giovedì 29 gennaio 2015

The Imitation Game

Imitation of life



Il film racconta la vita di Alan Turing, il matematico inglese che costruì la macchina che permise di decrittare il codice Enigma usato dai nazisti per le comunicazioni, aiutando così la Gran Bretagna a vincere la Seconda Guerra Mondiale. Turing, che fu anche il pioniere dei moderni computer, morì suicida a soli 41 anni in seguito alla condanna per la sua omosessualità, ai tempi punibile con la prigione o la castrazione chimica.

Imitation of life, cantavano i REM nel 2001. Il titolo di quel singolo ben si adatta alla trama del film, in cui l'imitazione della vita, il tentativo di ricreare comportamenti e pensieri umani e "normali", è al centro delle vicende narrate. Il parallelismo tra la ricerca di Turing e la sua vita privata è evidente fin dalle prime scene: da un lato il suo lavoro, volto a creare un'intelligenza artificiale in grado di pensare come un essere umano, seppur in modo diverso; dall'altro la sua difficoltà nel confrontarsi con il mondo, il suo tentativo fin da giovane di imitare gli altri per proteggere la propria diversità da una società che non la accetta. La differenza, tuttavia, sta nell'esito: laddove la sua ricerca riesce, il suo tentativo di mimetizzarsi fallisce miseramente. Troppa la sua diversità, troppa la sua eccezionalità per riuscire a nascondersi, a sembrare "normale". Come suggerisce Joan Clarke, la matematica che aiutò Turing a decrittare Enigma, se Turing fosse stato "normale" non avrebbe raggiunto gli eccezionali risultati che ha ottenuto.

Il tema della diversità, della sua non-accettazione da parte della società e del suo nascondimento è centrale in The Imitagion Game, in cui tutti nascondono segreti e il nemico sembra sempre essere invisibile. La sfida per decrittare Enigma, ma soprattutto la decisione presa dopo aver decifrato il codice, divengono uno specchio delle lotte interiori del protagonista, ma anche di chi lo circonda: Joan Clarke è una donna in un mondo di uomini, condannata dalla società a un ruolo che non accetta; il Comandante Deniston (lo splendido Charles Dance) è un soldato che vorrebbe combattere in campo aperto, ma è costretto a ricorrere a matematici e crittografi per vincere la guerra; Stewart Menzies, capo del neonato MI6, nasconde e gestisce segreti inconfessabili, dalla presenza di una spia russa tra i crittografi alla decisione di lasciar riuscire alcune missioni tedesche per non far loro scoprire che Enigma era stato decrittato. La crittografia diviene metafora della vita, dove il significante è sempre diverso dal significato, il segno dal suo contenuto.

E poi c'è quella scena che vale il film.

Il film è girato in modo rigoroso, senza spunti creativi né sbavature, con un impianto classico teso a sottolineare ed esaltare la prova degli attori. Spicca, brilla, splende di luce propria Benedict Cumberbatch, eccezionale in un ruolo solo apparentemente simile a quello di Sherlock Holmes che gli ha donato la fama. Ogni suo gesto, ogni sua espressione, ogni sua inflessione vocale restituisce un aspetto della personalità di Turing, creando un ritratto a tutto tondo del genio britannico che colpisce per profondità psicologica e sensibilità emotiva. Turing non è un disabile, non ha deformazioni fisiche: la sua "anormalità" è interiore, e in quanto tale molto più difficile da rappresentare. La diversità di Turing non dipende solo dal suo essere omosessuale, bensì da un'incapacità di comprendere il mondo e le sue convenzioni. Cumberbatch riflette questa sensazione di estraneità regalando un personaggio vivo e vibrante, senza gli inutili eccessi, le urla e le pantomime che altri attori avrebbero adottato.
Intorno a lui si muove un cast orchestrato alla perfezione da una sceneggiatura a orologeria, che a volte indulge eccessivamente momenti patetici ma racconta la trama con ritmo ed efficacia.

The Imitation Game non è un film visionario nè un film che passerà alla storia del cinema. E' però un film onesto, rigoroso e avvincente, che racconta con sincerità e un pizzico di humor british la solitudine che deriva dalla grandezza e dall'essere eccezionalmente anormali.

****

Pier

venerdì 23 gennaio 2015

Whiplash

Quite a perfect tempo



Andrew studia batteria jazz nella più prestigiosa scuola di musica del paese. Sogna di diventare una leggenda, come Charlie Parker, e si esercita per ore per raggiungere il suo sogno. Finalmente riesce a entrare nella band di punta della scuola, diretta dal famoso quanto temuto Terence Fletcher. Dopo un inizio apparentemente positivo, Andrew scopre sulla sua pelle la tirannica natura di Fletcher, che lo spingerà fino allo stremo della sua resistenza fisica e mentale.

La trama di Whiplash non brilla certo per originalità: il giovane talento, l'insegnate esigente ai limiti della violenza psicologica, la sofferenza, le difficoltà di comunicazione. Il film dimostra, tuttavia, come anche il tema più abusato possa essere rielaborato in modo originale e avvincente quando si ha qualcosa da dire e si sa come dirlo. Whiplash è un piccolo capolavoro all'interno del panorama indipendente statunitense, un film "da Sundance" - sceneggiatura solida e ben scritta, attori perfetti - che esibisce una regia innovativa, interessante e pressoché perfetta. Damien Chazelle dirige il suo film con un'unicità d'intenti unica e ammirabile, facendo suonare all'unisono i vari elementi del film come un direttore d'orchestra.  

Whiplash ha il ritmo frenetico e serrato di un'improvvisazione jazz, un uptempo continuo che non lascia un attimo di respiro né a chi suona né a chi assiste, un flusso continuo in cui alcuni temi ripetuti, sia a livello visivo (le ferite sulle mani di Andrew) che verbale (il "Not quite my tempo" con cui Fletcher tormenta Andrew), si alternano a inquadrature uniche, non convenzionali, deviazioni dallo spartito che vi si integrano però alla perfezione grazie alla bravura degli esecutori. Il montaggio e la fotografia si fondono alla perfezione, e supportano una sceneggiatura solida, portatrice di idee e umorismo non banali. La colonna sonora assurge al ruolo di protagonista, con la batteria che scandisce praticamente ogni momento del film, con virtuosismi ed espressività che solitamente non vengono associate a questo strumento.
Il giovane Miles Teller dona corpo e anima al protagonista, impegnato nella lotta per il proprio futuro e la propria affermazione contro il tirannico Fletcher, interpretato da un magnifico J.K. Simmons, giustamente nominato all'Oscar.

Tutti questi elementi sono sapientemente amalgamati dal regista, che realizza un film intenso ed emotivamente avvincente, con un ritmo perfetto e incalzante, che non dà un attimo di respiro e fa tenere gli occhi incollati allo schermo. Whiplash è un piccolo gioiello di musica, ritmo, immagini e parole: non perdetelo.

**** 1/2

Pier


venerdì 16 gennaio 2015

Hungry Hearts

Quando l'emozione è SciAlba



Mina e Jude sono due giovani che si incontrano per caso a New York. Lei italiana, lui statunitense, cominciano a frequentarsi, si innamorano, si sposano, hanno un figlio. Proprio con la nascita del bambino iniziano i problemi: Mina è ossessionata dal mantenere il figlio "puro", e per questo non lo fa uscire di casa e non lo nutre in maniera appropriata. Quando Jude si rende conto che il figlio è a serio rischio di malnutrizione inizia a dargli da mangiare di nascosto e a portarlo da un medico. Mina lo scopre, e lo scontro tra i coniugi esplode, divenendo sempre più aspro.

Non fatevi ingannare dalla doppia Coppa Volpi: Hungry Hearts è un film che ha il suo punto debole nella sceneggiatura e nella recitazione della protagonista, mentre - come sempre nei film di Costanzo - convince per la buona realizzazione a livello visivo, con una fotografia ispirata e a tratti hitchcockiana e un montaggio molto interessante.
Peccato per il resto: la sceneggiatura è scadente, soprattutto nella costruzione del personaggio femminile, che passa dall'essere più o meno normale a comportarsi come una pazza lunatica nel giro di due scene. La trama è debole e mal costruita, soprattutto nella prima metà, quando il film vorrebbe raccontare la parte serena del matrimonio di Mina e Jude. La pellicola si apre con una scena a tema scatologico che starebbe bene in un cinepanettone, e prosegue con una love story da operetta che, fino alla nascita del figlio, è meno appassionante di un film delle vacanze.

Nella seconda parte la tensione cresce e il film acquista in ritmo, ma cominciano i problemi di recitazione. La parte della madre è affidata a (Sci)Alba Rohrwacher, come tutti i ruoli di donne disturbate negli ultimi cinque anni di cinema italiano, che offre una prova monocorde, con un viso sempre in bilico tra pianto e disprezzo, anche quando il copione non lo richiede. Voi vi chiederete: "E perché allora le hanno dato la Coppa Volpi a Venezia?" La risposta è semplice: i giurati non l'hanno mai vista, e hanno pensato che questa prova non fosse l'esatta replica di (quasi) tutte quelle precedenti;  inoltre quest'anno a Venezia c'erano solo tre film in concorso con protagoniste femminili, e la competizione non era quindi esattamente agguerrita. La recitazione della Rohrwcher affossa anche il messaggio del film sull' "amore eccessivo": il personaggio di Mina è troppo estremo, troppo sopra le righe perché si possa empatizzare con lei, perché si possa capire che la sua follia deriva da un forte amore per il figlio. La sua follia risulta solo follia, il delirio di una psicotica senza motivazioni reali né umanità. Un peccato, questo, perché l'obiettivo del film era ben altro.
La pellicola si regge quindi sulle spalle di Adam Driver, per cui passare dal set di Scorsese o del nuovo Star Wars a lavorare con la Rohrwacher deve essere stato un trauma non da poco. Driver è intenso senza essere eccessivo, naturale senza essere banale, e regala una prova commovente e vera, che fa sì che lo spettatore parteggi ancora di più per il suo personaggio.

Hungry Hearts è un film scialbo come la sua protagonista, che non emoziona e non coinvolge, se non nei momenti in cui Jude si ribella e manda a quel paese la moglie. L'unico pregio è quello di far vedere la follia cui può portare il fanatismo legato al cibo. Un film da far vedere ai vostri amici e conoscenti vegani quando vi guardano con aria critica mentre addentate una bistecca, ma purtroppo non la riflessione sull'amore genitoriale e sulla nutrizione che voleva essere.

**

Pier

domenica 4 gennaio 2015

Big Hero 6

Curare il cuore con il divertimento



Hiro Hamada è un piccolo genio con la passione per i robot. Con le sue creazioni vince regolarmente i bot fight che si tengono clandenstinamente nei vicoli di San Fransokyo, immaginaria città che fonde le due anime del Pacifico. Una sera Hiro sta per cadere preda delle ire di uno sconfitto, ma viene salvato dal fratello Tamada, con cui è cresciuto dopo la morte dei genitori. Il fratello lo porta a visitare l'istituto di ricerca universitario sulla robotica per cui lavora. Tamada presenta a Hiro i suoi colleghi, strambi ma simpatici, e la sua ultima creazione, Baymax, un robot infermiere gonfiabile, tondo e gioviale. In seguito a questa visita, Hiro decide di provare a entrare all'università, e per farlo partecipa alla fiera dell'innovazione con un'invenzione rivoluzionaria. Non tutto va però per il verso giusto, e Hiro si ritroverà ad affrontare una minaccia misteriosa con l'aiutante più improbabile cui potesse pensare.

La Disney per la prima volta non adatta una celebre fiaba, ma un fumetto Marvel, che mantiene però molti degli stilemi propri dei classici disneyani: un ragazzo orfano e pieno di risorse; degli amici strambi ma generosi; e un nemico misterioso ma legato al passato del protagonista. Il risultato è un film d'animazione moderno, vivace e coinvolgente, con una trama abbastanza originale da essere godibile e dei personaggi ben costruiti e convincenti. Se Hiro commuove e coinvolge per la sua naturalezza e umanità, a rubare la scena è però il robot Baymax, che entra di diritto tra le spalle comiche più memorabili della storia dell'animazione statunitense. Baymax unisce un'eccezionale comicità fisica a una dolcezza e un'innocenza uniche, che lo rendono simile ai grandi personaggi del cinema muto, da Charlot a Buster Keaton.

Big Hero 6 conquista soprattutto quando parla di sentimenti, di amicizia e della necessità di non tradire la propria natura. I combattimenti e gli inseguimenti, pur visivamente eccellenti, sono solo un riempitivo all'interno di una storia che fin dalle prime scene decide di fare dei rapporti umani (e robotici) il suo centro narrativo ed emotivo, e vince in pieno la scommessa. Nel finale ci si commuove, e non è poco: una bella sorpresa di Natale.

*** 1/2

Pier

PS: cara Disney Italia, c'era proprio bisogno di commissionare una canzone all'illustre sconosciuto Moreno? Il risultato è un prodotto ai limiti dell'imbarazzante, con rime da prima elementare e ritmi osceni. La prossima volta evitiamo, grazie.
Per i forti di stomaco, qui trovate il video della "canzone".

venerdì 2 gennaio 2015

American Sniper

Un western contemporaneo



Chris Kyle è un cowboy texano, che compete nei rodeo per vivere. Colpito dagli attentati contro le sedi diplomatiche USA in Tanzania e Kenya, nel 1999 si arruola nei Navy Seals, dove viene addestrato come cecchino. Nel 2003 viene dislocato in Iraq, dove diviene il cecchino più letale della storia dell'esercito statunitense, nonché una leggenda tra i suoi pari. La sua precisione sul campo di battaglia non è però senza prezzo, e anche quando torna da moglie e figli Chris trova sempre più difficile staccare la mente dalla guerra e dal cecchino "rivale", Mustafa, letale quanto e più di lui.

Dopo le escursioni nei territori inesplorati dello sport, del soprannaturale e del musical, Clint Eastwood torna a girare un film nelle sue corde, la biografia di un eroe di guerra raccontata con i toni di un western contemporaneo, in cui il nemico è un tiratore tanto formidabile quanto sfuggente, e l'esito dello scontro non può che essere deciso da un duello tra i due cecchini. Eastwood sceglie una regia veloce, asciutta e incisiva, che lascia poco spazio a patetismi e momenti che dovrebbero suscitare la lacrima in chi guarda. Il film diviene così una cronaca di guerra, un crudo racconto dei fatti in cui lo spettatore non viene chiamato a immedesimarsi, ma a guardare dall'esterno, osservatore silenzioso di una lotta tra bene e male in cui il confine tra i due diviene sempre meno definito.
Eastwood non risparmia scene molto crude, con bambini che vengono uccisi e torturati dalle due opposte fazioni, e maschera sotto un apparente patriottismo uno scetticismo generalizzato per una guerra al terrorismo che ha riportato l'orologio ai tempi della conquista della frontiera, in cui non esistono campi di battaglia, e si combatte tra le strade, nelle case, in un deserto di sabbia che può divenire da un momento all'altro un'arma in grado di distruggere le parti in gioco. L'influenza dei film di Leone è evidente, e in alcune scene diviene addirittura esplicita, grazie anche a una fotografia che esalta la luce accecante e l'atmosfera soffocante del deserto.

La velocità con cui si sviluppa la trama risulta a volte eccessiva, ma riflette l'interesse del regista non per la storia, ma per il suo protagonista, di cui indaga ogni cambiamento con precisione certosina. Bradley Cooper offre una prova sontuosa, uno studio del personaggio di altissimo livello che riesce a trasmettere il vuoto che cresce in Chris Kyle man mano che il numero delle sue vittime cresce, alimentando la sua fama e la sua leggenda. Eastwood supporta la sua prova con intensi e continui primi piani, accompagnati da silenzi gravidi di emozioni, sensazioni, cambi d'umore repentini come l'arrivo di una tempesta di sabbia.

American Sniper non raggiunge le vette emotive di altri film di Eastwood, ma non lo fa per una precisa scelta registica di raccontare la guerra in Iraq attraverso gli occhi di un uomo che ritiene di essere nel giusto, ma che vede le sue certezze divenire sempre più fragili, una maschera che indossa di fronte al mondo, destinata a crollare con il passare del tempo. Il film è forte, intenso nella sua studiata freddezza, il racconto atipico di una guerra tanto atipica da avere ancora bisogno di pistoleri infallibili e duelli sotto il sole rovente del mezzogiorno.

*** 1/2

Pier