sabato 31 gennaio 2009

Home

Spiazzante


Strano. E' l'aggettivo che meglio descrive il primo film di Ursula Meier "Home". 
Il trailer, in questo senso, distoglie lo spettatore dal vero senso del film, la cui natura non è comica, quanto travagliata e angosciosa, rasentando diversi generi come la commedia, il dramma, l'horror, senza mai abbracciarne uno definitivamente.

La storia è quella di una allegra e felice famiglia francese che vive in una curiosa e affascinante casa dispersa nel nulla e nella campagna, a fianco di un tratto di autostrada abbandonato. La spensieratezza, descritta in modo idilliaco, si interrompe bruscamente quando il tratto autostradale, e-57, viene riaperto. Da quel momento, sarà un'escalation di fattori che porterà la famiglia alla pazzia.

L'idea di per se è tanto geniale quanto inverosimile. Il significato allegorico di fondo è contornato da una serie di scene che per assurdità risultano comico/dramatiche, come i due ragazzini che attraversano il tratto per andare a scuola o ancora l'attraversamento per portare un frigorifero da una parte all'altra della strada.
La cosa bella del film, a mio parere, è la graduale distruzione di una situazione felice e spensierata che porta a cambiare la psicologia dei personaggi dall'inizio alla fine, sconvolgendo e spiazzando lo spettatore.

Il dramma è quello di una famiglia, segnata dagli eventi, incapace di reagire e destinata a soccombere. La pazzia e le scelte fatte, sono di un'angoscia forte e claustrofobica dettata sopratutto dall'impotenza e l'incapacità di reagire. Il finale è un sollievo, è lieto, e ci si domanda se forse sarebbe stato meglio uno più duro, crudo, coerente con il degenerare degli eventi.

Il film è tutt'altro che leggero, è forte, pesante per significato e scene, un dramma più che una commedia come potrebbe sembrare a prima vista. Da sottolineare la prova degli attori, su tutti la madre, Isabelle Huppert e il padre, Olivier Gourmet.

Da vedere!

***
Alessandro


mercoledì 28 gennaio 2009

Appaloosa

Il western non è morto, viva il western!



Appaloosa è un film d'altri tempi, un western classico, fatto di paesaggi e lunghe cavalcate, in cui lo scontro verbale è preferito a quello con le armi, che pure arriva nel più classico dei mezzogiorni di fuoco.

Ed Harris racconta la storia di due avventurieri, Virgil Cole e Everett Hitch, che si guadagnano da vivere riportando l'ordine nelle città oppresse dai fuorilegge. Sono diretti ad Appaloosa, una piccola cittadina nel New Mexico tenuta sotto scacco da Randall Bragg, ranchero col grilletto e la parlantina facile. Cole e Hitch vengono ingaggiati per difendere la città e assicurare Bragg alla giustizia. Tutto sembra procedere per il meglio, ma l'arrivo della maliziosa signorina French sconvolgerà le regole del gioco.

La regia è quanto di meglio si possa desiderare se amate i western di John Ford: grande cura nella composizione dell'inquadratura, molti primi piani che si alternano con paesaggi sconfinati e selvaggi.

Ottima anche la composizione del cast: Jeremy Irons è un perfetto villain, Ed Harris con un solo sguardo riesce a comunicare tutto quello che l'orgoglio gli impedisce di dire.
Un discorso a parte va fatto per Viggo Mortensen, che conferma di essere uno dei migliori attori emersi negli ultimi anni. La sua interpretazione dell'eroe classico, pronto a sacrificarsi per l'amico, è esemplare per espressività e intensità.

Unico neo, ma ammetto di essere prevenuto, la presenza di Renee Zellweger, con la solita interpretazione tutta smorfie e moine che proprio non riesco a sopportare.

Ed Harris riporta in vita personaggi e mondi che sembravano perduti per sempre, regalandoci, ancora una volta, un eroe solitario che cavalca lentamente verso il tramonto.


****

Pier

lunedì 26 gennaio 2009

Tutti insieme inevitabilmente

Per 90 minuti senza pensieri


Stendiamo un velo pietoso sulla solita fantasiosa traduzione del titolo (in originale Four Christmases), e passiamo alla trama.


Tutti insieme inevitabilmente
è un film natalizio fuori stagione: Brad e Kate sono una coppia californiana non sposata, che a Natale fa di tutto per non dover andare a far visita ai rispettivi genitori, tutti divorziati.

Il loro volo per le Isole Fiji viene però annullato e un'intervista televisiva fa sì che i genitori vengano a sapere della loro permanenza forzata in città.

Tutti insieme inevitabilmente è divertente solo a tratti, con evidenti pause e alcuni inutili sentimentalismi.
Il film si regge interamente sulla simpatia della coppia Witherspoon - Vaughn, aiutati da una sceneggiatura che, pur non avendo nessun guizzo particolare, riesce a far risaltare le qualità comiche dei protagonisti, rendendo il risultato finale comunque piacevole.

Apprezzabili e divertenti i camei di Robert Duvall e Sissy Spacek, più didascalico e fuori posto quello di Jon Voight.

Un buon film per chi vuole farsi due risate senza pretese.

** (*****)

Pier

venerdì 23 gennaio 2009

Milk

Biografia d'autore



Quando lessi che Gus Van Sant, uno dei miei registi prediletti, avrebbe diretto un film biografico sulla storia di Harvey Milk, attivista per i diritti degli omosessuali nell'America iperconservatrice degli anni '70, la mia prima reazione fu perplessa.

Non vedevo, sinceramente, come un film del genere potesse esaltare le capacità visive e registiche di Van Sant. Poi mi sono detto: si è meritato la mia fiducia, aspettiamo il risultato.

Il risultato è Milk, un film sincero, quasi del tutto privo di retorica e di quella tendenza all'agiografia che di solito caratterizza
questi film.

La mano di Van Sant si vede, ma senza essere ingombrante: il film è interamente girato in digitale, e questo, insieme a un largo uso di filmati d'epoca, dà a Milk un taglio quasi documentaristico che lo rende vero ed immediato.

Alcune scene sono da antologia, in particolare l'ultimo incontro-scontro tra Penn e Brolin, dove appare più evidente il lavoro sul sonoro operato da Van Sant.


Sean Penn è bravo come sempre, ma sono i personaggi minori il vero valore aggiunto del film: Emile Hirsch è eccezionale, ma anche le interpretazioni di Josh Brolin e James Franco contribuiscono a rappresentare, in poche scene, le diverse facce di un movimento e di un periodo storico molto complessi.

Tutto bene? Non del tutto: nel finale, infatti, Milk scivola nel difetto che era fino a quel momento riuscito ad evitare, peccando inutilmente di retorica.

Una torta non del tutto perfetta, quindi, condita però dalla ciliegina di un'ottima colonna sonora.

***1/2 (*****)

Pier

giovedì 22 gennaio 2009

Lasciami entrare

Vorrei, ma non posso



Vincitore del Tribeca Film Festival, e acclamato un po' in tutto il mondo come un piccolo gioiello, Lasciami entrare racconta la storia di un ragazzino che vive in provincia di Stoccolma. Solo ed isolato, è spesso costretto a subire le angherie dei bulli della scuola. Fino a quando nell'appartamento vicino al suo si trasferisce una sua coetanea, con la quale nasce subito una forte intesa.

Già visto? Non proprio, dato che la ragazzina in questione si rivela essere una vampira, con tutte le conseguenze e le complicazioni del caso.

Questo il soggetto, ottimo e originale. Peccato che rimanga anche la cosa migliore del film.

Con il passare dei minuti, infatti, Lasciami entrare rivela tutti i suoi difetti: lento, lentissimo a tratti, non riesce a far scattare nello spettatore la scintilla in grado di farlo appassionare al film.
La tensione è poca, la suspense pressochè inesistente.

Una menzione a parte merita la giovane attrice protagonista, Lina Leandersson, brava e convincente, a differenza del protagonista maschile, una sorta di Piccolo Lord Fauntleroy disadattato.

Appena uscito dalla sala, la tentazione è quella di bollare il film con epiteti di fantozziana memoria.
Poi, riflettendo, tornano in mente scene davvero ben fatte, a volte inquietanti (la sequenza dei gatti su tutte), a volte persino emozionanti.
E allora rimane il rammarico per un'occasione persa, per un film che, con una regia più coraggiosa e con meno fronzoli e una sceneggiatura più accurata, avrebbe potuto essere un bel lavoro.

** (*****)

Pier

Benjamin Button e The Millionaire in testa


David Fincher con il suo attesissimo "Lo strano caso di Benjamin Button" e Danny Boyle, fresco fresco di un Golden Globe per il film "The Milionaire" si contendono il premio di film con piu' statuette del 2009. Il primo vanta ben tredici candidature,e ispirandosi al racconto di Scott Fitzgerald del 1922, narra la vicenda di un uomo il cui ciclo di vita e' capovolto, nascendo anziano e ringiovanendo nel corso degli anni. Il secondo film di Danny Boyle, ottenuti riconiscimenti di critica e pubblico, racconta le sorti di un povero ragazzo indiano che vince un'ingente somma di denaro ad un quiz televisivo. A seguire con "solo" otto nomination troviamo "Il Cavaliere Oscuro" di Cristopher Nolan e "Milk" di Gus Van Sant.

Da queste candidature si intravede, forse per la prima volta, il primo riconoscimento di Hollywood ai cosidetti "giovani" registi (si fa per dire, Fincher ha 47 anni, Nolan 39 e Boyle addiritura 55). Tutti e tre, infatti, si sono fatti conoscere al grande pubblico a partire dalla meta'/fine degli anni '90. David Fincher, regista cupo e tormentato, amante dei thriller psicologici e visionari, si e' fatto conoscere nel 1995 con "Seven" e ha consolidato la sua fama come nuovo regista hollywodiano nel 1999, con il film tratto dal romanzo di Chuck Palahniuk "Fight Club".
Danny Boyle esordisce con il suo primo lungometraggio solo nel 1994, ma sara' due anni piu' tardi, con "Trainspotting" (1996), che il regista otterra' fama e successo.
E infine Nolan, il piu' giovane dei tre, ma , probabilmente, quello con piu' capacita' filmiche. Chi non ricorda lo splendido "Memento", girato a soli 30 anni e in soli 25 giorni, dove si la storia si sviluppa in blocchi che vanno indietro nel tempo, disorientando lo spettatore costringendolo a immedesimarsi nello sforzo del protagonista di scoprire se stesso.

Accanto a questa nuova generazione di registi che ha solo 15 anni, se ne contrappone una di ben piu' fama ed esperienza. Gus Van Sant e Ron Howard sono registi con una decina d'anni di girato in piu', iniziando durante la meta' degli anni '80. Come gli Oscar ci hanno sempre abituati, il piu' talentuoso dei due, Van Sant, e' quello all'asciutto di statuette, mentre Howard vinse nel 2002 con "A Beautiful Mind". Van Sant e' un regista tormentato, che personalmente io apprezzo molto; e' crudo, freddo e violento. Nei suoi film, egli racconta il disagio giovanile dei ragazzi americani di provincia. Lo abbiamo visto in "Paranoid Park" e in "Elephant", dove il regista si trasforma in gelido narratore di fatti traviati e maniacali, ma ancor di piu' aumenta la sua crudezza nei suoi primi film "Cowboy Drugstore" e "Belli e Dannati", dove, in alternanza ad immagini stile Pink Floyd, il regista dipinge uno squallido scenario di cittadina di provincia americana con la neutralita' e normalita' che lo hanno sempre contradistinto. Ron Howard e' un mediocre, classico regista americano della piu' tradizionale classe hollywodiana sopravvalutata, capace, sì, di sfornare campioni d' incassi, ma di lasciare ben poco agli spettatori.

Sorpresa, anche se non troppo, e' la candidatura di Head Ledger, morto un anno fa a 28 anni, come attore non protagonista per il bellissimo film di Nolan. Anche se si potrebbe pensare ad un atto di carita' dell'Accademy, la candidatura e' assolutamente meritata per una grande interpretazione del Joker nell'ultimo film di Batman.

Infine, tra gli attori protagonisti il duello sara' tra Sean Penn, attivista gay nel film di Van Sant "Milk", e Brad Pitt, protagonista invecchiato nella commedia di Fincher. Come attrici, l'ha spuntata la Winslet nel film "The Reader" e Meryl Streep (potenzialmente il suo terzo oscar) per il film impegnato "Il Dubbio".

Scandalosa l'esclusione da miglior film e regia del film di Clint Eastwood "Changeling" e sorprende un po' anche la mancanza del film di Woody Allen "Vicky Cristina Barcelona".

Per vedere tutte le candidature andate al sito http://www.oscar.com/nominees/?pn=nominees .

Attendiamo con trepidazione il 22 febbraio.

Alessandro

mercoledì 21 gennaio 2009

Valzer con Bashir

Quando la memoria incontra il sogno

Quando si parla di un film come Valzer con Bashir, è difficile trovare le parole giuste. E' difficile parlare di certe immagini, descrivere le emozioni suscitate da alcuni momenti del film, in cui il sogno e la memoria si incontrano, si mescolano, si confondono.

Il film è impostato come un lungo documentario, raccontato attraverso immagini animate.
Narra la storia dello stesso regista, Ari Folman, il quale, parlando con un amico, si accorge di avere rimosso praticamente tutto quanto accaduto durante i mesi che condussero al massacro portato a termine dalle Falangi cristiano-maronite nei campi di Sabra e Chatila., durante l'occupazione israeliana di parte del Libano.

Decide allora di intervistare dei vecchi commilitoni per provare a ricostruire il ricordo di quei giorni, intraprendendo un percorso simile a quello del protagonista di Memento.
Ma qui il protagonista non è il passato: la protagonista è la memoria con i suoi meccanismi, la sua capacità di cancellare alcuni ricordi e di rendere episodi mai accaduti assolutamente reali.

Il disegno ricorda quello di alcuni fumetti di Corto Maltese, con chiariscuri fortemente accentuati e una grande attenzione agli effetti della luce.
Il lirismo e la delicatezza di alcune scene, come quella che dà il titolo al film creano un forte contrasto con la ferocia e la durezza delle immagini della strage e del dolore delle famiglie.

Valzer con Bashir non ha alcuna pretesa particolare: vuole solo raccontare una storia, ricreare una memoria collettiva attraverso un collage dei ricordi privati dei protagonisti.
Così, in un'alternanza continua di momenti drammatici, lirici, poetici, e persino comici, questo film ci ricorda come la forza del cinema non stia sempre nel dialogo, ma spesso anche nell'immagine.
Perchè è l'immagine ciò che riesce a suscitare quelle emozioni che pochi film riescono a generare, quelle emozioni che rimangono salde nella memoria, anche dopo molto tempo.

Valzer con Bashir è uno di quei film. Non perdetelo.

****1/2 (*****)

Pier

W.

La vita del presidente peggiore della storia degli Stati Uniti


Era dai tempi di Nixon e la guerra nel Vietnam che un Presidente degli Stati Uniti avesse cosi' poco appoggio dal popolo americano. Oliver Stone ha cercato di spiegarlo mettendo in evidenza nel suo film "W." non gli errori, non le scelte politiche di Bush, quanto l'uomo, con il suo vizio del alcol, i suoi problemi, generazionali prima e di confronto poi, con il padre, fino ad arrivare alla superficialita' di una figura che a detta del regista "non ha combinato un cazzo nella vita fino ai 40 anni".

Dal punto di vista cinematografico il film e' divertente e veloce nonostante le oltre due ore. Fino alla riunione di Stato dove i magnifici 5 (Bush, Ramsfield, Powell, Rice e Cheney) decidono l'attacco all'Iraq per mere questioni economiche, si e' di fronte ad un film per molti versi "teen" (vedi ammissione confraternita di Yale); ma dopo quel momento lo spettatore, con orrore, capisce che quell'omino piccolo e insignificante, facile ai vizi di ogni genere, e incapace di prendersi responsabilita' di alcun tipo (Bush passa da un lavoro ad un altro), diventa il PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI, ovvero l'uomo piu' potente del mondo.

Daquesta biografia si comoprendono con facilita' i motivi della cattiva gestione; ma non e' Bush il solo. C'e' Cheney, dipinto come un arrivista, un politico imperialista che vorrebbe tornare al 1600 quando l'Inghilterra con la sua Compagnia delle Indie aveva conquistato il mondo, la Rice, inetta e senza personalita' e' piu' che altro una figura passiva, Rumsfield, disonesto a tal punto da essere cacciato addiritura dal Presidente (e il che e' tutto dire) e infine Powell, angelo nero dentro quel gruppo fanatico scatenato che cerca di riportare razionalita' all'interno del gruppo senza essere pero' ascoltato.

Alla fine del film si capiscono tante cose, o meglio piu' che capirle, vengono confermate. Assolutamente da vedere, anche se dal punto di vista cinematografico non c'e' niente di particolarmente rilevante da sottolineare, e che ci si potrebbe aspettare dal regista di Platoon.

**1/2

Alessandro

martedì 20 gennaio 2009

Ancora una volta l'Italia non sara' rappresentata


Dopo il successo raggiunto con la Palma a D'Oro a Cannes, l'ennesima delusione per l'Italia che, con il film fenomeno Gomorra, questa volta pensava davvero di avercela fatta. E invece no, nonostante l'appoggio di un monumento come Martin Scorsese, il rimbalzo era nell'aria dopo la sconfitta ai Golden Globe per mano di "Valzer con Bashir". Sinceramente un'esclusione cosi' repentina, addirittura alla terza fase di selezione, e' un pugno nello stomaco, difficile da digerire.

Premesso di non aver visto tutti e nove i film selezionati, rimango spiazzato e amareggiato per l'ennesima bocciatura; intesi, il dispiacere non e' tanto per la serata degli Oscar, passerella espositiva e glamour prima che cerimonia cinematografica, quanto piuttosto la mancata occasione di ricevere un importante riconoscimento internazionale per l'ottimo lavoro svolto da Garrone nel suo film. Una candidatura avrebbe potuto rilanciare il nostro cinema da troppo tempo stagnante in una prolungata catena di film di bassa qualita' momentaneamente interrotta dal Il Divo di Paolo Sorrentino e lo stesso Gomorra di Garrone.

A questo punto le spiegazioni sono due: o oggettivamente il film era meno meritevole degli altri nove in concorso, o, per qualche motivo, l'America ha valutato il film troppo locale per essere compreso anche a livello internazionale; una domanda sorge spontanea... Non era meglio allora far concorrere "Il Divo"?

http://it.youtube.com/watch?v=eyo5CSrQnFw

Alessandro

domenica 18 gennaio 2009

Sette Anime


Muccino fa ancora flop

"Sette anime" il nuovo film hollywodiano di Gabriele Muccino è definitivamente un passo avanti rispetto al suo primo lavoro "La ricerca della felicità", ma si mantiene sullo stesso genere, drammone strappalacrime con una struttura narrativa di fondo completamente inesistente.

Se si racconta la storia del film, si può capire quanto la trama risulta semplice, banale e a tratti incomprensibile (non si capisce,infatti, perchè il protagonista debba fingersi un agente del fisco per trovare persone da salvare); ma un elogio a Muccino va fatto: la sua grande capacità di gestire gli attori è invidiabile a detta sia di Will Smith che di Rosario Dawson, entrambi bravissimi nel film a distogliere lo spettatore da un vuoto e una inconsistenza narrativa di fondo.

La storia è quella di Ben Thomas, ex-ingegnere che dopo aver perso la moglie in un incidente stradale e aver causato la morte di altre sei persone, dedica la sua vita a cercare sette anime da salvare per poter, in questo modo, auto-perdonarsi di una colpa che lo affligge ancora nel profondo. Per cercare queste sette persone, il protagonista si finge un esattore delle tasse (perchè?), ma si innamorerà di nuovo portandolo ad una scelta drammatica e finale.

Come già anticipato, il film ruota intorno alla figura di Will Smith e Rosario Dawson, gli unici due personaggi veramente studiati e approfonditi nelle loro personalità; tutti gli altri (il fratello, il cieco, l'amico di Ben) sembrano essere puramente di contorno, distogliendo lo spettatore dal senso del film e l'obiettivo celato nel misterioso titolo "Sette anime". Il film infatti si concentra limitatamente sul bisogno di Ben di salvare sette persone, è sembra perdersi di più nella storia d'amore tra i due protagonisti, pateticizzata dal fatto che il personaggio di Rosario Dawson è morente. E' come se fossero due film in uno destinati ad incrociarsi nel finale: da una parte la ricerca delle sette anime, dall'altra la storia d'amore impossibile alla Titanic tra i due personaggi. Se ciò è evoluto bisogna appuntare a Muccino che questa scelta non premia la sua volontà e delinea un'incoerenza di fondo non percepita dallo spettatore comune grazie all'intelligenza del marketing di celare la trama sia nel trailer che nel titolo. Se, al contrario, ciò non è voluto, la cosa diventa ancora più preoccupante data l'incapicità del regista di sviluppare un tema principale senza perdersi in inutile vezzeggiamenti.

Non sono e non sono mai stato un ammiratore di Muccino. Quando girava in Italia, l' ho sempre visto come un regista commerciale che guarda più al pubblico in un narcisistico tentativo di piacere ai più, piuttosto che esprimersi ed esprimere il proprio punto di vista. Era successo nel film "Ricordati di me" dove nel finale manteneva una posizione aperta proprio per non inciampare in opinioni che potessero offendere o deludere lo spettatore. I suoi due film americani mostrano un cambio di stile evidentemente hollywodiano; il tentativo è quello di strappar lacrime e commuovere, nel primo film "La ricerca della felicità" mostrando la realizzazione del sogno americano, nel secondo caso raccontando un dramma umano. Se nel primo film il patetico stava nell'eccessivo buonismo di fondo e nei disperati tentativi di commuovere lo spettatore attraverso il bambino e il personaggio protagonista, nel secondo è la storia con la sua vena di eroismo spiccio tipico di film blockbuster americani. La cosa peggiore è che in nessuno dei due la commozione viene percepita per la loro evidente finzione, e alla fine non lasciano niente di importante dentro.

Muccino stesso aveva detto che non avrebbe più girato ad Hollywood a causa della risaputa strapotenza dei produttori che impongo al regista tagli e linee da seguire, risultando i veri artefici del prodotto cinematografico. Il fatto che il regista italiano sia ancora li, da una parte dimostra la sua poca personalità (assolutamente evidente nel momento in cui lo si sente parlare), dall'altra il suo attacamento alla popolarità passando da regista appassionato a semplice artigiano cinematografico. Questo triste passaggio è stato rifutato da ben più grandi registi, a partire dai grandi Rossellini e De Sica per arrivare ai più moderni Salvatores, Tornatore e Garrone.
"Non avevo compreso il significato del dramma. Pensavo che il dramma si realizzasse quando gli attori piangono. Ma il dramma si realizza quando gli spettatori piangono." (Fran Capra)
*1/2 (*****)

sabato 3 gennaio 2009

Il Bambino con il pigiama a righe


La violenza dell'ingenuità

E' attualmente nelle sale il nuovo film del regista inglese Mark Herman, "Il bambino con il pigiama a righe". Con un discreto successo di pubblico (433.000 euro incassati al botteghino), il film si rivela una sorpresa felice (piuttosto triste nella sua trama) in un periodo natalizio come al solito magro di film lontanamente guardabili.

Il film racconta la storia di un bambino tedesco, Bruno, travolto durante la sua più spensierata infanzia dalla situazione politica e militare della Germania nazista di inizio anni 40. Costretto a trasferirsi con la famiglia in una campagna a sud di Berlino, Bruno conosce un bambino della sua stessa età, Shmuel, ebreo e costretto ai lavori forzati in un campo di concentramento. Da quel momento ne nascerà un'amicizia fatta di alti e bassi che unirà le due piccole vittime dell'odio raziale ad una tragica fine.

"Il bambino con il pigiama a righe" affronta la tematica del nazismo da una prospettiva nuova, per certi versi più cruda e aspra perchè filtrata dall'innocenza di un bambino che non solo non capisce cosa gli sta succedendo in torno, ma che pensa e trasforma tutto in gioco. I paradigmi gioco-innocenza e razionalità-dolore sono costantemente mischiati nel film, partendo da un'immagine soft iniziale mostrando 4 bambini, tra cui il protagonista, correre spensierati come areoplanini per Berlino, alternando scenari di vita  comune a scene di deportazione, ed esasperato alla fine dove un'ingenuo gioco si tradurrà in massimo dolore. Molti hanno accostato il film al capolavoro Benignano "La vita e bella" commettendo un errore di base che putrebbe distogliere la lettura del film. 

Mentre il film di Benigni viene giocato sugli equivoci, sui ruoli dei personaggi, sul lato favolesco del rapporto padre-figlio trasportato in un contesto drammatico come l'olocausto, questo film non cerca la favola, non viene corrotto da una potenziale retorica scaturente dal tema delicato dei campi di concentramento e l'infanzia dei bambini, ma sopratutto mira a cogliere la contrastante visione della realtà tipica dell'età dell'innocenza caratterizzata dall'avventura e dall'esplorazione. E' mirabile la capacità del regista di far cogliere allo spettatore gli avvenimenti dagli occhi di Bruno, fancendo comprendere la totale assenza di consapevolezza e di conoscenza del dolore.

A questo punto vale la pena soffermarsi sul rapporto tra i due bambini. E' struggente la diversità dei due derivante dal diverso modo nel quale stavano vivendo quella stessa situazione: Shmuel viene dipinto come ben più consapevole, ben meno innocente, trattando Bruno quasi come uno stupido (come quando gli chiede ripetutamente del numero) nei loro dialoghi. Allo stesso tempo, Shmuel non perde l'innocenza e insieme al suo nuovo amico cerca il padre scomparso come se fosse un gioco. Bruno, dal canto suo, non conosce, non prova, e per questo motivo che il contrasto con la situazione che vive è ancora più marcata. E' la trasposizione in personaggio del contrasto innocenza-razionalità (così come preannunciato dalla citazione iniziale).

Il film è crudo, così come i personaggi descritti che vengono presentati esattemente come Bruno li concepisce (il padre prima buono poi cattivo, la sorella come una ragazzina stupida che non sa quello che fa, la madre e la nonna come donne buone e affettuose..), e il finale è un escalation di emozioni che termina con un dramma che lascia lo spettatore assolutamente senza fiato. La bellezza del film sta nel non cadere nel patetico in situazioni che ne avrebbero offerto l'opportunità, ma sopratutto nel aver mantenuto una struttura narrativa e visiva (la prospettiva del bambino) che ne aumenta la  crudezza,sopratutto all'inizio, e che si trasforma in un virtuoso circolo di emozioni, sotto forma di pugno nello stomaco, nel finale.

Da vedere!

***1/2 (*****)