine a queste voci, il Presidente organizza un'edizione speciale degli Hunger Games, che vedrà i vincitori delle passate edizioni scontrarsi tra loro.
Il primo capitolo di Hunger Games era eccessivamente lento e inconclusivo, ma era risultato efficace sia nel rappresentare il futuro distopico di Panem e le caratteristiche dei personaggi, sia nell'introdurre le tematiche di una trilogia che, giocoforza, si sarebbe sviluppata nei capitolo successivi.
La visione del secondo film lasca quindi l'amaro in bocca, dato che presenta gli stessi difetti, ma amplificati. La storia principale procede lentissima fino al finale che, come nel primo, risulta affrettato e inutilmente accelerato: i fatti più importanti avvengono tutti negli ultimi dieci minuti, senza che lo spettatore sia stato adeguatamente preparato.
Nelle due ore e venti minuti assistiamo a una replica degli Hunger Games inutilmente estesa e mal gestita: la regia migliora notevolmente la qualità delle riprese delle scene d'azione, ma sbaglia completamente la scelta dei momenti focali. Lo spettatore viene quindi sballottato da una morte all'altra senza esserne minimamente toccato emotivamente, a differenza di quanto accadeva nel primo film, e deve invece sorbirsi lunghi dialoghi esistenziali e campeggi notturni che sono un'esatta replica di quelli visti nel primo capitolo.
La prima parte del film risulta quindi la migliore, grazie al viaggio attraverso i vari distretti e agli emozionanti discorsi che i due sopravvissuti dedicano ai tributi scomparsi nell'ultima edizione. Tuttavia, anche qui il regista decide di contrentrarsi su scene che sono l'esatta replica di quelle del primo film, come il momento in cui Katniss sfida l'autorità nella prova di abilità, a scapito di una migliore analisi di molti dettagli importanti, che vengono invece affrontati sbrigativamente (il segno distintivo della ribellione, l'evoluzione del rapporto tra Peeta e Katniss nell'anno trascorso tra primo e secondo capitolo, i rapporti tra i vari Tributi).
A sorreggere il film ci pensano delle scene d'azione oggettivamente spettacolari, notevolmente arricchite e più elaborate rispetto a quelle del primo capitolo. Il loro succedersi incessante sopperisce in parte alla lentezza del film, rendendo veloce e godibile una parte centrale che, altrimenti, rischierebbe di scivolare nella noia.
Lo sviluppo dei personaggi risulta praticamente inesistente, fatta eccezione per quello di Katniss, la cui crescente insicurezza e nevrosi è ben costruita sia dalla sceneggiatura, sia dall'intensa interpretazione di Jennifer Lawrence, assolutamente perfetta per il ruolo. Peeta per larga parte del film è ancora il personaggio del primo capitolo, e non basta un singolo episodio (l'annuncio a sorpresa in tv) per rendere efficaci e credibili la sua crescita interiore e la sua maturazione.
I problemi principali, tuttavia, restano l'adattamento del finale e la resa dell'atmosfera complessiva. Il regista Francis Lawrence decide di essere del tutto fedele al libro e di far terminare il film nello stesso punto in cui finisce il suo corrispettivo cartaceo. Il cinema, tuttavia, ha tempi e ritmi narrativi diverso dalla letteratura, e un regista non può non tenerne conto in un adattamento cinematografico. Il regista avrebbe dovuto introdurre qualche elemento dell'ultimo capitolo già nel finale, al fine di rendere il film più esaustivo e "indipendente" dagli altri capitoli; in alternativa, avrebbe dovuto accelerare sulle parti ripetute, per concentrarsi sugli ingredienti nuovi di questo secondo capitolo. Proprio da questo elemento deriva anche il secondo problema: La ragazza di fuoco non fa pensare, non stimola quella riflessione intellettuale sul significato di libertà e dittatura che è invece centrale nella trilogia.
Hunger Games - La ragazza di fuoco è un buon film d'azione, che risulta però molto carente dal punto di vista narrativo e finisce per appiattire e banalizzare un materiale che potrebbe avere ben altro spessore con una resa più attenta e puntuale. La scelta di concentrarsi sugli elementi di continuità rispetto al primo capitolo (giochi su tutti), anzichè su quelli discontinui, penalizza il film e finisce per farlo sembrare un puro capitolo di passaggio anzichè un'opera in grado di reggersi sulle sue gambe. Quello che nel primo capitolo poteva essere un peccato veniale diviene nel secondo una pecca imperdonabile, che abbassa il livello della serie e la riduce a puro prodotto di intrattenimento, quando avrebbe tutte le carte in regola per essere qualcosa di più.
** 1/2
Pier