giovedì 18 dicembre 2025

Father Mother Sister Brother

La poesia del quotidiano


New Jersey, Dublino, Parigi: tre città diverse per raccontare il rapporto di tre coppie di fratelli con i propri genitori, tra silenzi e incomprensioni. Perché possiamo scegliere tutti, ma non i parenti.

Nell’ormai lontano 2003, Jim Jarmush realizzò Coffee and Cigarettes, un film antologico il cui, attraverso il rituale di caffé e sigarette, il regista statunitense raccontava l’umanità e le sue nevrosi. Era un film spiazzante, difficile da digerire e apparentemente disconnesso come tutti i film a episodi, che però cresceva dentro, diventando sempre più omogeneo e coeso, man mano che ci si ripensava. Jarmush aveva preso la quotidianità e la aveva usata per parlare del senso della vita e di cosa ci rende davvero umani. Quello che non veniva detto era più importante di ciò che veniva detto, e il particolare nascondeva, per poi rivelarlo gradualmente, l’universale.

In Father Mother Sister Brother, sorprendente ma meritato vincitore del Leone d'Oro alla Mostra del Cinema di Venezia 2025, Jarmush riprende quell’approccio, ma questa volta per raccontare cosa significa essere figli, fratelli, una famiglia. L’assenza genitoriale (emotiva o reale) è il filo conduttore, ma ciò che accomuna gli episodi è l’impossibilità di comunicare. In Father, il primo episodio, Tom Waits è un genitore meravigliosamente cialtrone, di cui i figli (Adam Driver e Mayim Bialik) non si fidano fino in fondo e cui, soprattutto, non hanno nulla da dire.

In Mother, Charlotte Rampling vede le due figlie (Vicky Krieps e Cate Blanchett) una volta all’anno per un té pomeridiano ingessato e formale, totalmente disinteressata alle loro vite, di cui chiede per pura cortesia. In ambedue gli episodi l’incapacità di comunicare non è prerogativa dei genitori, ma si estende ai figli, dando vita a conversazioni esilaranti fatte di silenzi, luoghi comuni, totalmente mancanti di qualunque connessione emotiva.


Ma è nel terzo episodio, Sister Brother, che cogliamo la vera essenza del film: qui i due fratelli (Indya Moore e Luka Sabbat) si parlano, discutono, si aggiornano con sincero interesse sulle proprie vite, e lo fanno perché sono entrambi emotivamente vulnerabili, gli scudi abbassati, a causa della morte dei genitori. L’assenza emotiva si fa fisica, e le barriere cadono, aprendo le cataratte dei ricordi e mettendo in mostra un legame indissolubile che trascende le distanze spaziali e temporali.

E in quel momento si nota che, negli episodi precedenti, i figli faticavano a comunicare non solo con i genitori, ma anche tra loro, e che l’unico momento di vera, autentica connessione, l’unico momento di complicità veniva proprio dai genitori stessi: le bizzarrie del padre, i romanzi romance scritti dalla madre. Quella dei genitori è un’assenza che è anche presenza, un legame indissolubile, ineluttabile, un nodo gordiano emotivo di cui Jarmush mette in luce l’enorme complessità, le mille sfaccettature.

Jarmush connette gli episodi con alcuni elementi ripetuti, seguendo una struttura più poetico/musicale che filmica, con temi ricorrenti che scompaiono e riappaiono come fiumi carsici: dal brindare con bevande “inappropriate” a Rolex veri e finti, passando per espressioni gergali poco conosciute e la rilevanza delle automobili. Questi déjà vu tra i vari episodi contribuiscono ad aumentarne la coesione tematica e, soprattutto, a creare una risonanza emotiva, un’eco che cresce con il passare degli episodi fino a esplodere in tutta la sua potenza nel terzo, il più commovente, in cui l’assenza genitoriale abbatte le barriere e le parole e gli affetti fluiscono liberi e incontrollati, i non detti finalmente espressi.


L’elemento ricorrente più importante è però quello degli skater, che appaiono come una visione (con tanto di inquadratura al ralenti e aumento della luminosità): non un semplice dettaglio di trama, ma una metafora che si pone in antitesi alle vite dei protagonisti. Gli skater volteggiano liberi, all’aria aperta, laddove i protagonisti sono intrappolati in rituali e silenzi che, nel tenerli lontani, impediscono loro di vivere appieno. Sono cristallizzati, bloccati in un eterno presente dove ogni gesto, ogni parola è automatizzata, prevedibile, priva di significato. Agognano alla libertà, al librarsi in aria e a sospendere per un breve, lunghissimo istante la gravità, ma non riescono a concedersi di farlo. Solo la morte riesce a spezzare le catene e convincerli a uscire dalla prigione, concedendosi un attimo di connessione, un istante di leggerezza.

Il comparto visivo è, in apparenza semplice, senza artifici o palesi esibizioni di bravura, ma ogni immagine potrebbe essere una fotografia d’autore, uno spaccato di vita che cattura un attimo di verità, soprattutto quando pensiamo che nessuno ci guardi: mentre guardiamo fuori dalla finestra, dando le spalle a tutti, o mentre ci guardiamo allo specchio. Ci sono le inquadrature dall’alto rese celebri da Coffee and Cigarettes, ma anche dettagli, suggestioni, e oggetti, tanti oggetti: madeleine filmiche, "cose buone di pessimo gusto" che aprono una porta sull’anima nonostante tutti i nostri sforzi per tenerla chiusa a chiave. La musica, spesso importante nel cinema di Jarmush, è minimale, usata solo per le transizioni da un episodio all’altro e in uno dei momenti emotivamente più forti, in cui un semplice tragitto in auto diviene memoria, ricordo, ri-connessione.

Father Mother Sister Brother è un film di contrasti: esilarante e freddo per due terzi per poi diventare malinconico, accogliente, caldo, e farci rendere conto che il calore era lì fin dall’inizio, solo nascosto sotto il ghiaccio della formalità; un film all’apparenza semplice, eppure complesso, stratificato, in grado di usare la quotidianità per raccontarci chi siamo e scavare nella nostra anima. Jarmush si conferma uno dei più grandi poeti della macchina da presa contemporanei: un regista che racconta storie fatte di niente e, nel farlo, parla di tutto.

**** 1/2

Pier

Nota: questa recensione è stata originariamente pubblicata su Nonsolocinema.

mercoledì 17 dicembre 2025

Train Dreams

La bellezza di una vita


America, inizio Novecento. Un narratore senza nome racconta la vita di Robert Grainier. Orfano, inizia ben presto a lavorare come taglialegna in Idaho, durante l'espansione delle linee ferroviarie. La sua vita scorre sullo sfondo di una natura incontaminata e di rapporti personali e lavorativi che lo cambiano a poco a poco, mentre il mondo intorno a lui continua a scorrere.

Che valore ha una vita? Questa l'enorme domanda che si pone Clint Bentley, alla sua opera seconda come regista, in Train Dreams (già disponibile su Netflix), tratto dall'omonimo romanzo di Denis Johnson. A questa domanda si potrebbe rispondere adottando una prospettiva cosmologica, come fatto da Terrence Malick nei suoi ultimi lavori, guardando all'immensità della natura e alla piccolezza dell'uomo rispetto ad essa. In alternativa si potrebbe adottare una prospettiva più privata, intimista, focalizzandosi sulle piccole cose che costituiscono il nostro quotidiano, sulle gioie e i dolori di una vita semplice. Questo, ad esempio, l'approccio usato di recente da Wim Wenders in Perfect Days, o da Uberto Pasolini in quel gioiello di Still Life.

Bentley, con grande ambizione, decide di adottare ambedue le prospettive - sia macroscopica, sia microscopica - e lo fa raccontando la vita semplice di un uomo che vive a stretto contatto con la natura, la cui esistenza e sopravvivenza dipendono dalla natura e dal mantenere un equilibrio con essa. Un'operazione rischiosa, che Bentley completa con successo grazie a un grande talento per la narrazione, sia per parole che per immagini. 

Train Dreams è raccontato da una voce narrante: non è importante chi sia, perché ci sta raccontando una storia, una vita - la vita di Robert Grainier. Una vita semplice, come tutte, ma comunque abbastanza importante da essere raccontata, come tutte. Grainier cerca per tutta la vita un senso, un significato alla sua presenza in questo mondo, alle sue azioni: lo cerca quando è giovane e rimane orfano; lo cerca quando trova l'amore; lo cerca quando una tragedia segna la sua vita; e lo cerca quando, ormai anziano, smette di fare il lavoro che ha fatto per tutta una vita, quello di taglialegna. Alla fine lo trova, e scopre che era stato davanti a lui fin dall'inizio. La storia di Robert è quella di un viaggio interiore, che lo porta a conoscere se stesso e a riconoscere il suo ruolo nel mondo. Joel Edgerton è straordinario nel ruolo del protagonista, e offre un'interpretazione perfettamente intonata al tema del film: il suo Robert è fatto di silenzi, preferisce ascoltare al parlare, e ha occhi che parlano, scrutano, cercano.

La storia di Train Dreams però non è solo quella di Robert: è anche quella delle persone che incontra sul suo percorso, dal suo mentore nel mondo dei taglialegna (un meraviglioso William H. Macy), di sua moglie (Felicity Jones, sempre ottima), di una donna di cui sfiora la vita quando ormai è in là con gli anni (Kerry Condon in un cameo breve ma emotivamente potentissimo). C'è, soprattutto, la natura, i boschi che Robert taglia per vivere ma che al tempo stesso costituiscono il teatro della sua vita, il luogo in cui vive gioie e dolori, in cui nascono i suoi ricordi più belli e i suoi rimorsi più atroci, e in cui scopre lentamente se stesso. L'immensità e la stordente bellezza della natura, così come la sua devastante furia, vengono raccontate con una fotografia calda, struggente, che vive di luce naturale e la restituisce allo spettatore con la potenza evocativa di un'alba, di un tramonto, riuscendo sempre a essere realistica e mai da cartolina.

Train Dreams ha tanti genitori, sia cinematografici che non. C'è Malick, il debito più evidente a livello visivo, ma c'è anche Truffaut; ci sono tutti i cantori delle vite semplici e degli Stati Uniti che cambiano senza cambiare, da Steinbeck a John Edward Williams; ci sono, soprattutto, i poeti del rapporto uomo-natura, Robert Frost e Walt Whitman, e la loro capacità di raccontare il mondo interiore evocando la sorprendente bellezza e durezza di quello isteriore.

Bentley realizza un film lirico ma in grado di intrattenere, evocativo ma realistico, universale ma in grado di raccontare alla perfezione i cambiamenti di una società. Train Dreams commuove per la sua semplicità, per la sua capacità di raccontare l'eccezionalità di una vita, di ogni vita, senza bisogno di spettacolarizzarla, ma concentrandosi proprio sull'ordinarietà, sulle piccole cose che tendiamo a dare per scontate, ma che al loro interno contengono moltitudini.

*****

Pier

The Smashing Machine (In pillole #35)

Imparare a perdere


Benny Safdie racconta la storia vera di Mark Kerr, lottatore di arti marziali miste, cui Dwayne Johnson presta volto e corpo, raccontandone la forza fisica e la fragilità emotiva. La prestazione di Johnson è il principale elemento di interesse in quello che, per il resto, è un solido film sportivo, molto tradizionale nell'impianto ma fotografato con un taglio semi-documentaristico che accresce l'impatto di alcune scene.

Il film ha il anche il pregio di non raccontare una classica parabola di caduta-redenzione-rinascita, ma quella di un'accettazione della sconfitta come parte della vita. Questa parabola è comunque presente grazie alle vicende di Mark Coleman, amico e collega di Kerr che invece la segue perfettamente. Safdie dà centralità alla storia di Coleman per far emergere per contrasto la particolarità di quella meno convenzionale di Kerr. 

Il risultato è un film che non brilla per originalità - visto il regista era forse lecito aspettarsi qualcosa di più - ma funziona a livello narrativo ed emotivo grazie a una solida e sorprendente prova del suo protagonista, messo al centro della vicenda senza spettacolarizzazione o tentativi di mimesi da actor studio, ma con un realismo che colpisce e contribuisce a costruire una morale non scontata su cosa significhi "vincere" nello sport e nella vita.

*** 1/2

Pier